Alessandro Manzetti's Blog, page 24

April 24, 2020

Il mio racconto inedito ANTINFERNO pubblicato nell'antologia PANDEMONIUM - NEO DECAMERON

Foto Pubblicata oggi da Lethal Book l'antologia di racconti PANDEMONIUM - NEO DECAMERON a cura di Cristiano Saccoccia, nel quale trovate il mio racconto inedito ANTINFERNO.
Il libro è acquistabile su Amazon
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Published on April 24, 2020 02:15

Cover Reveal:  WHITECHAPEL RAPSODY Dark Poetry Collection

Foto Cover Reveal: the cover art (illustration by Wendy Saber Core) of my new dark/horror poems collection WHITECHAPEL RHAPSODY, coming in June 2020 from Independent Legions.
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Published on April 24, 2020 01:59

April 22, 2020

Received today the 2019 Bram Stoker Award

Foto Received today the gorgeous  'haunted house' of the 2019 Bram Stoker Award (for my  dark poetry collection The Place of Broken Things, written in collaboration with Linda D. Addison), which joins its elder brother (won in 2016)
Thank you very much HWA! Foto
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Published on April 22, 2020 04:25

April 21, 2020

Signed a contract with Weird Tales Magazine for the publication of the poem 'The Canal'

Foto Signed a contract with Weird Tales Magazine for the publication (in the next issue) of my new poem 'The Canal', freely inspired by H.P. Lovecraft's homonymous work.
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Published on April 21, 2020 00:00

April 18, 2020

My poetry collection 'The Place of Broken Things' won the 2019 Bram Stoker Award!

Foto My dark poetry collection THE PLACE OF BROKEN THINGS, written in collaboration with Linda D. Addison, published by Crystal Lake Publishing, has won the 2019 Bram Stoker Award!
Congratulations to all the winners
2019 Bram Stoker Awards Winners List
Foto
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Published on April 18, 2020 20:11

April 8, 2020

Recensione di SHANTI - Edizione Integrale Estesa (Shanti 666 Special Edition) sul Magazine OFF

Foto Live sul Magazine OFF la recensione di Francesco La Manno dell'Edizione Integrale Estesa (Shanti 666 Special Edition ) del mio romanzo Shanti.
Dalla recensione: (…) Si spalanchino pertanto i battenti degli abissi poiché durante la lettura di Shanti, Alessandro Manzetti, fulmineo come un Suppliziante, vi condurrà attraverso il selciato dorato dell’Inferno, facendovi scoprire orrori sconosciuti e inauditi. (…) Leggi la recensione sul Magazine OFF

Acquista l'edizione cartacea dell'opera
Acquista l'edizione Kindle dell'opera Foto
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Published on April 08, 2020 00:53

April 1, 2020

Quarantine Free Reading #3: LA MATTANZA DELLE SIRENE

Foto Ho scritto questo racconto nel 2015, ed è stato pubblicato in italiano nella raccolte di racconti 'Kannibalika' e Il Giardino delle Delizie, entrambe non più in commercio, e in inglese nella raccolta di racconti in inglese The Garden of Delight, che ha ricevuto una nomination allo Splatterpunk Awards 2017 nella categoria 'Best Fiction Collection'. 
Oggi lo trovate nella raccolta di racconti I Figli di Uxor 77 (Independent Legions), disponibile su Amazon.
L'Illustrazione sopra riportata è stata realizzata ad hoc da Stefano Cardoselli.

LA MATTANZA DELLE SIRENE
2015 ©Caleb Battiago/Alessandro Manzetti
Tutti i diritti riservati
Liberamente ispirato all'episodio Mermaids in a Manhole (1988), tratta a sua volta da un manga di Hideshi Hino) della serie di lungometraggi Guinea Pig

