Forma Urbis (Parte III)
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Tornando a parlare della Forma Urbis, il luogo in cui era visibile al pubblico era la parete edificio – risalente, secondo recentissime ricerche, almeno ai tempi augustei – compreso tra il Foro Romano e il Forum Pacis, in cui è probabile come già all’epoca della dinastia Giulio Claudia fosse presente una mappa di Roma. Ricostruito o restaurato in gran parte all’epoca dei Flavî, detto edificio, da alcuni ritenuto il tempio degli Dei Penati, fu adibito a sede dell’ufficio catastale che nel 191 d. C. fu danneggiato dall’incendio che distrusse quasi interamente il Forum Pacis.
Per cui, fu giocoforza ricostruire il tutto, ai tempi di Settimio Severo. Secondo i frammenti giunti sino a noi, è stato possibile datare la pianta sicuramente dopo il 203 d.C., grazie alla rappresentazione del Settizonio presente su uno dei frammenti. Il capo progetto, responsabile della realizzazione dell’opera, fu il il praefectus urbi Fabius Cilo, la cui casa compare indicata sulla parte alta della pianta, nella reg. XII piscina publica. Dall’esame della corrispondenza tra l’imperatore e il suo prefetto, sembra che l’incarico, connesso ad altre riforme in atto, perdurasse ancora quando l’imperatore venne sorpreso dalla morte a Eboracum (York) nel Febbraio del 211. A riguardo la Historia Augusta, in un passo sostanzialmente chiaro relativo al Septizodium , indica che le opere di Cilo preludevano al ritorno imminente di Settimio Severo dalla campagna britannica, in occasione del quale sarebbe avvenuta sicuramente una solenne inaugurazione.
La pianta occupava una superficie di mq. 360 (m. 18 di lunghezza per m. 20 di altezza, pari a circa 43 x 61 piedi romani) ), ed era divisa in 150 lastre di marmo proconnessio disposte a filari alternati in verticale e in orizzontale, eccezion fatta per i quattro ordini superiori, tutti con lastre a disposizione orizzontale. Da quanto deduciamo della parete, la loro altezza media variava tra m. 1,70 a m. 2 e la loro larghezza a m. 0,80 a m. Inoltre sappiamo come il disegno della pianta fosse inciso sulle lastre dopo che queste ultime erano state fissate sul muro mediante grappe di sostegno e malta.
L’area rappresentata, comprensiva di tutta la città augustea, per un totale di oltre 4.000 ettari, era orientata con il Sud-Est in alto e con un vettore assiale verticale che, passando per il centro del Colle Capitolino, puntava direttamente lungo il rettifilo della Via Latina, fino ai Colli Albani e, più esattamente, al tempio di Iuppiter Latiaris, il santuario comune a tutti i popoli della lega latina. I monumenti vennero delineati su una scala media di 1:240 circa, in cui ossia un piede sulla Forma corrisponde a 2 actus nella realtà.
Nella Forma Urbis appaiono, provvisti di didascalie esplicative, solo monumenti e spazi pubblici e le uniche eccezioni, per iscrizioni alludenti a privati, riguardano come accennavo il prefetto della città; probabilmente Fabius Cilo aveva voluto, in modo simbolico, lasciare a sua firma sull’opera
Anche nei casi in cui compaiono nomi di privati, come per i balnea Ampelidis, Cotini, si tratta di nomi indicati come pura informazione topografica, essendo probabilmente divenuti elementi di riferimento comune, consacrati dall’uso, e non è detto che i personaggi menzionati fossero ancora in vita. Vi compaiono i nomi di grandi monumenti pubblici (Amphitheatrum, templum divi Claudii, circus maximus, templum Pacis, theatrum Pompei, Saepta Iulia), di templi isolati con o senza didascalia (Minervae, Dianae Cornificianae sull’Aventino, i quattro templi del Largo Argentina, ecc.), di complessi termali (thermae Traiani, Agrippae), di qualche acquedotto (aqua Alsietina), nomi di grandi magazzini e depositi pubblici (porticus Aemilia, horrea Lolliana, Galbana, graminaria, candelaria); ma sono provvisti di didascalie esplicative anche spazi pubblici e località minori come il summum choragium, un vicus della terza regione, l’aqueductium sul Celio, col significato di «agli acquedotti», la Subura, i balnea (quattuor, in Circo Flaminio),
Cosa che rende la mappa più uno strumento di propaganda, un’esaltazione della grandezza e della varietà architettonica di Roma, che uno strumento pratico di ordine fiscale o catastale. Tra l’altro, nella caratterizzazione didascalico-esplicativa dei monumenti si notano alcune peculiarità interessanti. Per esempio, è sicuro che scritte come aqueductium, navalenferius, Minerbae, non sono semplici errori dei lapicidi, ma elementi che mostrano la volontà, espressa dai redattori, di rispettare il gergo popolare di quegli anni a Roma
Dagli studi recenti, pare che la Forma Urbis possa essere stata danneggiata dal grande terremoto del 443 d.C., che provocò il crollo circolare quasi al centro della parete; il danno, sminuendo il valore simbolico del monumento, forse semplificò a papa Felice IV (526-530) la trasformazione dell’edificio che la conservava nella chiesa dei Ss. Cosma e Damiano. Un più vasto crollo avvenne in un anno imprecisato nel Medioevo, dopo che i cavatori di marmi antichi avevano spogliato le parti inferiori della parete di due grandi triangoli ascendenti verso destra e sinistra.
