«L’intelligenza artificiale non esiste»

Social, AI e libertà. Dialogo con l’esperto di comunicazione Antonio Palmieri. «Gli influencer possono essere testimonial o testimoni, c’è più bisogno dei secondi. Non siamo vittime predestinate degli algoritmi»
«L’intelligenza artificiale non esiste. E noi non siamo vittime predestinate degli algoritmi». Antonio Palmieri si occupa di comunicazione da una vita, lo ha fatto con quello che è senza dubbio il più grand influencer politico italiano di sempre, Silvio Berlusconi. Per lui ha curato tutte le campagne elettorali, ed è stato responsabile internet di Forza Italia, nelle cui file ha seduto alla Camera dei deputati dal 2001 al 2022. Oggi è presidente della Fondazione Pensiero Solido, che ha fondato, e continua a occuparsi di comunicazione, innovazione digitale e sociale e di intelligenza artificiale.
Chiacchierando con Tempi di questi temi, Palmieri — che è stato tra i protagonisti del Giubileo dei missionari digitali e degli influencer cattolici il 28 e 29 luglio a Roma — offre un giudizio lucido su un argomento spesso trattato con toni eccessivamente allarmati o entusiastici.
Da luogo di libertà d’opinione, ponte, condivisione, luogo per informarsi, si dice che i social network sono diventati campo di battaglia politico, veicolo di fake news, luogo di censura, canale per influenzare l’opinione pubblica. Per fare l’esempio più eclatante, Donald Trump ne era stato estromesso dopo la sconfitta nel 2020, e oggi li usa per portare avanti — anche in modo estremo — le sue idee. Sono davvero peggiorati i social, o sono solo cambiati?
Intanto io credo che quando parliamo dei social siamo influenzati dal fatto che la prima lettura del fenomeno è stata data in una versione utopistica, non adeguata cioè a come è fatto l’essere umano. I social sono stati presentati come il luogo di realizzazione del Sessantotto, pace, amore, libertà, come se gli esseri umani che li abitano fossero diversi da quelli in carne e ossa. Scontiamo nella narrazione questo punto di vista utopistico, quando invece noi esseri umani siamo sì straordinari, ma anche straordinariamente delinquenti. Essendo ideologico il punto di partenza è moralistico il punto d’arrivo, dire cioè che adesso “i social fanno schifo”.
Che cosa sono oggi i social?
Per me sono uno specchio, riflettono cosa ognuno di noi mette dentro, e penso naturalmente che chi le gestisce dovrebbe avere più responsabilità. Ma all’inizio, soprattutto Facebook e Instagram, sono nati come intrattenimento, non strumento di impegno, mobilitazione e manipolazione. Erano un luna park, piattaforme di intrattenimento e trattenimento in competizione per avere la nostra attenzione, come fa chiunque, anche un giornale. Ecco perché penso che ci si scandalizza per l’inevitabile: è vero che le grandi potenze manipolano ad esempio l’opinione degli elettori degli altri paesi grazie a questi canali, prima lo facevano con i rubli e le testate “amiche” in occidente. I social hanno un impatto maggiore, che però può essere ridotto dalla nostra scelta personale della “bolla” in cui stare. Sui social si mette in pratica l’antico adagio “mogli e buoi dei paesi tuoi”, per cui noi cerchiamo chi ci è simile e chi ha le nostre passioni.
Si dice che gli influencer siano quelli in grado di far cambiare le opinioni e indirizzare le persone. Ma di cosa parliamo quando parliamo di queste figure?
Io li dividerei in due tipi: i testimonial e i testimoni. I primi sono coloro i quali, avendo grandi capacità comunicative, occupano per primi una nicchia di uno o più prodotti. Nella “società su misura” in cui viviamo, grazie anche all’aiuto dei media mainstream, il testimonial diventa famoso e presta il suo volto per promuovere un prodotto. Il testimone è una cosa radicalmente differente: è una persona che porta una vita nella comunicazione, e non si limita a mettere un’immagine su un prodotto. Il testimone vive quello che trasmette, il testimonial no. In questo senso Berlusconi era un testimone, così come Martin Luther King.
Oggi sono più i testimoni o i testimonial?
I testimonial. I testimoni, anche per “colpa” della comunicazione mainstream, sono diventati una razza in via d’estinzione. Ma siccome alla lunga la reputazione prevale sull’immagine, nelle persone resiste un desiderio di autenticità, quindi di ritrovare i testimoni. È questo è vero soprattutto tra i giovani, che cercano in ogni ambito dei testimoni credibili.
Lei si occupa molto di intelligenza artificiale, e lo fa con un approccio positivo, senza demonizzarla né dipingerla come la salvezza dell’umanità. Dobbiamo averne paura?
L’intelligenza artificiale non esiste: qualsiasi chatbot dice quello che sa ma non sa quello che dice, le sue risposte sono una sequenza probabilistica. È vero che crescono gli investimenti per fare in modo che sia sempre più antropomorfa, migliorando la cosiddetta “empatia artificiale”, farle dare risposte che generino l’illusione di parlare con uno come noi. Il futuro dell’Ai dipende dall’uso che ne fa ciascuno di noi singolarmente, e da come siamo educati a usarla.
Lei ripete spesso che l’Ai è una sfida all’umanità.
Lo è, perché ci obbliga a ridefinire noi stessi, mette in discussione capacità che erano solo nostre fino a due anni e mezzo fa: pensare, scrivere, generare immagini, poesie, video… Possiamo stare all’altezza di questa sfida solo se recuperiamo due aspetti: il primo è il fatto che siamo esseri relazionali. Il lato conversazionale dell’Ai tende a imbrigliarci in un dialogo privato uno a uno, a noi tocca stare tra noi consapevoli che siamo finiti e non perfetti. L’altro aspetto è che non siamo solo esseri razionali, non siamo “tutto cervello” e basta, in noi c’è una componente non razionale che a volte è prevalente, che il lato conversazionale dell’Ai non considera. In sé è uno strumento straordinario, bisogna capirne i meccanismi e aiutarci a usarla nel modo migliore. Ad personam e ad aziendam.
Robert Prevost ha scelto come nome da Papa quello di Leone XIV, dichiarando apertamente che è sua intenzione avviare una riflessione da parte della Chiesa sull’intelligenza artificiale e il suo impatto su società e lavoro contemporanei. Lei che cosa si aspetta dal nuovo Pontefice in questo senso?
Innanzitutto continuità con le plurime prese di posizione di Francesco sulla responsabilità di proprietari e programmatori dell’Ai, un monito a tenere presente che non tutto ciò che è tecnicamente possibile è umanamente accettabile, un appello ai governanti a non sottovalutarne l’impatto e a regolamentarne l’uso. Mi auguro anche che ci sia un forte richiamo al fatto che noi non siamo vittime predestinate della forza dell’algoritmo, ma abbiamo lo spazio per esercitare la nostra libertà e quindi la nostra responsabilità. Nessun algoritmo può obbligarmi a scrivere un post di insulti o postarlo al posto mio. L’essere umano sa usare al meglio gli strumenti che già ci sono. Un esempio? Sempre più giovani usano Instagram come piattaforma di messaggistica, postano meno e seguono chi è rilevante. Se uno strumento mi espone a qualcosa di male, con l’intelligenza posso usarlo meglio, in modo congruo a me. E non è poco.
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