Maggio, tempo di nuove Naumachie nella Roma puttana della Papessa transgender: le mattanze delle post-sirene eccitano i cittadini, i brutali rais delle chiatte e i figli di puttana di ogni tipo. La torta del Colosseo è stata sistemata, le arcate di terz’ordine rimesse in piedi, nuovi anelli e travertini in acqua flessibile, gli speroni e i conci in lega morten scintillano come denti d’argento innestati in una bocca da 75.000 anime.
La biscia incazzata dei nuovi canali concentrici domina la struttura sotterranea dell’arena, dalle spire originali ormai disintegrate. Innesti, vecchie polveri rianimate, poltrone in comodo syntex incollate ai gradini di marmo artificiale, blocchi di condensati korton sfilati dalle fondamenta delle case popolari. Arcate, criptoportici decorati con spine dorsali fossilizzate e alveari di pozzi di colla derattica e liquido amniotico sequestrato. Rampe elettromagnetiche, pellicole adesive di travertino e laterizio, capitelli osceni di gomma, una serie di statue di caproni e sirene, dai genitali ornati di grana fina di salinio, riempiono di nuovo i vuoti, lo stomaco solitario degli archi, i buchi neri. l’Anfiteatro è tornato al suo sanguinario pagano splendore. Un grande cantiere sponsorizzato dalla ‘Gallina Nera’, simbolo della nuova Roma schizzata fuori da uteri di silicone, da strette fessure di carne marcia bardate da bande porpora e oro. Proprio come le finestre dei vecchi palazzi dei nobili in festa.
I grandi ludodisplay della città promuovono il nuovo spettacolo, sparando ologrammi a ciclo continuo sulle facciate di basiliche corrotte che proiettano post-sirene arpionate, tritoni con zanne elettroniche e tentacoli al posto delle gambe che mordono e fottono code, tette, bocche urlanti. Dagonachie, l’ultimo ritrovato della Papessa per sfogare le pulsioni dei cittadini e tenere sotto controllo il sovraffollamento dei lebbrosari delle donne, internate negli intestini umidi delle catacombe. Nei sotterranei della Roma puttana pulsano demoni riproduttivi, che non hanno ancora donato le proprie pericolose ovaie alla Cattedrale della Gallina Nera. Una struttura verticale di rostri e sporgenze di acciaio2 che ha spappolato le vecchie scuderie del Quirinale. Tutto è organizzato: chirurghi, confessionali attrezzati, cesure laser senza anestesia, estrazione degli organi, delle uova corrotte, tatuaggio elettronico sulla mano destra: è il via libera per abitare nella Roma di sopra, nel rispetto del coprifuoco. Donne, pensateci, ripetono all’infinito i lugubri jingle sugli infodisplay della Gallina Nera. Una testa di Medusa, morsa dai suoi serpenti, sgomenta, si trasforma velocemente in un viso disteso, bianco, elettrico: pensieri di lattice e di ventre vuoto, disinnescato. Il trattamento, il prima e il dopo. Il Nirvana?
Gli spettatori spingono, prendono posto, sbavano. Sempre la stessa storia alla prima delle Dagonachie. L’Anfiteatro sembra scoppiare, anime compresse all’inverosimile. Il palco della Papessa è ancora vuoto, la regina della Roma puttana, insieme ai suoi cardinali dal machete facile, farà il suo trionfale ingresso durante la seconda parte dello spettacolo, quando le acque diventeranno rosse come la plastica di copertura della struttura. Riflessi ovunque, facce rosse di pellegrini e di arpioni che vireranno sempre più verso il viola delle viscere.
Nelle camere di trasformazione le donne vengono preparate con cura. Tecnologia avanzata: quattro seghe circolari sezionano i corpi in due parti, un taglio laser appena sotto l’ombelico. Sutura rapida con iniettori di plasticellule, prima di innestare le code di tonni conservate nel ghiaccio in grandi contenitori.
Le gambe delle donne, e tutti gli scarti delle nuove sirene, vengono tritati in un macro-frullatore. Diventeranno polpette, saranno distribuite agli spettatori, con tanto di numero di serie. Pandemia di responsabilità. Le Dagonachie offrono un’esperienza completa, sensoriale ed emotiva. Spettacoli molto costosi, certo, ma il budget della propaganda della Gallina Nera sembra essere infinito. I palchi delle T-Girls, le amazzoni della nuova Roma, sono disposti al centro del primo anello, godono di un’ottima vista sulla mattanza delle donne. Sirene con code di tonni surgelati e sirene con testicoli naturali, scambi di sguardi, di ruoli, di potere. Transtriarcato.
