La villa dei Quintili

Situata al V miglio della Via Appia Antica, la Villa dei Quintili è il più grande complesso residenziale del suburbio di Roma, estendendosi verso nord sul poggio creato da una lingua di lava proveniente da antiche eruzioni del Vulcano Laziale, fino al corso d’acqua torrentizio (Fosso dello Statuario,chiamato cosi a causa delle statue che tornavano alla luce in grande quantità) che l’erosione aveva scavato ai suoi piedi, tanto che che dalla fine del Settecento il luogo fu chiamato “Roma Vecchia”, perché si credeva appartenessero ad una città.

Il fondo, in età repubblicana, apparteneva al ricco Quinto Cecilio, un equites che aveva fatto fortuna nel commercio e nella fabbricare toghe e armi per le legioni, il cui patrimonio, oltre a questa tenuta, ad uso agricolo, comprendeva dieci milioni di sesterzi e la domus Tanfiliana sul colle Quirinale, immersa in un bellissimo bosco.

Alla sua morte, il tutto fu ereditato dal nipote Pomponio Attico, l’amico di Cicerone, che, oltre a ricevere quantità industriali di lettere dall’Arpinate, aveva ereditato da Quinto Cecilio il pallino per gli affari. Arricchì i beni, comprando una vasta tenuta in Epiro (nella regione di Butrinto, allora Buthrotum) che fruttò utili provenienti dalla vendita di prodotti agricoli e di bestiame, Ulteriori cospicui proventi gli derivavano dalla concessione di prestiti bancari e da scuole di addestramento dei gladiatori.

Pur avendo accumulato tanto denaro, Pomponio Attico ebbe sempre uno stile di vita assai morigerato. Questi capitali, sfruttati in modo oculato, furono investiti, inoltre, nell’industria culturale allora in pieno boom, con «eccellenti lettori e numerosi copisti» e con banchetti che, data la sua levatura economica e culturale, assumevano carattere di veri eventi di cultura, tanto che la villa Tanfiliana divenne un operoso centro di cultura, dove gli ospiti potevano usufruire di una ricca biblioteca. Anzi, lo stesso Attico fu scrittore prolifico, anche se della sua produzione non ci è pervenuto nulla.

Fu, infatti, cultore della storia antica, con il Liber Annalis, dove registrò il succedersi di magistrature, leggi, paci, guerre e vicende importanti. Scrisse, poi, ispirandosi a Varrone, le Imagines, schede pinacografiche di uomini insigni accompagnati da un epigramma. Scrisse inoltre, su commissione, genealogie di prestigiose famiglie romane, e un libro in greco sul consolato di Cicerone.

Dalla morte di Attico in poi, non abbiamo più notizie sull’area: possiamo ipotizzare grazie ai bolli laterizi più antichi, sui quale compare “C CALP MNEST OP DOL. . . /CAES N. . ” cioè il famoso CAIUS CALPETANUS MNESTER, e alle condutture in piombo (fistulae aquariae) che i due fratelli Sesto Quintilio Condiano e Sesto Quintilio Valerio Massimo, nobili, colti, consoli entrambi nel 151, famosi “per cultura, abilità militari, per l’accordo fraterno e la ricchezza”, come attestano gli scritti di Cassio Dione e Filostrato, comprassero il fondo nella tarda età adrianea, per trasformare la precedente fattoria in una lussuosissima dimora.

I due fratelli, ricchissimi proprietari terrieri, scrittori di opere di agrimensura e di argomento militare (come molti grandi personaggi della Roma dei primi due secoli dell’Impero), erano famosi per come andavano sempre d’accordo tanto che ebbero insieme importanti incarichi nell’Amministrazione imperiale. Grazie alla protezione dell’imperatore Marco Aurelio ebbero una carriera politica sfolgorante: furono governatori dell’Acaia (cioè della Grecia) e della Pannonia (l’attuale Ungheria) dove riuscirono a fermare tentativi di invasione dei Germani;

Secondo Coarelli, la scelta di quel luogo non è casuale. I Quintili discendevano dai Quinctii, grande famiglia di Alba Longa che venne inserita nella cittadinanza romana dopo la sconfitta della città latina. Lì, alle Fossae Cluiliae era stato posto l’accampamento dei Curiazi prima della fatale tenzone. Siamo, ipotizza Coarelli, ad un ennesimo esempio dell’uso politico e ideologico che le grandi famiglie romane usavano fare delle proprie origini mitiche e che si rifletteva anche nella scelta dei luogo di costruzione di una villa.