I primi frammenti furono scoperti in occasione di restauri alla chiesa dei Ss. Cosma e Damiano, ordinati da Pio IV all’architetto Giovanni Antonio Dosio tra il 1559 e il 1565, nell’orticello di Torquato Conti, duca di Poli, l’antenato dei protagonisti dei miei romanzi e racconti, compreso tra la parete postica di S. Cosma e la via Alessandrina, la via in Miranda e la basilica di Costantino. Sembra che allora alcune lastre si trovassero ancora affisse alla parete
I frammenti ricuperati furono temporaneamente esposti per cura di Onofrio Panvinio, e riprodotti in disegno in 11 tavole da Fulvio Orsini nel suo codice Vaticano 3439 (ff. 13-23). I disegni orsiniani riproducono solo 92 pezzi; altri furono delineati nel Cod. Barb. XLIX, 32 (ff. 45-48) e da Stefano Du Pérac nel Cod. Par. 389. Dopo la morte del Panvinio gli originali, custoditi a Palazzo Farnese, andarono dimenticati e in parte perduti, fecero una pessima fine: furono utilizzati come materiale da costruzione, in alcuni casi addirittura spezzati a mattoncino, per la costruzione di viali e muretti nel cosiddetto «Giardino segreto» dei Farnese. Fortuna volle che oltre 600 di questi frammenti vennero fortunosamente recuperati tra il 1888 e il 1891, durante la costruzione dei nuovi argini di contenimento del fiume, gli attuali Lungotevere.
Teoricamente ereditati dai reali di Spagna, i marmi evitarono il trasloco a Madrid grazie a monsignor Bianchini che nel 1704, li trasportò di soppiatto in Vaticano: l’ambasciatore di Madrid, ignaro della complessità e dei tempi lunghi della giustizia locale romana, per ottenere la restituzione del maltolto si rivolse ai tribunali capitolini, che, come loro solito, la buttarono in caciara. Nel 1744, il governo spagnolo, per uscire dall’imbarazzante situazione e stanco di foraggiare metà degli avvocati romani, donò il tutto a papa Benedetto XIV, che, a sua volta, li appioppò ai Conservatori.
Poco dopo, grazie all’opera di studiosi come il Nolli e il Piranesi, vennero affissi in Campidoglio in grandi riquadri espositivi, ma fu solo nel 1874 che Jordan dopo 10 anni di lavoro, riuscì a curare l’edizione integrale dei marmi allora conservati, associandola finalmente a uno studio storico archeologico serio.
I tempi erano ormai maturi per un nuovo approccio al venerabile monumento-documento di età severiana, e studiosi come Giuseppe Gatti, Rodolfo Laciani e altri, si prodigarono per il recupero dei marmi dagli scaloni dei Palazzi Capitolini. Per un certo periodo si mise ancora a rischio la loro incolumità, ma nel 1924 il loro ricovero in un laboratorio divenne definitivo. Nel 1960 apparve l’edizione fototipica completa, La pianta marmorea di Roma antica, in due grandi volumi, uno di testo ed uno di tavole, con la riduzione dei frammenti a 1/4 del reale, vale a dire, ad una scala di 1:960, la più vicina all’1:1000 del catasto moderno.
Nel 2002 la Stanford University (San Francisco, California) ha curato un progetto basato sulla creazione di un data-base on-line dei frammenti esistenti per la ricostruzione della pianta con l’ausilio di tecnologie informatiche, il cui risultato è stato il posizionamento di quattro ulteriori frammenti.
Uno dei contributi più recenti allo studio della Forma Urbis permette di stimare il contenuto metrico della pianta marmorea tramite l’analisi del rapporto tra le strutture riprodotte sulla Forma e la topografia reale, utilizzando tecniche geomatiche per verificare la posizione relativa dei frammenti. Dallo studio si confermano le ipotesi di una scala globale unica in tutte le direzioni (~246) ma di una diversa dimensione di rappresentazione degli edifici maggiori; nel caso del Teatro di Marcello, l’applicazione del metodo proposto ha portato alla formulazione di una ipotesi di ricollocazione di alcuni frammenti al fine di ricostruire una scala uniforme sulla relativa lastra
Alessio Brugnoli's Blog