Il Colosseo è già allagato, le chiatte dei rais navigano lentamente, spinte dai motori elettrici a capienza, tagliano le acque come rasoi in immersione, animando una sottile doppia scia che si interseca; sono pronte con i loro arpioni, mancano solo le prede da cacciare.
Dai canali concentrici vengono sputate fuori le post-sirene, per non affogare subito hanno dei compensatori di gravità installati sulla schiena. Non sanno ancora manovrare bene le loro nuove code di tonno, nonostante le grappette peripeliche che attivano la condivisione delle connessioni nervose.
Ci vorrebbe un lungo addestramento per farle nuotare davvero, ma non c’è tempo. Le chiatte si muovono velocemente adesso, preparano le reti, regolano le proiezioni dell’arpioscopio che fuoriesce dallo sperone dell’imbarcazione, che scivola a destra e sinistra, in alto e in basso, sotto la cresta d’oro della testa gigante della Gallina Nera. La mattanza sarà facile e veloce, come sempre, le sirene più dotate riescono a immergersi in due metri d’acqua al massimo, e per pochi secondi. Le reti le convoglieranno tutte verso il punto giusto, fino a stringerle nelle maglie giuste, nelle camere della morte, dove assaggeranno l’arpione e i machete degli uomini del rais della chiatta.
Finalmente il lago dell’Anfiteatro diventa rosso, brandelli di sirene galleggiano sulla superficie: braccia, teste, scaglie d’argento scintillanti, reti gonfie di occhi incastrati, aperti o già chiusi. Le urla delle prede, il canto delle post-sirene, accende l’estasi degli spettatori, che ingoiano con eccitazione le polpette delle vittime. Due spettatori sono felici di condividere lo stesso numero di serie di una sirena, stanno divorando le stesse gambe umane della preda. La gang del rais lavora sui lati della chiatta, spacca crani, fa volteggiare i machete in modo spettacolare. Il più robusto, che indossa l’elmo da tritone con due corna a forma di tentacoli, con ventose accese a intermittenza da led azzurri, mostra al pubblico la sua lama con un seno tranciato sulla punta. Un taglio preciso, difficile. Applausi.
L’ingresso della Papessa nell’Anfiteatro: la sua sagoma scura, le nere dune delle sue enormi tette sintetiche, compaiono sul palco centrale, seguite dall’orda marcia del suo seguito. L’ombra del grande becco della Gallina Nera la sovrasta, la nasconde nell’ombra. Nessuno ha mai visto la faccia della regina della Roma puttana. Almeno, nessuno ancora vivo, in grado di raccontare qualcosa.
Questione di sicurezza, è chiaro.
I tritoni si battono il petto, i machete dei marinai rombano, le lame si scontrano: l’omaggio alla Papessa ha un rumore di metallo affilato. Le reti vengono tirate a bordo dagli argani pneumatici, le poche sirene superstiti sono gettate sulle piattaforme delle chiatte, sanguinanti, sguscianti. Si muovono in modo goffo e ridicolo, fuori dall’acqua. La chiatta 1 lancia il segnale, il rais accende i led rossi sul perimetro della sua imbarcazione: è pronto. Aspetta un cenno dall’infodisplay della Papessa per procedere. Tutti i settantamila occhi del Colosseo si incollano al grande schermo appeso sopra al palco dell’imperatrice senza fica, che controlla le catture della chiatta con il suo binocolo. Una grande mano elettronica, con un crocifisso nero inciso sul palmo, si apre, si chiude a pugno, ruota fino a mostrare il pollice verso.
Capezzoli turgidi, eccitazione sparsa. Il rais, sconfitto, è costretto a elettrificare la sua rete di sirene, che si dibattono sulla piattaforma fino a spegnersi, dopo che gli occhi sono schizzati fuori dalle orbite per tuffarsi nell’acqua rossa. Fumo dalla chiatta 1, tocca alla seconda adesso, applausi. La chiatta vincitrice avrà l’onore di consegnare la sirena scelta alla Papessa per il suo banchetto privato. Lische e ossa, squame e pelle vengono trattate: morbidi bocconcini di post-sirena conditi con zenzero e sottili fette di mango.
La Papessa è ghiotta di spezzatino di fegato alla cannella, con contorno leggero di stuzzichini di sedani avvolti in spirali di lingua, mentre il suo Gran Visir, centoquaranta chili di santità, adora i fiori di zucca ripieni di alici del Mar Cantabrico e tritato di polmoni. Molto meglio delle polpette di resti che ingoiano gli spettatori. Cinque crediti l’una.
 