I Quintili, come buona parte dell’oligarchia senatoria, avevano sulle scatole Commodo, che, con tutte le sue stranezze, era impegnato a una politica a difesa dei ceti medi e contro i privilegi dei ricchi; per cui cominciarono a complottare per deporlo, finanziando la cosiddetta congiura di Lucilla.

Nel 182 un gruppo di membri della famiglia imperiale riuniti intorno alla sorella di Commodo Annia Aurelia Galeria Lucilla – la figlia del primo matrimonio, un nipote (figlio dell’altra sorella, Annia Cornificia Faustina Minore), il proprio cugino paterno, l’ex console Marco Numidio Quadrato e la sorella di quest’ultimo Numidia Cornificia Faustina – pianificò l’assassinio dell’imperato immaginando di vedere Lucilla e suo marito come nuovi governanti di Roma. Il nipote di Quintiniano irruppe dal suo nascondiglio con un pugnale cercando di colpire Commodo. Gli disse “Qui c’è il pugnale che ti spedisce il Senato” svelando la sua intenzione prima ancora di agire. Le guardie furono più veloci di lui, fu sopraffatto e disarmato senza riuscire nemmeno a ferire l’imperatore.

Commodo ordinò la sua condanna a morte e quella di Marco Numidio Quadrato; Lucilla, sua figlia e Numidia Cornificia Faustina furono esiliate nell’isola di Capri. I Quintili fecero così una brutta fine e i loro beni furono confiscati. Ecco come racconta la vicenda Dione Cassio, che ricordiamolo, era di parte, essendo sostenitore degli interessi dei senatori

Commodo uccise anche i due Quintilii, Condiano e Massimo, poiché gran fama avevano per il sapere e per l’arte militare, per la concordia e per le ricchezze, e dei beni che possedevano erano venuti in sospetto, e quantunque non pensassero a novità, si rattristavano per le cose contemporanee. E così questi, come sempre erano vissuti insieme, insieme morirono con un figlio. Dal momento che si volevano il massimo bene neppure nelle magistrature vollero essere disgiunti, e furono consoli e sedettero insieme. E Sesto Condiano, figlio di Massimo, sorpassando per natura e per educazione i suoi eguali, allorquando intese la promulgazione del decreto fatale contro di lui, poiché si trovava nella Siria, bevve il sangue di una lepre e dopo ciò salì a cavallo, e si lasciò cadere in modo opportuno, vomitando sangue come se fosse stato il suo, e sollevato da terra, come prossimo a morire, fu portato in una stanza: quivi scomparve, ed in luogo suo fu posto nel feretro il corpo di un ariete, che fu poi arso.

Da quel momento Sesto, cangiando sempre figura e vestiario, andò vagando qua e là. Sparsasi però la fama delle cosa, poiché non è possibile che lungamente tali fatti rimangono celati, si fecero ricerche di lui dappertutto, e molti furono messi a morte per sbaglio a causa della somiglianza; molti, come consapevoli, o perché lo avevano ricoverato, furono puniti, e più ancora, senz’averlo mai veduto, perdettero i beni. Egli poi, se veramente fosse ucciso, poiché più teste simili alla sua furono mandate in Roma, o se scampasse, niuno mai ha saputo. Certo è che un impostore ardì dopo la morte di Commodo di spacciarsi per Sesto, e levarsi affine di ricuperare le ricchezze e la dignità ; ed interrogato da molti molto si vantò, ma quando l’imperatore Pertinace in persona lo interrogò sopra cose greche, che a lui erano affatto sconosciute, si scoprì totalmente, non avendo potuto intendere ciò che gli fu domandato: quindi per forme e per modi a lui somigliava, ma non per la educazione

Commodo, che da probabile sociopatico, odiava il caos di Roma, amò soggiornare a lungo in questa villa e vi fece eseguire numerosi lavori di ampliamento, trasformandola in una vera reggia di campagna. Lo scrittore greco Olimpiodoro scrisse che

“la villa conteneva tutto ciò che una città media può avere, compresi un ippodromo, fori, fontane e terme”

A riprova del fatto che vi si trovasse assai bene, vi è l’episodio della rivolta popolare contro Cleandro, il favorito di Commodo, mentre questi risiedeva nella villa dei Quintili, ove si spassava lietamente. Cleandro fece uscire improvvisamente la milizia pretoriana dalla villa, e la slanciò sul popolo che veniva minacciosamente incontro; ma invano, perché il popolo non desistette dall’assalto, finché non ebbe in mano il corpo di Cleandro, del quale fece poi strazio. In tale occasione Commodo, che soggiornava negli appartamenti più interni, non si rese nemmeno conto del tumulto.

