Prufrock a Pithecusa

Vorrei tanto dirvi che “Il canto d’amore di J. Alfred Prufrock”, la poesia che ha segnato la carriera di T. S. Eliot (1888- 1965), uno dei più grandi poeti del XX secolo, (Eliot era americano, ma naturalizzato inglese), giunge da personali reminiscenze scolastiche. Non posso dirlo perchè ai tempi del biennio del mio ginnasio, studiai il francese.
Tempi lontani, oltre mezzo secolo fa, inizi anni cinquanta. Da lì a qualche tempo dopo, anni sessanta, apparve in Italia la prima antologia di poesie Eliot: “Poesie”, prefazione e trad. di Roberto Sanesi, Milano: Bompiani, 1961.
Avevo lasciato il ginnasio e il liceo, e avevo deciso, non chiedetemi il perchè, di abbandonare lo studio del francese e avventurarmi nello studio della lingua inglese, allora poco diffusa. Fu in quell’anno che, dopo una non tanto felice e fortunata esperienza in terra tedesca, decisi di andare in Inghilterra per studiare questa lingua. Una decisione che avrebbe poi condizionato tutta la mia esistenza. Portai con me quel testo, con quel canto d’amore di Prufrock.
Confesso, oggi, che capii ben poco allora di quella poesia. Eppure, lui quando la scrisse, aveva più o meno la mia stessa età di allora. Lui si immaginava già vecchio. In versi scriveva della sua vecchiaia, di come si sarebbe visto, cosa sarebbe diventato, cosa avrebbe pensato dopo tutti gli anni che dovevano ancora venire.
Mi fu a quel tempo difficile comprendere quei versi. Non solo per la scarsa conoscenza della lingua ma, soprattutto, per quel nuovo e diverso modo di comunicare che Eliot introduceva in quella realtà contemporanea post vittoriana.
“Il canto dell’amore di J. Alfred Prufrock” si articola come fosse un racconto vero e proprio. In realtà è un poemetto di 140 versi che ha segnato la nascita di quello che viene considerato l’astro della poesia moderna.
È stato pubblicato nel 1917 nella raccolta “Prufrock and other observations”, dedicato all’amico di Eliot, Jean Verdenal, ucciso nel 1915 nella spedizione anglo francese dei Dardanelli. Che dire di questa poesia, dai versi struggenti, che incantano ad ogni età e nei quali, con il passare del tempo, ognuno si può riconoscere?

