Oggetti musicali non identificati: Alanis Morissette in concerto
Sei da qualche parte intorno alla metà degli anni ’90 e d’un tratto stai provando a costruirti una nuova rete di amicizie, navigando a vista in un mondo che non conosci, muovendo i primi passi attraverso la terra ignota che ti ritrovi ad attraversare con altrǝ adolescenti come te, cercando tutti insieme, ognungo per la sua strada, di capirci qualcosa per non rimanere intrappolatǝ nelle paludi dei lunghi pomeriggi di studio, come nei deserti dei fine settimana senza scopo. Nel tratto della rivoluzione terrestre compreso tra l’equinozio d’autunno e il solstizio le giornate sono una successione monotona di istantanee grigie che scorrono veloci ma tutte identiche e ti sembra di avvicinarti a qualcosa di diverso solo quando per poco meno di un’ora hai la possibilità di perderti tra le pagine dell’ultimo albo di Nathan Never, che è appena entrato nella sua stagione matura e sta attraversando il suo periodo di massimo spessore artistico, o di Dylan Dog, soprattutto per parlarne con gli altri amici che lo leggono, perché a te inizia un po’ a stancare; oppure la domenica sera, che aspetti con una certa trepidazione per l’ultima puntata di X-Files che verrà trasmessa, o quando ti capita di riprendere in mano quella vecchia ristampa Millelire di Lovecraft o di Van Vogt, o quell’Urania di Dick che hai trovato chissà come in un’edicola al mare, vecchio già di qualche anno e ingiallito, ma ancora avvolto in quella freschezza di idee che lo squilibrato californiano vi aveva infuso mentre era intento a scriverlo qualcosa come quarant’anni prima.

E poi, d’un tratto, un oggetto musicale non identificato entra nella tua vita. Di musica ne ascolti poca e per lo più è quella che ti arriva dalle radio o dalle cassette degli 883 o di Lucio Battisti che circolano per casa, quindi immagina di ascoltare d’un tratto qualcosa che sembra arrivare dal futuro ma per parlarti della tua vita di tutti i giorni, senza che tu possa nemmeno davvero capirlo perché, insomma, il tuo inglese ancora adesso traballante all’epoca nemmeno esiste. Ma Jagged Little Pill scala le classifiche, gira nei walkman delle tue amiche e anche metà degli amici, quando la sua voce esce dalle casse del pullman della scuola o di una sala giochi, o si ammutolisce o prova a cantarne i versi insieme a loro. All’epoca Alanis Morissette è un fenomeno generazionale, che attraverso le sue esperienze di vita parla a ragazzǝ come lei, poco più grandi o poco più giovani, che la ricompensano comprando milioni di copie dell’album e dei suoi singoli: 33 milioni di copie, per l’esattezza, che la proiettano in testa alla chart di Billboard 200 e alle classifiche di mezzo mondo, mettendo a segno il record ancora imbattuto di album di debutto di maggior successo per un’artista femminile sul mercato USA, e attestandosi come l’album più venduto degli anni ’90.
Non è un caso. Alanis Morissette, che ha scritto le canzoni di questo disco poco più che ventenne, collaborando con il produttore discografico Glen Ballard (Aerosmith, Annie Lennox, Dave Matthews Band, No Doubt, tra gli altri) e facendosi notare da Madonna che deciderà di inciderlo per la sua etichetta Maverick Records, vi riversa tutta se stessa: delusioni, aspettative, timori, difficoltà, ansie, tradimenti, ferite, pressioni… e ne fa un potente antidoto per chi la ascolta senza avere ancora incontrato le stesse prove, o un irresistibile punto di connessione con chi ha cominciato a sperimentare gli stessi stadi d’animo lungo il proprio percorso. Che poi è una cosa che la musica fa sempre, ma riesce a fare bene solo quando è davvero sincera. E di sincerità, in quelle 13 tracce, Alanis ne riversa a piene mani.
Non deve sorprenderti quindi di ritrovare testimonianze simili da parte di persone molto diverse disseminate ai quattro angoli del pianeta. Non capisci molto di musica, né tantomeno di critica musicale, ma c’è una convergenza che non puoi non notare subito con altre forme d’arte, e che nella musica si manifesta con una maggiore persistenza perché in grado di operare su una molteplicità di livelli, spaziando dal piano più immediato della connessione emotiva a quello più profondo del significato del testo, rivoltando i vincoli dettati dalla metrica in un punto di forza quando spinge l’acceleratore sulle figure retoriche ereditate dalla poesia, tra metafore e assonanze, iperboli ed ellissi, e immagini che rivelano nuove, insospettabili concentrazioni di senso.