Alla sua morte, il complesso passò ai Severi e quindi ai Gordiani, che nel III sec d.c., modificarono alcune strutture come si deduce dall’analisi dei bolli laterizi. Dall’Historia Augusta, sappiamo che Tacito (275-276) vi fece porre una tavola dipinta a cinque valve, in cui egli era raffigurato in varie fogge, per cui gli imperatori dovettero soggiornarci sino almeno all’età tetrarchica.

Il complesso rimase poi parzialmente in uso fino al VI secolo (sono stati ritrovati bolli laterizi dell’epoca di Teodorico), dopo di che andò progressivamente in rovina. Come per tutte le antiche proprietà imperiali, anche il fundus dei Quintili passò nei secoli in proprietà di varie istituzioni ecclesiastiche.

Nel X secolo lo troviamo citato nel patrimonio del monastero di Sant’Erasmo al Celio: poco dopo la tenuta fu occupata manu militari dai conti di Tuscolo, che trasformarono parte delle sue rovine in fortilizio, per taglieggiare i viandanti sull’Appia. In un documento del 3 marzo 1156 di Santa Maria Nova, sembra mettere in relazione la tenuta dell’Appia con un certo Gregorio dello Papa che a sua volta dovrebbe essere parente di Astaldus praefectus navalis. Ciò ha fatto pensare che queste costruzioni spettino alla potente famiglia degli Astaldi o Astalli, che dominò tutto il tronco medio dell’Appia sin quasi alle Frattocchie. Famiglia, quella degli Astalli ha una storia che affonda le proprie radici fino forse all’età altomedioevale: il cognome è stato infatti messo in relazione con il gastaldo, il funzionario della corte regia che, nell’ordinamento longobardo, era a capo di una circoscrizione amministrativa (gastaldato).

Il castello funse da modello per quello successivo dei Caetani a Cecilia Metella. Le mura dovevano essere articolate da turricellae salienti, aperte verso l’interno, in modo da non poter essere usate contro gli stessi abitanti del castrum. Doveva esserci una torre principale, almeno un centinaio di case e una chiesa; un barbacane (opera muraria di rinforzo), fossati e altre fabbriche necessarie alla difesa, completavano la costruzione.

Prima del 1282, però, il complesso fu ceduto al convento di Santa Maria Nova (oggi Santa Francesca romana). La tenuta passo alla fine del Settecento all’Ospedale del Santissimo Salvatore ad Sancta Santorum, il nostro San Giovanni in Laterano, e nel 1797 fu venduta dal Monte di Pietà, che gestiva i beni dell’Ospedale, a Giovanni Raimondo Torlonia, al quale Pio VI fornì qualche anno dopo anche l’omonimo marchesato, appositamente creato.

Di scavi finalizzati al ritrovamento di opere d’arte, autorizzati dalla Camera Apostolica, si ha notizia a partire da papa Clemente XIII (cioè da metà del Settecento): attorno al Grand Tour fiorì infatti anche una fitta attività di appropriazione o commercializzazione di reperti archeologici, e l’interesse principale dell’amministrazione pontificia per questi reperti era ancora di natura prevalentemente commerciale.

Diverse campagne di scavo furono intraprese tra il 1783 e il 1792 per volontà di Pio VI, allo scopo di arricchire il Museo Pio-Clementino, fondato dal suo predecessore Clemente XIV. Tra le sculture più note rinvenute in questo periodo, attualmente conservate tra i Musei Vaticani, la Gliptoteca di Monaco, il Louvre e collezioni private, si collocano la cosiddetta Afrodite Braschi e due esecuzioni del Fanciullo con l’oca.