Innanzitutto che J. Alfred Prufrock è un nome di fantasia, sul quale sono state formulate diverse teorie. Eliot si rifà ad una lirica di Kipling, “The Love Song of Har Dyal”, ma questo ha poca importanza. La vera innovazione di questa poesia sono i suoi versi liberi che, essendo personificazione di chi nella vita non osa esprimersi, rappresentano un paradosso.
Prufrock vede il male nel mondo, ma rimane a guardare, incapace di agire. Soprattutto, egli rimanda e pensa sempre che ci sia tempo, mentre invece si ritrova vecchio e capisce di avere sprecato la sua vita. Ed io, oggi, a distanza di tanti anni, riesco a capire, perchè temo di essere diventato Prufrock!
“Il male del mondo”. Quello che vedeva Eliot attraverso Prufrock, ancora giovane, non vecchio come posso essere io, oggi. Lui non poteva fare nulla. Era giovane, invece. Tutto poteva ancora accadere. Ed io, oggi, ancora più di Prufrock, continuo a vedere e a scoprire che nulla faccio e nulla potrò più fare.
Un monologo drammatico, che tutto è tranne che un “canto d’amore”. Filtrato attraverso la tecnica del flusso di coscienza ha tutto lo strano sapore della moderna ambigua, viscosa, magmatica, “liquidità”.
Quello “stream of consciousness”, tanto caro ai poeti inglesi. La mente è come un fiume in piena e viene naturale esprimersi attraverso tutto ciò che in quel momento l’attraversa. Per quanto ci si sforzi, il pensiero umano non è monotematico. È qualcosa di più complesso e di più esteso.
S’io credesse che mia risposta fosseA persona che mai tornasse al mondoQuesta fiamma staria senza più scosseMa perciocché giammai di questo fondoNon tornò vivo alcun, s’ì odo il veroSenza tema d’infamia ti rispondo..
L’epigrafe iniziale è tratta da un canto della Divina Commedia di Dante, ma quel che più conta è che in questi versi l’autore si confessa liberamente, pensando che il suo racconto non verrà mai letto. Essendo qualcosa di personale, che rivolge solo a se stesso, i pensieri emergono e si strutturano senza seguire regole di logica, bensì si concatenano attraverso le emozioni.
Prufrock sembra una ipotesi, una invenzione poetica, in realtà è l’alter ego di Eliot stesso. Come lui, vive la crisi del primo Novecento, dove amore, poesia, arte e bellezza sembrano cose sorpassate, a cui nessuno sembra fare più caso. Ai suoi occhi, non appaiono più possibil da vedersi. La sofferenza di Prufrock si espande e diventa la sofferenza del poeta stesso. Prufrock si trasforma nel tramite attraverso cui Eliot può esprimersi e fare domande.
Un poema oberato di domande. Quelle stesse domande che lui si poneva a quella età, io non potevo comprendere, a quel tempo, non solo per la mia poca conoscenza della lingua, ma anche per quello straordinario, nuovo, inedito modo del poeta di mettere in collegamento la propria interiorità con l’esteriorità del mondo che lo circondava. E che continua a circondarci.
Ieri, come oggi, oggi come domani. Egli si rivolge ad un ascoltatore silente, un destinatario imprecisato, col quale inizia un “viaggio” alla ricerca della conoscenza. Un interlocutore che non lo tradirà mai, e che in molti hanno individuato nella sua stessa coscienza. Forse ci troviamo di fronte ad uno dei monologhi più intimi e personali della storia della poesia.
Allora andiamo, tu ed ioQuando la sera si stende contro il cieloCome un paziente eterizzato disteso su una tavolaAndiamo, per certe strade semideserteMormoranti ricoveriDi notti senza riposo in alberghi di passo a poco prezzoE ristoranti pieni di segatura e gusci d’ostriche…
L’opera pullula di metafore. La sera viene paragonata ad un paziente anestetizzato, disteso su una lettiga, per indicare l’incapacità ad agire, l’impotenza davanti a ciò che accade.
Strade che si succedono come un tedioso argomentoCon l’insidioso propositoDi condurti a domande che opprimono…Oh, non chiedere «Cosa?»Andiamo a fare la nostra visita.
E le cose che Prufrock vede sono “figlie” di quell’”età dell’ansia”, dove coesistono desideri contrastanti e moderna disillusione. Le metafore rimandano alla sfera del quotidiano, ma con l’avanzare dell’età prevalgono immagini di decadenza. Età dell’ansia? Al suo tempo? E come chiamare, allora, oggi, questa nostra età moderna? A quale esperienza potremmo rifarci per salvarci da questo destino che sembra portare verso il nulla?
Molte sono le citazioni, riprese dalla Bibbia; da Esiodo a Chaucer; dallo stesso Shakespeare. Ma quando cita Michelangelo, Prufrock lo fa per alludere alla mancanza di arte e alla volgarità che ha gettato ormai le sue basi sulla società. Come non vedere tutto questo ancora oggi, ogni giorno davanti ai nostri occhi, noi uomini del ventunesimo secolo che hanno ben poco di quello che T. S. Eliot, un anglo-americano-vittoriano aveva davanti.
Nella stanza le donne vanno e vengonoParlando di Michelangelo.
Stamani, mentre ero alle terme qui sull’isola dell’antica Pithecusa, il fanghista discuteva con il suo collega non di Michelangelo, ma della Juventus, nell’incontro di calcio di stasera con la Lazio. Il quotidiano continua sempre ad invadere l’arte, la poesia, e non vi è più un giusto distacco, il rispetto dovuto.
Si tratta di una poesia senza dubbio complessa e ricca di significati. Che parla di un uomo, Prufrock, che ha un segreto, un segreto d’amore. Egli è innamorato ma non riesce a rivelarsi. Non necessariamente di una donna, ma di un’idea, o della bellezza che ancora vede nel mondo.
Direi, ho camminato al crepuscolo per strade stretteEd ho osservato il fumo che sale dalle pipeD’uomini solitari in maniche di camicia affacciati alle finestre?…Avrei potuto essere un paio di ruvidi artigliChe corrono sul fondo di mari silenziosi
È il canto di chi non osa nella vita, di chi sempre rimanda perché pensa che ci sia tempo. E sempre se lo chiede:
“Posso osare?”. “Ci sarà tempo”.
Ma Prufrock non è Dorian Gray. Come non lo era Eliot, non lo sono tampoco io. Non ne ho le velleità né la consapevolezza. Come lui invecchio, i capelli a lui si sono diradati, a me sono scomparsi da tempo. Come si diradano i capelli, le gambe diventano sottili. Non mi sogno di paragonarmi ad Amleto, forse come Prufrock sono solo un cortigiano o addirittura ad un buffone.
Dopo avere affrontato percorsi labirintici, dove ad ogni svolta avrebbe potuto esserci un’occasione, come Prufrock, anche io sento che la mia figura è incapace di turbare l’universo. Mi abbandono all’idea di udire il canto delle sirene qui sull’isola dell’antica Pithecusa dove mi trovo mentre scrivo questo post. Ma non vorrei che fosse soltanto una forma di attesa della fine.
Ci siamo troppo attardati nelle camere del mareCon le figlie del mare incoronate d’alghe rosse e bruneFinché le voci umane ci svegliano, e anneghiamo.
Prufrock mi ha convinto che il suo canto è solo il racconto di un’anima che cerca la verità. Spero che non sia troppo tardi per scoprirla e non diventi una disperazione. Forse sarà meglio leggere il canto di Prufrock in una maniera “lirica”, per così dire, come il tentativo di cogliere l’attimo e a vivere tutto intensamente, nel momento. Come diceva Lorenzo de’ Medici: “Di doman non c’è certezza” …
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Per chi conosce l’inglese qui al link Prufrock in inglese, interpretato da Sir Alec Guinness https://www.youtube.com/watch?v=cdm41alW07M
Qui al link la poesia in versione italiana: https://goo.gl/l84V8m

Published on May 17, 2017 13:44
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