Gli scaffali (vuoti) di Ryadh ospiti a Torino
La vera notizia saranno gli scaffali dello stand (presumibilmente imponente) dell’Arabia Saudita, il paese ospite del prossimo Salone del Libro, edizione 2016. E cioè: ci saranno libri, su quegli scaffali? E quali tipi di libri? La domanda non è peregrina, visto che in Arabia Saudita vige la censura, soprattutto sulle opere d’arte. Un esempio su tutti, citato qualche mese fa da una delle riviste d’informazione online più interessanti, Al Araby. L’esempio è quello di Abdo Khal, lo scrittore saudita che vinse l’edizione 2010 dell’International Arabic Fiction Prize, uno dei più importanti premi letterari arabi, di certo il più conosciuto in Occidente. Abdo Khal vinse con un romanzo pubblicato non a Ryadh, bensì a Beirut e Bagdad. E sì, perché Abdo Khal, di suoi libri vietati in Arabia Saudita, ne ha almeno otto.
Non è l’unico, Abdo Khal. Non è l’unico, non è l’ultimo, non è neanche il caso più grave di violazione della libertà di espressione, e dunque anche di scrittura. Raef al Badawi, blogger ormai noto, ha rischiato la pena di morte per apostasia, e solo le campagne internazionali in sua difesa gli hanno risparmiato sinora alcune delle mille frustate a chi è stato condannato. Per aver scritto, per aver pubblicato, soprattutto per aver aperto un sito considerato pericoloso. Forse perché si chiama Saudi Liberals. In sua difesa non è scesa in campo solo Amnesty International. È sceso in campo anche PEN International, l’organizzazione internazionale degli scrittori.
Censura, e che censura! Pene corporali di cui abbiamo dimenticato l’esistenza (per fortuna). Pena di morte in vigore, e comminata spesso, in Arabia Saudita, attraverso decapitazione (chissà perché, ci fa impressione solo se a decapitare sono quei terroristi dell’ISIS…). E poi violazioni quotidiane dei diritti umani, civili, di genere.
In un paese, l’Italia, che si tenta di far diventare islamofobo, nulla o poco si dice su quello che devono penare le donne saudite. Anche quelle ricche, come le sorelle Olayan, tra le più ricche (ricchissime) del Paese. Muovono conglomerati, multinazionali, imperi economici, ma non possono guidare. E quelle che così ricche non sono, vanno in galera se provano a sfidare il divieto di guida, com’è successo soprattutto dal 2011 in poi. Ci sono veli e veli, insomma. Veli che dovremmo additare a simbolo di sottomissione. E veli che dovremmo ignorare, se serve al manovratore.
Singolare, dunque, che il Salone del Libro di Torino abbia scelto l’Arabia Saudita come paese ospite dell’edizione 2016. Non per i sauditi, beninteso, le prime vittime del regime. Ma proprio per il regime… Quale cultura porterà al Lingotto? La cultura saudita, o la cultura degli Ibn Saud, della famiglia reale, della retriva interpretazione wahhabita dell’islam, della polizia religiosa, dei clerici ultraconservatori? E con chi avranno a che fare, i funzionari del Salone? Con Abdo Khal e con gli altri scrittori e le altre scrittrici costretti a pubblicare fuori dai confini sauditi, oppure con la burocrazia del ministero della cultura, cioè con i censori? La risposta è scontata: i censori decideranno chi portare a Torino. Come successe con l’Egitto di Hosni Mubarak, che ora sembra tornato in auge tra chi, opinionista o direttore di testata, proclama la necessità della Realpolitik.
Ero al Salone di Torino edizione 2010, invitata come esperta di mondo arabo, e c’era Ala al Aswani, proprio quando era paese ospite l’Egitto. Aswani non volle essere parte della delegazione ufficiale, lui dissidente. Era lì come individuo, e trattò con il disprezzo che meritavano i funzionari del ministero della cultura, lo stesso ministero che aveva censurato molte sue pagine. E ora noi, intellettuali, dovremmo avallare la letteratura e la cultura scritta proposta da un altro ministero della cultura, di un paese in cui vige una censura diffusa, capillare, durissima?
Qual è il fine? Mostrare che l’Arabia Saudita è un buon alleato dell’Italia e delle sue imprese economiche?
Oppure c’è anche altro? Sono tempi, questi, in cui è il cliché a vincere, per avallare scelte geopolitiche, se non dubbie, almeno miopi. E allora, è necessario mostrare non gli arabi, quelli veri e dunque invisibili. È necessario mostrare lo stereotipo dell’arabo. Che il miglior arabo è quello ricco, non certo il profugo siriano, palestinese, e fra un po’ yemenita. Meglio lo sceicco ricchissimo, il petrosceicco vestito di bianco, tutto oro e opulenza, a cui serve mostrare a sua volta un mecenatismo in campo artistico e culturale. Tanto ridondante da coprire altre scelte dal punto di vista politico e militare.
Avallare la macchietta alla Totò è molto più semplice che indagare ciò che è successo in campo letterario nel mondo arabo nell’ultimo decennio. E per altro verso, non solo all’Arabia Saudita, conviene mostrare un altro volto del mondo arabo. Per far dimenticare le rivoluzioni, e soprattutto far dimenticare chi, tra cui l’Arabia Saudita e i paesi del Golfo, ha messo in campo tutta la propria influenza strategica ed economica per distruggere il secondo Risveglio arabo. Un risveglio culturale e sociale che comprendeva, e comprende, semi artistici diversi, quelli — appunto – che il regime di Ryadh censura.
Bastava chiedere ai tanti arabisti che studiano la regione araba. Ai tanti che dall’Italia se ne sono andati, e che sono esperti della materia a livello internazionale. Bastava chiedere a loro, per evitare una pessima figura. Ma forse, proprio a loro non bisognava chiedere, per evitare di sentirsi fare domande scomode. La prima, la più importante: perché?