Con il passaggio ai Torlonia della tenuta, nel 1797, furono ripresi scavi sistematici e tutti i ritrovamenti andarono ad arricchire la collezione privata della famiglia. Tra il 1828 e il 1829 gli scavi furono condotti da Antonio Nibby (che fece anche un rilievo topografico delle emergenze archeologiche della tenuta a quel momento), concentrandoli attorno ai ruderi più evidenti, tra le aule termali e il cosiddetto Teatro marittimo. Emersero da queste ricerche, fra l’altro, due colonne in marmo cipollino che il Valadier utilizzò per la nuova facciata del Teatro Tordinona, anch’esso di proprietà dei Torlonia. Quando dopo il 1870 si decise di creare gli argini del Tevere, tutti gli edifici che insistevano nel percorso vennero demoliti, quindi si tolsero rapidamente gli arredi e vennero portati chissà dove. Queste colonne hanno trovato una sistemazione provvisoria nel chiostro michelangiolesco delle Terme di Diocleziano (che è da poco riaperto) si perse la memoria che quelle colonne erano queste del frigidarium. Solamente in tempi recenti, proprio grazie alle ricerche e agli interessamenti degli archeologi che hanno lavorato qui, sono state riconosciute nel chiostro accatastate nel chiostro tra tante altre colonne, tanti altri marmi, le colonne del frigidarium dei Quintili e quindi grazie a loro sono state ricollocate in loco dove vedete sono ancora. Altri scavi furono effettuati tra il 1834 e il 1840, dei cui ritrovamenti si hanno però pochissime notizie.

Alessandro Torlonia promosse un nuovo ciclo di ricerche tra il 1850 e il 1856, affidandole a Giovanni Battista Guidi. Siccome il governo pontificio stava facendo eseguire scavi e sistemazioni sull’Appia Antica da Luigi Canina, questa compresenza creò alcuni conflitti. Il contenzioso si risolse con la chiusura del cantiere del Canina e la concessione di alcuni reperti al governo da parte del Guidi “come ornamento e arredo della via Appia”.

L’unità d’Italia diede nuovo impulso alla valorizzazione degli aspetti storico-archeologici di Roma antica. In questo contesto si procedette fra l’altro al ripristino del Ninfeo della Villa prospiciente l’Appia Antica, nell’aspetto che oggi presenta. Il sito fu inoltre analiticamente rilevato, topografato e anche fotografato da Thomas Ashby tra il 1899 e il 1906.

Durante gli anni venti del Novecento furono fatte nuove scoperte, del tutto casuali: le grandi statue acefale di Apollo citaredo e di Artemide, oggi al Museo nazionale romano a Palazzo Massimo, e – nel 1929 – i resti di una villa rustica al km 7 della via Appia. La qualità delle sculture ritrovate nei pressi ha fatto considerare questo impianto come pertinente anch’esso alla Villa dei Quintili. I reperti sono esposti nell’Antiquarium della villa.

La Soprintendenza archeologica di Roma ha acquistato il terreno nel 1985, e solo dal 1986 la villa dei Quintili è diventata patrimonio demaniale. Nel 1998-2000 è stata condotta una campagna di interventi sistematici, tesa ad esplorare ulteriormente e a rendere visitabili le emergenze principali della villa. Con l’occasione, sono emersi nuovi ambienti dell’area di residenza privata e parte dell’area di rappresentanza, e si è resa più evidente l’interconnessione tra i vari spazi.

Come era articolata la villa ? Preceduto da alcune costruzioni piuttosto semplici (forse tabernae), si erge il grande ninfeo semicircolare, nel quale si possono distinguere due fasi principali: nella prima, esso non presenta aperture verso la strada, ed è limitato da un muro in opera a sacco di scaglie di selce. Questo sostiene lo speco dell’acquedotto Anius Novus, che continua lungo il muro perimetrale del giardino. In una seconda fase, costruita in opera listata, viene aperto un ingresso verso la via Appia; con due colonne su basi al centro e pilastri laterizi ai lati. Il pavimento, di cui restano tracce, era in mosaico bianco a grosse tessere. Al centro, dietro l’ingresso, è una nicchia semicircolare coperta in origine da una semicupola, che contiene un bacino di fontana. Al piano superiore sono cinque nicchie. Si tratta evidentemente di un grosso ninfeo con fontane, alimentate dall’acquedotto, che veniva a formare un ingresso monumentale verso la via.