Qualche sera fa, eri a un suo concerto, proprio tu che odi i concerti, perché odi le attese, odi le resse, odi il caos e la promozione invadente, odi il merchandising e le campagne martellanti delle radio e ultimamente odi sempre di più il genere umano, ma apprezzi così tanto Alanis Morissette da averne consumato i CD quando ancora la musica girava in un lettore. E poi, diciamocela tutta, l’hai persino inserita nella colonna sonora dei tuoi libri. E sono bastate due note dopo l’apertura per fiondarti in una sorta di rituale pagano, un culto religioso di cui lei è l’unica sacerdotessa e voi i suoi adepti, meno di diecimila persone che spaziavano dagli adolescenti di oggi a quelli che già non lo erano più intorno alla metà degli anni ’90. E a ognuno di voi la sua musica diceva qualcosa, a volte veicolando lo stesso, inequivocabile messaggio, altre invece dispiegando una molteplicità di livelli di lettura che permetteva a ognuno di voi di declinare le note e le parole in maniera diversa, agganciandole a scampoli del proprio vissuto personale, a questo o a quel ricordo, a questa o a quell’altra persona con cui a un tratto vi siete ritrovatǝ a incrociare i sentieri, mentre sul palco Alanis Morissette ingaggiava ancora una volta il suo personale corpo a corpo con l’arte, un incontro che si rinnova da più di trent’anni e che da trent’anni a questa parte, proprio quest’anno, si celebra sulla ribalta mondiale.
Anche perché i suoi testi potranno sembrare a un primo ascolto di facile lettura, cristallini come la sua voce inconfondibile, pur nell’alternanza dei registri su cui ama giocare, saltellando dall’introspezione (You Learn, Head Over Feet) all’invettiva (You Oughta Know, Hands Clean), da note più malinconiche (Ironic, Mary Jane) a epifanie che sembrano annunciare, se non proprio ripristinare, la sintonia perduta con il resto del cosmo (Thank U). Ma in realtà i titoli in scaletta nascondono una complessità non sempre facile da cogliere, e spesso tradiscono un’ambiguità che li rende tutt’altro che di conforto o consolazione. Ed è impossibile non rileggerli in chiave molto più cupa, in certi loro passaggi, alla luce dei numerosi casi di abusi e soprusi che la cantautrice canadese ha denunciato negli anni di aver subito mentre cominciava ad affacciarsi nel mondo della produzione musicale, abusi a volte psicologici e altri non solo psicologici, che vanno ben al di là dei ricatti morali che si incontrano facilmente tra le strofe. E tutto questo, anche l’altra sera, non ha potuto che aggiungere dimensioni e profondità all’esperienza, mentre provavi a rimanere aggrappato al dorso della tigre mentre questa si dimenava e danzava, si difendeva e lottava, e il tempo sembrava accelerare e rallentare insieme al ritmo impartito ai pezzi dai suoi musicisti, dilatandosi oltre le barriere della percezione, per poi contrarsi in istanti di purissima, semplice e abbacinante, illuminazione.

E così hai finito per riconnetterti anche tu, almeno per la durata del concerto, con il resto del Creato, forse solo con l’illusione di una sintonia ristabilita, ma che tuttavia ha riverberato dentro di te ancora per diverse ore e diversi giorni dopo la fine della messa, e che continua a echeggiare da qualche parte ancora adesso, mentre ne scrivi perché per una volta, a distanza di tempo, non hai potuto fare a meno di farlo o solo perché hai deciso che stavolta non ti saresti lasciato scappare l’occasione di farlo spinto dall’urgenza di raccontare anche ad altri, forse non necessariamente di condividere, ma di lasciare scritta da qualche parte, una delle tante tracce con cui ci illudiamo di fissare l’attimo nell’inganno indotto di renderlo eterno, o almeno di farlo durare quel tanto che basterà per arrivare alla prossima finestra di lancio, o al prossimo incontro ravvicinato del terzo tipo con questo oggetto musicale non identificato, ma che ormai ti illudi di conoscere bene, che scorrazza nei cieli della musica e della tua vita dalla metà degli anni ’90 e che risponde al nome di Alanis Morissette.