Rino dipinge incubi, mostri, suda roba verde fosforescente. È il suo lavoro, ha abbastanza clienti per pagare l’affitto del suo contenitore di cemento in Via Prenestina. Sopravvive nel grande ghetto est della città, dove un dio figlio di troia, grande appaltatore, ha cacato una schiera di tombe megalitiche sotto un cielo venusiano. Il coperchio asfissiante e scheggiato della Roma puttana, della Roma della Papessa.
Rino non sogna i suoi incubi, li vede davvero. È questo il suo segreto: basta un piede di porco, il tombino giusto, una torcia e un lasciapassare per i labirinti, le immense fogne che scottano il culo della città. La sua immaginazione è cloacale, galleggia, ci vuole poco a sintetizzarla, digerirla, smaltirla con i colori per poi lasciare tutto alla centrifuga del box grigio del computer. Merda dipinta e scannerizzata, trecento crediti a pezzo. L’artista è la fogna, ispirata dai sette milioni di chiappe cittadine, dai rifiuti e dagli scarti. Scarti di altri scarti, aggregati contraddittori, liquami intelligenti.
Come ogni mattina Rino esce dalla sua tomba a dodici piani, va dritto verso l’ombelico della sua libido sotterranea, il tombino 147S. Indossa gli stivali, scende nelle navate rosicchiate, ammira le corone biologiche dei tubi e dei condotti, in alto. I vermi che mungono il rame, circondando i vari segmenti.
Tanti matrimoni celebrati da migliaia di anelli viventi, pulsanti. Simbiosi di vite e di metalli, accoppiamenti lenti e compatti. Scopate chimiche che danno vita a nuovi plotoni di esseri senzienti. Il futuro, il dopo, sta crescendo all’ombra del grande tappo dell’asfalto, sotto i tacchi delle puttane di Via Prenestina. La meravigliosa alchimia della fogna, i suoi rumori di vite schiacciate, sopra e sotto, attraverso.
Rino ascolta i suoi passi e il silenzio scannato, affogato tra i cristalli di pozze solide. Ancora qualche metro, l’ultima curva: ecco il canale 15, il suo tratto preferito della città sotterranea. La melma sale fino alle ginocchia, Rino si sposta lentamente, cammina come un palombaro farcito da diversi chili di piombo. Non vuole spostare nulla di quell’ambiente meraviglioso, ancora intatto.
«Tutti i miei mostri sono qui».
Rino non riesce a trattenere la voce, le emozioni. Parla spesso con se stesso, aprendo al massimo la valvola dei ricordi. Rubinetti pericolosi e infami. Mostri in copertina.
La torcia inquadra un gruppo di bambole che galleggiano nella merda, la luce circolare rimbalza su occhi azzurri che salgono e scendono, su scheletri di fiche portatili, scarpe senza piedi, cataste di lingotti di test di gravidanza, contenitori di plastica deformati, cotti. Un universo immobile, squagliato, nel quale navigano ambiziosi i grandi ratti. Occhi gialli, che salgono e scendono, vivi.
Una bambola sembra diversa dalle altre: senza capelli e occhi pneumatici. Rino si avvicina, i fiotti del suo sudore fosforescente spruzzano la fronte senza più freni. Cazzo, altro che bambola, quella è roba vera, di carne, ancora attaccata al cordone ombelicale. Feti, scarti, scarti di altri scarti, anime non autorizzate nella Roma puttana, nella Roma della Papessa. Gravidanze che possono costare l’internamento nei lebbrosari delle catacombe.
«Questo è il posto sospeso. Il Limbo è la vera meraviglia».
Il cortocircuito nel cervello di Rino è assetato di nuovi sconnessioni. Si siede, srotola la follia, che si dipana fino alla fine della galleria. Si svolge un lungo tessuto di seta con pietre gialle e blu incastonate: illusioni di luci, visioni ritorte. Scenari di altrove senza spessore.
«Amici, venite fuori, sono io».
Le stesse parole di sempre, di tanti anni prima; otto anni, la piccola stanza nera, quell’uomo grosso che lo chiudeva dentro per giorni. Punizioni senza occhi, la cinta del buio sulla schiena, lividi invisibili. Poi un giorno sono arrivati gli amici a fargli compagnia. I mostri.
Rumori nelle acque del canale, schizzi e aureole di mosche. Deve esserci qualcosa di grosso giù in fondo, pensa Rino. Il palombaro riprende a navigare nella merda, spostando rifiuti dalla pancia gonfia di melma. La torcia accende un seno bianco, poi esplora il busto di una donna, che schiaccia la schiena sulle pareti grigioblu della cloaca. Una donna, qui? Con una coda di pesce?
Rino ha trovato una post-sirena, una di quelle assemblate, col culo di tonno. Quelle che tritano al Colosseo. Come è finita qui? Stavolta non si è rivelato uno dei suoi mostri, ma lui non è certo deluso, è sempre stato affascinato da quelle doppie creature giuntate da una centralina elettronica. La fogna parla, mentre le mascelle di Rino si allentano. Viti saltate. È la fogna a parlare, o la sirena?
«Durante la mattanza sono riuscita a immergermi, a raggiungere i canali esterni della piattaforma sotterranea. Mi sono aggrappata forte alle maniglie. Una ventola secondaria, una di quelle che simulano onde, mi ha risucchiata fin qui: il collettore è lungo chilometri. La ventola, però, fa male».
Rino osserva quello splendido esemplare di ibrido: la donna, sopra, è bellissima, iconografica, il pesce sotto ha squame bianche dai profili di ambra, la pinna è forte e generosa. La torcia scende verso il basso, la luce è crollata per la meraviglia, accendendo il viscido dorso di un gruppo di salamandre che dormono dentro scarpe da ginnastica galleggianti. Uno degli anfibi viene disturbato dal raggio di Rino, stende la lingua elettrica alla ricerca dell’estraneo, di nuovi e ignoti campi magnetici.
La sirena è sofferente, lui si avvicina e le illumina il ventre, dove le dita sottili stringono forte, cercando di arrestare l’emorragia. Cola sangue dalla bellissima sirena, insieme a lacrime gialle. Sul corpo ha molte ferite, lacerazioni. Le pale di quella ventola devono far male davvero: passarci attraverso, tutti interi, è un miracolo.
«Cristo, ti infetterai in questo posto, ti porto a casa mia. Ti guarirò, vedrai».
La sirena stringe i denti, annuisce. Non è un tritone armato, il suo destino. Niente reti e arpioni.
«Sei gentile. Ti metterai nei guai per me, lo sai?».
 