Dietro il ninfeo è il grande giardino porticato, il peristilio, in origine molto più ristretto: nella seconda fase fu demolito il muro occidentale, portandone la larghezza a circa 108 m, mentre la lunghezza rimase di circa 300 m. Lungo il lato sud-est corre il muro di limitazione in selce, che regge lo speco dell’acquedotto, e che fu raddoppiato nella seconda fase, formando cosi uno stretto corridoio. Agli angoli sud e ovest vennero allora costruiti due padiglioni circolari, che ricordano quelli della villa di Massenzio e il tempio di Minerva Medica, che fanno ipotizzare un utilizzo della villa per funzioni di rappresentanza sino all’epoca Costantiniana, come per il Sessorianum o Villa Gordiani.

All’esterno del giardino è una cisterna in laterizio con contrafforti in reticolato, appartenente alla prima fase, collegata con il muro periferico attraverso una serie di arcate, che nella seconda fase furono chiuse con opera listata.

Verso nord, alcuni grandiosi ambienti facevano parte del complesso delle terme: un’aula rettangolare, con pareti aperte da finestroni su due piani e una piscina al centro, originariamente rivestita di marmo; una grande sala rotonda probabilmente scoperta ed adibita a piscina. Il complesso termale era costituito da ambienti disposti su due livelli, di cui facevano parte due grandi aule di cui i recenti scavi hanno rivelato la destinazione.

In una era sistemato il calidario, occupato quasi interamente dalla vasca per i bagni caldi, nella quale si entrava per una completa immersione dai gradini disposti su tre lati. Si conservano i vani dove l’acqua veniva scaldata e da cui partiva un sistema di rialzamento della pavimentazione con file di mattoncini, per permettere all’aria calda di circolare nell’intercapedine così ottenuta.

Nell’altro ambiente era sistemato il frigidario, composto da una grande sala centrale alla quale si allineavano, sui lati corti, due vasche per i bagni freddi, che mostrano ancora il sistema di immissione e scarico delle acque. E’ l’ambiente più riccamente decorato, quello da cui provengono statue e rilievi oggi conservati in vari musei, ma principalmente nella Collezione Torlonia. Il primo ambiente termale è un imponente frigidarium, coperto da volta a crociera, alle cui pareti si aprono grandi finestroni con vista sulla via Latina. Il pavimento è rivestito in opus sectile marmoreum con numerosi frammenti di marmi pregiatissimi, importati da Grecia e Turchia.

Il grande arco in alto scarica il peso sugli angoli da cui partono i pennacchi della volta a crociera interna. Sotto si aprono tre grandi finestre, sui lati finestre murate. Accanto alla sala centrale, due stanzini ospitavano le vasche per l’acqua fredda in cui si faceva il bagno seduti, come d’uso. La vasca sul fondo presenta una nicchia, e, probabilmente, da lì viene la statua di Arianna addormentata, ora a palazzo Torlonia. L’intonaco coi listelli di marmo è quello per applicare le lastre marmoree. Sul lato opposto si vede una vasca rettangolare.

La stanza è illuminata da grandi finestroni rivolti a sud che, oltre a permettere alla luce del sole di riscaldare l’interno, davano la vista del bellissimo paesaggio. La grande piscina era raggiungibile scendendo tre gradini e la vasca non è molto profonda. Un sistema complesso riscaldava l’acqua della piscina: l’aria calda passava sia in un’intercapedine sotto il pavimento, sorretto da colonnine di mattoni (suspensurae), sia all’interno delle pareti per mezzo di mattoni forati (pareti tubulate). Nel 1999 sono state trovate le tre bocche dei praefurnia, le caldaie che producevano acqua e aria calda. La volta era a crociera e forse rivestita a mosaico, infatti tessere di vetro, soprattutto azzurre e verdi sono trovate nel terreno, mentre nel pavimento si riconoscono i resti delle piastrelle marmoree di rivestimento.

Nel corridoio c’è un piccolo ambiente circolare con resti di pavimentazione in ardesia, tipico per gli ambienti riscaldati. probabilmente un laconicum, e ai bordi dei muri si vedono i mattoni forati che permettevano all’aria calda di riscaldare non solo il pavimento ma anche le pareti. Conserva ancora il pregiato pavimento in lastre di marmi policromi orientali, che giaceva nascosto sotto oltre 80 metri cubi di terra.

