#FreeAlaa. Per una intera generazione
“Scrivo di una generazione che ha combattuto senza disperazione e senza speranza, che ha vinto solo piccole vittorie e che non è stata scossa da grandi sconfitte, perché questo era l’ordine naturale delle cose. Una generazione le cui ambizioni erano più limitate delle ambizioni di coloro che sono venuti prima di noi. Una generazione i cui sogni, però, erano più grandi”.
“Ci sono tante cose che non vanno bene, in me. Ma non sono un traditore. Sono colpevole di vigliaccheria e di egocentrismo. Sono stato talvolta impaziente e avventato, sono stato orgoglioso e pigro, ma mai un traditore. Non tradirò la rivoluzione con la disperazione o con la speranza. Questa è una promessa”
Lo ha scritto Alaa Abdel Fattah qualche mese fa, durante la precedente detenzione. Scriverà righe altrettanto importanti, per la sua generazione e per l’Egitto, anche ora, che è stato riportato in galera con una condanna a 15 anni. Lui assieme ad altri 24 (giovani) imputati nel processo riguardante le proteste di fronte al Consiglio della Shura, all’indomani della decisione di restringere il diritto di manifestare. 15 anni di galera per manifestazione non autorizzata, insomma, e per aver sottratto un walkie-talkie a un poliziotto.
Alaa Abdel Fattah (@alaa) non aveva organizzato la protesta, indetta da sua sorella, Mona Seif e dall’associazione che si oppone ai processi contro i civili da parte dei tribunali militari. E non ha rubato il walkie-talkie. Ma non stupisce che sia di nuovo in prigione, soprattutto dopo l’intronazione di Abdel Fattah al Sisi come nuovo presidente egiziano, in continuità con i presidenti-militari della storia repubblicana del paese. @alaa, e la sua generazione, sono un pericolo per il regime. La loro presenza sulle strade – la presenza della generazione di @alaa – dice che le richieste di piazza Tahrir non sono state neanche prese in considerazione. Le ragioni che hanno scatenato la rivolta di piazza Tahrir sono tutte lì, nonostante la normalizzazione abbia vinto. Almeno per il momento.
Per vincere del tutto, il regime guidato da Sisi ha bisogno che nessuno sia per le strade. Che nessuno, insomma, ricordi agli egiziani che nulla è stato risolto, né dal punto di vista socioeconomico né da quello civile e politico. Per questo è stata approvata quella legge liberticida contro le proteste in pubblico, per le strade, in piazza, violata da Alaa e dagli altri. Dunque, @alaa, i detenuti del processo Shura 25, Ahmed Maher e i ragazzi del movimento 6 aprile, le migliaia di prigionieri (non solo islamisti) rinchiusi in galera nella lunga ondata di repressione che dura da poco meno di un anno, debbono scomparire dalla dimensione pubblica, perché visualmente gli egiziani possano farsi cullare da un altro tipo di racconto. Come quello che Sisi, nuovo rappresentante dei culti della personalità, sta narrando, per esempio istituendo il giorno del ciclismo e guidando un bel numero di egiziani su due ruote. Come ha fatto ieri. L’Egitto, l’Egitto ‘verde’, l’Egitto salutista. L’Egitto che cura l’Egitto e gli egiziani.
Una cura mediatica, quella condotta dal regime egiziano, che riguarda anche i diritti civili. Persino i diritti di genere, calpestati negli scorsi anni anche con i test della verginità condotti dai militari durante piazza Tahrir… Sisi è andato a visitare in ospedale l’ultima donna in ordine di tempo vittima di violenza sessuale. Le ha portato un bel mazzo di rose rosse, proprio nelle stesse ore in cui @alaa veniva portato di nuovo in galera, condannato da un giudice con cui si era scontrato nel 2005. In occasione delle ennesime elezioni truccate dell’era di Hosni Mubarak.
Ma perché bisogna colpire proprio Alaa Abdel Fattah? La prima risposta, secca, dovrebbe essere: non è stato colpito solo lui. Assieme ad @alaa ci sono altri 24 condannati alla stessa incredibile, lunga pena. Assieme a lui ci sono migliaia di detenuti politici. Assieme a lui c’è Abdallah El Shamy, un giornalista, uno di quelli di Al Jazeera, che sta morendo in carcere perché è in sciopero della fame. Eppure, l’arresto di @alaa assume – necessariamente – un altro valore e un altro peso.
Nonostante non abbia mai voluto assumere su di sé un ruolo di leadership, e dunque carismatico, Alaa Abdel Fattah è divenuto iconico. Più per i ragazzi di Tahrir che per una opinione pubblica internazionale distratta, disattenta, indifferente. Il suo essere iconico si condensa in tre elementi: il primo, il suo essere il tipico, normale rappresentante di una generazione che, come dice lui, “ha combattuto senza disperazione e senza speranza”. Una generazione lucida, insomma, senza la retorica della passione politica che aveva segnato i fratelli maggiori e i padri (non solo in Egitto). Lucida, disincantata, delusa, ma non per questo senza sogni e desideri grandi. Enormi.
Il secondo elemento che distingue @alaa dagli altri è proprio la ragione per la quale viene ritenuto un privilegiato, un detenuto con un nome e una visibilità internazionale, a differenza di migliaia di altri prigionieri che restano – ahimè – anonimi: essere figlio e nipote di una famiglia di dissidenti e oppositori, figlio dell’intellighentsjia egiziana. È proprio lì che bisogna colpire, togliere la sua visibilità dalla dimensione pubblica e relegarla nell’oblio.
E poi il terzo, forse il più importante elemento, è la caratura politica di Alaa Abdel Fattah. La sua capacità di leggere politicamente quello che è successo almeno negli ultimi dieci anni in Egitto. La sua abilità nel tessere la rete della sua generazione, già da quando – assieme alla sua compagna di vita, di informatica e di politica Manal Hassan – ha creato la prima blogosfera egiziana verso il 2005. La prima rete, la prima trama. Questa sua indubbia, evidente, chiara capacità politica è quella che fa più paura. Nessuno, più di lui, è riuscito a incarnare Tahrir senza esserne travolto. Nessuno fa più paura di lui, che non è solo un analista, ma è un protagonista politico. Nessuno, come lui, è riuscito nei momenti cruciali a svelare le mosse del regime che si stava rimettendo in piedi, a renderle pubbliche e soprattutto a trasformarle in mosse politiche.
Sin dai tempi dei jongleur, il re si consentiva di essere dileggiato, ma nel chiuso della sua corte. Al Cairo non è più il tempo in cui si può dire che il ‘re è nudo’. Ne andrebbe del potere del re, per ora saldo sulle fondamenta di un regime che ha rafforzato le sue strutture. Ma la paura per una generazione di giovani che chiede futuro è talmente evidente, che persino il numero di anni a cui gli Shura 25 sono stati condannati è indicativo. 15 anni. Se li dovessero trascorrere tutti in galera, ne uscirebbero non piu giovani. Provati e vecchi. Perché a far paura, quasi terrore al regime, è la loro giovinezza. Il loro tempo lungo. Per dirla con Elia Suleiman, the time that remains… Per i ragazzi, non per un regime stantio.