Due uomini trasportano a casa del pittore una nuova vasca da bagno, i vicini osservano, curiosi. Rino si dà subito da fare, riempie la vasca d’acqua e vi adagia la sua post-sirena. Prende un barattolo, apre il coperchio e versa nell’acqua una polvere bianca che frigge.
«Questa ti aiuterà.»
«Mi troveranno, prima o poi, e ci andrai di mezzo anche tu. Io sono un mostro.»
«I mostri sono miei amici da sempre, e tu sei bellissima».
Rino non può perdere l’occasione di dipingere una sirena, anche se non è originale. I suoi occhi sono di nuovo vivi, accesi. L’amica fogna gli ha regalato un’opportunità: un gioiello rotto da aggiustare. La sua solitudine dai buchi saldati viene penetrata da nuovi cilindri, da caleidoscopi iridescenti. La vita che alla fine trova sempre un varco, allargando fessure invisibili e membrane di ferro. Il seme dei colori, scodinzolando in quel grembo anfibio velocemente assemblato, farà il suo mestiere, partorirà una nuova opera. Non sarà un incubo, stavolta.
Ma la sirena sanguina sempre più, la sua carne è martoriata dalle pale della maledetta turbina. Non resisterà a lungo il suo nuovo, bellissimo mostro che sa rivelarsi anche alla luce del giorno.
Rino è spaventato, cerca di pulire le ferite, assorbire il sangue con un asciugamano, e poi con un altro. Inutile, restano tutti impregnati di linfa di donna e di tonno, liquidi dalla diversa densità che continuano a erogare carburante di sirena nell’acqua della vasca, che diventa rapidamente rossa.
Il dolore non sembra attenuarsi, ma la sua sirena si sforza di sorridere.
«Grazie».
Rino ha le mani nei capelli, non sa cosa fare, esita. Continua a ingoiare mosche con la sua bocca aperta, svitata. La mia sirena deve guarire, vivere! Echi nel cranio, viavai di metamorfosi. La sua Musa chiude gli occhi, potrebbe essere già stata risucchiata da una diversa turbina, quella blu che porta all’Inferno, direttamente dal condotto principale. Ma lui esorcizza i pensieri, la morte. Ha fede nel Limbo, che non distrugge nulla, che conserva, ricorda. Lancia una sonda di parole, col fiato corto.
«Hai bisogno di dormire?».
Osserva i movimenti fluidi delle labbra della sirena, sta dicendo qualcosa, ma non riesce a capire, è troppo debole per parlare. E se fosse tutto frutto della sua fantasia? Una post-sirena in una fogna è proprio un chiaroscuro di archetipi. La sua immaginazione lo ha sempre fottuto, confuso. Per questo è finito nella gabbia della cloaca, nel suo Limbo nero, seguendo le code, i sonagli delle ossessioni. Ma le labbra della sua musa si muovono, forse sta cantando qualcosa, come le vere sirene del mare. Se la sua, di sirena, è davvero un’illusione la terrà con sé fino alla fine, fin quando il neon della realtà deciderà di accendersi, accecando mostri e meraviglie.