Sempre nel contesto delle terme si trova il cosiddetto “Teatro marittimo”, a pianta ellittica, che mostra una certa somiglianza con l’omonimo ambiente della Villa Adriana a Tivoli: costituiva un un luogo tranquillo dove riposarsi dopo i bagni nelle terme. Circondato da finestre arcuate, alcune tamponate, probabilmente aveva una copertura in legno su di un colonnato interno che formava un portico. Poteva essere un viridarium, il giardino delle essenze aromatiche e delle piante ornamentali, in cui Commodo poteva passeggiare in pace, godendosi la vista dei Colli Albani, oppure, più un linea con il personaggio, un piccolo Anfiteatro. Già, perchè il nostro eroe aveva un’enorme passione per i Ludi Gladiatori.

Pare che l’imperatore partecipò a ben 735 spettacoli nell’arena, in cui a volte si mostrava con tanto di pelle di leone e clava, come un novello Eracle. Il suo possente e muscoloso fisico, inoltre, pareva essere perfetto per le venationes, le cacce agli animali feroci che tanto amavano i Romani. Erodiano scrive che una volta Commodo riuscì ad abbattere cento animali con cento giavellotti, elogiandone la mira e, di riflesso, la prestanza fisica. Cosa che l’aveva reso l’eroe della plebe, poco avvezza alle riflessioni filosofiche del padre, ma come dicevo, nemico numero dei senatori, che non apprezzavano queste bravate.

Sempre Cassio Dione, ad esempio, ci racconta di come una volta, dopo aver decapitato uno struzzo nell’area, impresa notevole, perché sono bestiacce infame, basti pensare la figura meschina dell’esercito australiano con i loro cugini emù, Commodo mostrò la testa dell’animame e, ponendola di fronte ai senatori, urlò che il Senato avrebbe fatto la sua stessa fine. Secondo Erodiano, l’intimidazione, modello padrino, ebbe effeto, tanto che i patres esclamarono, tutti assieme

“Sei un dio, sei il primo, sei il più fortunato di tutti! Sei e sarai sempre vincitore! Tu, o Amazonio, vinci sempre!”.

La zona residenziale vera e propriasi affacciava su un grande cortile rettangolare, pavimentato con lastre di marmi colorati così come anche le pareti e i pavimenti, mentre pitture e stucchi decoravano le volte e la parte superiore degli ambienti. Tutte le stanze del complesso erano dotate di un vero e proprio sistema di riscaldamento tramite tubi di terracotta, inseriti nelle pareti, all’interno dei quali veniva fatta passare l’aria preriscaldata.

Gli ospiti erano accolti in un’ampia sala ottagonale per i banchetti, dove si possono ancora riconoscere parte del sistema di riscaldamento pavimentale, un monumentale ninfeo ed un criptoportico. Gli appartamenti padronali sono divisi in una parte privata con le stanze da letto (i cubicola) e in una parte più di rappresentanza, dove si tenevano i festini con gli ospiti. Questa parte della villa dovrebbe risalire alla prima metà del II sec. d.c. (I fase edilizia). Le ultime stanze sulla destra sono piccole terme private.

Sul versante orientale, si estendeva un secondo giardino a forma di circo, lungo circa 400 m e largo tra i 90 e i 115 m.; uno stadio-arena che sembra fosse nata, come testimoniano anche gli scavi intrapresi, proprio per volontà di Commodo, imperatore amante degli spettacoli gladiatori e solo successivamente trasformata dopo la sua morte. Questo prato doveva essere un ippodromo, di forma analoga a quella del Circo Massimo destinato a rallegrare, con animate gare, la vita degli abitanti della Villa. In realtà non doveva trattarsi di un vero e proprio ippodromo ma più che altro di un giardino a forma di ippodromo che doveva avere sui lati probabilmente le statue, sistemato a viali alberati con fontane.

In un ampio locale precedentemente adibito a stalla, situato in un casale accanto all’attuale ingresso della villa sulla via Appia Nuova, è stato allestito un Antiquarium. Nelle vetrine sulla parete di destra vediamo dei pezzi che provengono dagli scavi del 1929, al centro c’è una grande statua di Zeus trovata tra gli anni 1925-26, sulla parete di sinistra invece ci sono degli oggetti che provengono da questi ultimissimi scavi, quindi 1997-1999, che hanno permesso l’apertura del sito.

