Sette anni dopo…
Sette anni…persi
Ma quale governo di unità nazionale palestinese? Non ne so nulla… Dove l’hai sentito? La candida domanda di un caro amico romano, ieri, ha racchiuso – involontariamente – il senso di quello che è successo all’inizio di giugno a Ramallah, Washington, Bruxelles, e in qualche altra capitale determinante in Consiglio di Sicurezza ONU (comprese Pechino e Mosca). In punta di piedi, il mondo che conta ha sdoganato non solo il governo di unità nazionale palestinese, ma anche Hamas. Non per amore del movimento islamista, ma perché lo stallo in casa palestinese è durato talmente a lungo da non poter più reggere. Non perché si abbiano in mano le chiavi per risolvere il conflitto israelo-palestinese, ma perché la situazione umanitaria di Gaza è talmente scandalosa che qualcosa bisogna pur fare, passando attraverso gli strumenti forniti dell’Anp a Ramallah. E poi perché lo smacco subito da John Kerry nell’ultima tornata ‘negoziale’ [sic!] dalla rigidità del governo di Benjamin Netanyahu non può passare così, senza conseguenze.
In punta di piedi, si sono ora superati in poche settimane ostacoli che si definivano insormontabili tra 2006 e 2007, quando Hamas vinse le elezioni politiche palestinesi e successivamente raggiunse con Fatah l’accordo della Mecca del febbraio 2007 per un governo di unità nazionale che durò lo spazio di una brevissima primavera. Eppure, si potrebbe dire che non c’è nulla di eclatante, ora. Nulla che può aver spinto le cancellerie occidentali a cambiare le loro posizioni verso Hamas. Perché il movimento islamista palestinese era molto più morbido tra 2006 e 2007, quando l’ala riformatrice era più molto più forte negli equilibri interni di Hamas e i suoi leader cisgiordani non erano, come sono da anni, in buona parte nelle galere israeliane.
Allora, sette-otto anni fa, vinse però la linea dell’embargo e dell’isolamento di Hamas spinta e decisa dal governo israeliano guidato da Ehud Olmert, ex premier condannato poche settimane fa per corruzione. Né Washington né Bruxelles ebbero la forza di premere su Tel Aviv per aprire quella finestra di opportunità che oggi, mentre si apre, mostra l’usura degli anni, gli infissi scrostati, la ruggine delle cerniere. Soprattutto, Washington e Bruxelles ammettono di aver sbagliato, a non tentare di moderare Hamas tra 2006 e 2007, quando aveva deciso la cosiddetta svolta partecipazionista. Con tutti i lutti che la mancanza di coraggio ha provocato negli anni a venire: migliaia di morti, tutti quelli dell’Operazione Piombo Fuso a Gaza e i morti quasi quotidiani in Cisgiordania.
Nelle conversazioni private, più e più volte mi sono sentita ripetere che tra 2006 e 2007 si commise un errore madornale a isolare Hamas, perché la transizione politica del post-Arafat era talmente fragile che mettere il movimento islamista in un angolo avrebbe solamente provocato un disastro. Se poi a tutto questo si aggiungono i tanti soldi spesi dall’Occidente per rafforzare lo strumento militare in mano a Mahmoud Abbas, e pensare di risolvere tutto in maniera securitaria rafforzando la presidenza dell’Anp, si capisce quando i ‘nostri’ politici non abbiamo solamente commesso errori di omissione. Ma siano stati parte in causa nel disastro di questi anni. La Palestina spaccata, Cisgiordania e Gaza lontanissime, un personale politico palestinese che prova a salvare se stesso nell’ultimo tentativo di riguadagnare i consensi di una società che pretende altro. Pretende dignità e futuro, e soprattutto pretende soluzioni politiche e diplomatiche del conflitto che siamo reali.
Ora, con sette anni di ritardo, si appoggia un governo di unità nazionale che si è formato per via delle debolezze in casa palestinese, tra l’anp di Ramallah pressata da una tensione quotidiana tra coloni, esercito israeliano e popolazione palestinese, e Hamas chiusa a chiave dentro una Gaza assediata da tutti i lati. Con sette anni di ritardo, e soprattutto in punta di piedi: nessuna enfasi va posta sul governo di unità nazionale palestinese, nessun titolone, nessuna prima pagina. Altrimenti, ci si potrebbe chiedere cosa è successo, in questi anni. Cosa è stato fatto, cosa è stato omesso, cosa si sarebbe potuto fare? Le responsabilità, le colpe, l’ignavia, l’ignoranza, la tracotanza, il piccolo cabotaggio… Troppo da spiegare. Meglio metter tutto in poche righe, in una breve.
Conosco troppo bene l’argomento, perché ho visto, seguito, inveito contro l’incapacità politica delle cancellerie giorno dopo giorno, a Gerusalemme. Preparavo il libro su Hamas [il passo dopo passo del disastro politico lo trovate lì, nell'edizione italiana del 2009 pubblicata da Feltrinelli, ma soprattutto nell'edizione americana di Seven Stories Press del 2012]. Seguivo la cronaca politica israeliana e palestinese, guardavo gli errori assieme agli amici diplomatici e funzionari internazionali. Loro, giorno dopo giorno, con le mani legate. Le dimissioni eccellenti di Alvaro de Soto, con il suo j’accuse reso pubblico subito dopo, sono state il simbolo di questo senso di nausea di un buon numero di funzionari internazionali che si sono visti la Storia passare vicino, e non hanno potuto far niente per toccarla.
Nella foto, i palestinesi di Gaza guardano il match di calcio Palestina-Filippine per entrare nell’Asia Cup.