Notte. Rino osserva il sangue che cuoce nel corpo della sirena. Ferite troppo profonde di rasoi di due metri, ci vorrebbe un medico, ma nessuno si azzarderebbe a farsi vedere tra le tombe megalitiche di Via Prenestina. Il ghetto dei ratti, lo chiamano. Non importa avere la coda o meno, fitto pelo nero o pelle umana. È la stessa cosa, in quel posto. Arriverebbero subito le guardie svizzere con i loro machete per riprendersi la preda da Colosseo, per gettarla di nuovo in pasto ai tritoni d’assalto e ai sanguinari rais, dopo averla riparata alla meglio. I pulitori finirebbero il lavoro castrandolo e trasferendolo nello Scheletro di Metallo. Una vita da eunuco alla corte di una Regina T-Girl, le nuove Viceré di latex della Roma puttana. Senza più stanze nere, fogne, porte per il Limbo, amici mostri, meraviglie. Destini di arpioni sulla schiena ed evirazioni. Polpette di sirena e il tatuaggio del loto blu sullo scroto scavato e pulito: pene imbottigliato, grandine di testicoli.
«Il mio corpo sta bruciando, aiutami».
La sirena è sofferente, stringe i denti e la sua anima anfibia installata da un dio ubriaco, con lo stemma della Gallina Nera sulla carlinga dell’astronave.
«Ti prego».
L’ultima meraviglia sta sanguinando, morendo. Presto sarà estinta, come tutte le altre, nel ghetto di ratti di Via Prenestina. Rino si tiene la faccia fredda tra le mani, è impotente, non gli resta che assistere all’arrivo della Morte, che ha già fiutato il suo appartamento.
La sirena fissa l’estraneo soffitto, lasciando scorrere gli occhi sulle pareti, sulle maschere di antichi demoni appesi al muro dello studio di Rino. Teste che gridano in silenzio, con la bocca spalancata.
Forse lei riesce a sentire quelle voci, le urla di un lontano Medioevo. Un Medioevo di streghe e di sangue, di galline sgozzate e di uteri salati e seccati al sole. Un Medioevo che sta tornando di moda nella Roma puttana della Papessa.
Un incontro inutile, le ultime scariche di un marcio arcobaleno. Ma Rino non si arrende, vuole confondere la morte, i suoi countdown programmati, le sue alte clessidre che tengono conto dei granelli di ognuno. Cascate di anni, di giorni, e poi di ore. Rino si decide, solleva la faccia fredda dal pavimento, si alza e accosta la bocca all’orecchio della post-sirena.
«Prima che sia troppo tardi, vorrei assemblarmi con te, al posto di quel pezzo di tonno».
La sirena apre gli occhi, stavolta le sue labbra suonano, si sentono.
«Farla finita insieme, perché?».
Il viso di pietra di Rino anticipa tutta la storia. La sua tomba megalitica di Via Prenestina è vuota da anni, la moglie è stata giustiziata nel lebbrosario delle Catacombe di Calepodio. Una gravidanza di troppo, due gemelli nel ventre, valgono la morte nella Roma puttana della Papessa. Valgono il rogo nel cubo di cristallo e gli applausi immondi e festanti di Piazza Farnese. Un martedì, proprio come oggi.
Non serve spiegare altro, la sirena è debole e chiude gli occhi.
«Fallo, se vuoi».
Si addormenta, la pinna, la mezzaluna immobile, esce dagli angusti confini della vasca da bagno, il sangue cola lento sulla ceramica bianca, arrampicandosi sui bordi arrotondati. Piove sulla Roma così puttana e sul tetto della tomba di cemento di Rino. Gli occhi della sirena stanno mutando in piccoli maelstrom che vedono altrove, risucchiando anime nei loro orti concentrici. Labirinti.
Bisogna fare in fretta, prima che sia troppo tardi. Prima che lei sia trasferita in quell’altrove, troppo lontano. Un Limbo si può accettare, due sono troppi.
 