Nelle vetrine della parete di sinistra sono esposti i pezzi trovati al VII miglio della via Appia Nuova, nell’incrocio con l’Appia Pignatelli. Le statue erano ammassate insieme, in un luogo che probabilmente era una calcara: le calcare erano delle fornaci nelle quali i pezzi di marmo erano cotti e trasformati in calce, ed erano frequenti nel medioevo nei luoghi dove il marmo era facilmente reperibile, come poteva essere questa una villa. Alcuni di questi pezzi hanno la superficie del marmo deteriorata, evidentemente a causa del processo di calcinazione già avviato. Va sottolineato che le statue sono quasi tutte destinate al culto, e dovevano provenire da un santuario annesso alla villa dei Quintili che non è stato identificato.

Le statue appartengono a due gruppi: le statue che raffigurano divinità classiche, olimpiche e quelle che raffigurano divinità orientali. Tra le prime, riconosciamo Asclepio nella statuetta che ha il serpentello accanto al piede; per le seconde, in un’altra vetrina, vediamo due personaggi con il classico abbigliamento dell’Asia minore: i pantaloni e il cappello con la punta floscia; i due personaggi sono Cautes e Cautopates, cioè i due compagni con la fiaccola, uno alzata e uno abbassata, che indicano il percorso solare e che si trovano associati al culto di Mitra.

La statua acefala con tutte quelle mammelle è una delle tante riproduzioni della famosa Artemide di Efeso; si tratta di una divinità molto antica, signora degli animali (infatti ha un abbigliamento di animali feroci e stringe fra le braccia due leoni) e dea della fertilità e dell’abbondanza (le mammelle alludono a questo aspetto materno). Le due statue di alabastro di cui resta solamente la parte centrale sono attribuite a Iside a causa del particolare modo di legare la veste sotto il petto. Infine, la lastra in fondo dovrebbe raffigurare Astarte, la divinità fenicia che viene rappresentata con le ali sopra un leone.

Proseguendo incontriamo due statuette, di Zeus bronton (in latino Jupiter tonans), cioè Giove tonante. Zeus bronton è una divinità associata alle acque, connessa con il culto agricolo e pastorale; il modellino di bue che vediamo era probabilmente un ex-voto. Zeus bronton non si trova frequentemente in Grecia ma piuttosto nell’Asia minore, a testimonianza della predominanza di schiavi e liberti di origine siriaca nella villa. Le due statue del tempio sono state trovate nella pars rustica, cioè nella zona dove erano gli impianti produttivi e abitava la servitù; sono probabilmente delle copie in scala che presero a modello la bellissima statua al centro della stanza, trovata invece nella zona padronale.

Dall’altra parte dell’Antiquarium ci sono pezzi trovati sparsi; tra questi molto interessante è il disco di alabastro mancante della parte superiore, perché nella parte inferiore si legge abbastanza bene la parola “IcJuV”, che in greco significa pesce. Il disco, che proviene da alcuni scavi settecenteschi, è stato studiato dal De Rossi, il famoso archeologo delle catacombe cristiane, il quale riferisce che nella parte superiore oggi scomparsa si leggeva in latino LIORUM. Il De Rossi interpretava il frammento come QUINTILIORUM, congetturando che i Quintili fossero dei cristiani. Che lo fossero è improbabile: però che ve ne fossero tra i loro liberti, non è da escludere. Ricordiamo come Commodo, rispetto al padre non solo era molto più tollerante, ma aveva anche una concubina, Marcia, cristiana.

Per ottenere la liberazione dei suoi confratelli condannati ai lavori forzati nelle miniere della Sardegna (ad metalla), convocò papa Vittore a Palazzo e si fece consegnare un elenco dei cristiani romani laggiù detenuti. Avendo ricevuto la grazia da parte dell’imperatore, Marcia spedì il presbitero Giacinto in Sardegna con l’ordine di liberazione per i cristiani. Sant’Ireneo di Lione (Adversus Haerses, IV, XXX 1) riportava che in questo periodo i cristiani ebbero molti incarichi ufficiali presso la Corte imperiale. Anche Settimio Severo, durante i primi anni del suo regno, guardò con favore i cristiani, lasciandoli nei posti chiave della sua corte. Tra coloro che rimasero a palazzo c’era un certo Proculo che una volta lo aveva addirittura curato. Questo imperatore protesse i cristiani dagli eccessi dei pagani, e suo figlio, Caracalla, ebbe persino una balia cristiana

Le altre vetrine in fondo raccolgono oggetti, decorazioni delle stanze, intonaci, lastrine di marmo, tracce di affresco provenienti dalle ultime campagne di scavo. Alcuni frammenti di intonaco presentano nel retro le tracce delle incannucciate, il che ci fa sapere che erano attaccati al soffitto; i soffitti erano costruiti cementando un graticcio di vimini, al quale erano fissati intonaci o stucchi per mezzo di chiodini. Accanto ci sono dei contenitori di colore per affresco, probabilmente gli strumenti che servivano all’artista per dipingere.

Più in alto ci sono degli esempi di opera sectile, particolare lavorazione utilizzata dai romani in cui delle lastrine di marmo, sagomate e intagliate, andavano a comporre figure geometriche o floreali o altro ancora. Oggetti che nei musei sono in genere poco considerati ma che invece sono molto utili agli archeologi sono questi bolli laterizi, marchi che venivano impressi sui mattoni o sulle tegole, spesso con il nome del proprietario dell’officina o dell’imperatore; in base al bollo si può datare la struttura, e si è visto che l’arco di vita della villa va dal 123-125 d.C., (tarda età adrianea) fino alla metà del III sec. d.C. (periodo dei Gordiani).

Poi ci sono invece 2 esempi di fistulae acquariae e un bellissimo capitello trovato fra il Teatro Marittimo e gli ambienti termali; rappresenta due leogrifi (creature fantasiose metà leoni e metà aquile) affrontati, e la loro particolarità è questa sapiente lavorazione, che sfrutta le venature alternate blu e bianche del marmo proconnesio; si data intorno al II-III sec. d.C. ed è un pezzo unico, non se ne conoscono altri tranne un capitello trovato a Leptis Magna (in Africa).

Nei pressi dell’ingresso sull’Appia Antica si trova il casale di S. Maria Nova, appartenuto ai Monaci Olivetani e solo recentemente divenuto patrimonio pubblico. Lo Stato ha infatti acquistato nel 2006 l’antico casale assieme a tre ettari di campagna romana che da circa 10 anni versavano in stato di totale abbandono ed erano occupati abusivamente. Da allora si sono svolti lavori di scavo e ristrutturazione che hanno permesso di aprire l’area al pubblico non solo per godere delle nuove importanti scoperte archeologiche portate alla luce, ma anche per fruire degli spazi interni del casale. Il casale e la torre di avvistamento, sopraelevati su di un imponente monumento del II d.C., illustrano le trasformazioni del territorio dell’Appia attraverso i secoli.Dagli scavi nell’area sono riemersi un impianto termale del II d.C., un tratto di strada basolata, un’area cimiteriale di II secolo d.C. ed edifici presumibilmente pertinenti al grande complesso della Villa dei Quintili, adiacente alla tenuta.

Fra questi reperti, spicca la sensazionale scoperta, all’interno di un edificio termale, di due pavimenti a mosaico in tessere bianche e nere perfettamente conservati e visibili: su uno sono raffigurati un gladiatore (un retiarius, dotato di rete e tridente) di nome Montanused e un arbitro nell’atto di consegnare la vittoria, sull’altro quattro cavalli affrontati a coppie attorno a un albero. Questi ultimi sono riferibili alle fationes, le “squadre” che si contendevano la vittoria durante le corse dei carri che si svolgevano nel circo.

Nel XV secolo, quando nel casale di Santa Maria Nova presso il V miglio iniziarono gli sterri volti a recuperare marmi e statue, fu ritrovato un sarcofago romano con il corpo intatto di una ragazza dall’apparente età di 20 anni il cui nome era scolpito su un epitaffio collocato accanto al luogo del rinvenimento: Terenzia Tulliola, identificata dai cronisti dell’epoca come la figlia di Cicerone. Il corpo era ricoperto da uno spesso strato di sostanze oleose che ne preservarono l’integrità, il colorito, e i biondi capelli. Sembrava che la fanciulla dormisse il suo sonno lungo 1400 anni. Il sonno di Tulliola fu interrotto dalla morbosa curiosità dei romani, il suo corpo fu esposto in Campidoglio, e con il passare dei giorni iniziò a decomporsi e fu così buttato nel Tevere.

Infine, accanto al Casale, il 27 settembre 2013 è stato inaugurato il Giardino dei Patriarchi, un giardino davvero speciale, dove sono conservati i “gemelli” degli alberi monumentali più significativi di tutte le regioni d’Italia.

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Published on February 10, 2021 10:37
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Alessio Brugnoli
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