Rino esce dal suo appartamento, si lascia colpire dalla pioggia, tende le mani verso un cielo figlio di puttana. Prega qualcosa, qualcuno? No, vorrebbe trascinare sulla Terra, tirandolo giù per le caviglie, il dio ubriaco che ha deturpato la sua Musa.
La Papessa dalle scarpe di velluto rosso e le mutandine col ripieno. Vorrebbe chiuderla per sempre nella sua fogna, nel suo tunnel preferito. Osservarla galleggiare sulla pancia, come una grande piattaforma per i tuffi dei ratti, dagli speroni e dagli scivoli delle grosse tette.
Rino non può perdere altro tempo, rientra a casa, i suoi pensieri sono creature senza zampe. Il delirio si è ormai accoppiato con la sua vecchia follia, lumache brune e verdi rosicchiano la sua mente. Una sirena che muore dissanguata è l’Alpha dell’Apocalisse, un cattivo presagio, uno dei tanti materializzati nella Roma della Papessa, che somiglia sempre più a un enorme culo a sette chiappe. Molecole nere, colli di rifiuti e strade di insetti, totem di meteoriti, godemiché molecolari e polpette di sirene, colonnati fallici, lebbrosari di uteri, catacombe in overbooking.
La notte, il buio: a Rino basterà chiamare i suoi amici mostri, ancora una volta, per sistemare la faccenda. Prende un piede di porco e la torcia, indossa gli stivali e si avvia verso il suo amato tombino 147S. La soluzione è nelle fogne. Scende nelle navate rosicchiate, arriva al suo canale grigioblu. Lascia vibrare la sua voce tra scatti di insetti spaventati.
«Amici, venite fuori, sono io».
Un vento metallico, senza radici terrestri, scuote la cloaca. Si materializza una sagoma scura, robusta, in fondo al tunnel. La sua ombra si allunga sulle pareti marce della fogna, ha una cintura in una mano e una bottiglia nell’altra. Il padre di Rino cammina lentamente verso il figlio, che rotea la testa. Il vento e la pioggia, fuori, chiudono la bocca e i rubinetti, contemporaneamente.
La piccola stanza nera, le punizioni, una maledizione che ha colto nel segno. Lo schiavo del Limbo, del buio, senza più orbite, prende in braccio Rino, sale le scalette di ferro ed esce in strada, all’aperto, dopo tanto tempo. L’aria, l’abbondanza di ossigeno, stordisce la creatura per qualche secondo.
Il mostro vede con antenne soprannaturali: sente più che vedere. Sa dove andare, dove portare Rino: ci è cresciuto in quella tomba di Via Prenestina, quando la Gallina Nera ancora non dominava la Cupola di San Pietro. Anche se c’erano già tutti i presagi dell’Apocalisse.
Il mostro entra nello studio di Rino, appoggia il corpo del figlio sul pavimento. Punta le antenne, le due escrescenze che forano il cranio, verso la sirena sanguinante: sente le vibrazioni della Morte che siede sul bordo della vasca, in attesa. Scambio di odori tra creature dell’altrove.
Il mostro, il padre, sa cosa fare. Scende in cantina, sbatte continuamente sulle pareti, sulle macchie di vecchie grida umide ancora attaccate. La cameretta nera, la cantina, le punizioni.
Torna nella stanza con una sega elettrica dai denti di diamante. Si avvicina alla vasca, il motore della sega ruggisce forte sotto l’ombelico, la coda di tonno salta via facilmente. La sirena continua il suo viaggio di mezzo, a occhi chiusi. Meglio così. Il mostro si pulisce la faccia dal sangue misto, si mette in ginocchio col mezzo tonno sulle gambe, vi affonda le mani per recuperare le grappette peripeliche per la condivisione delle connessioni nervose. Aggeggi troppo piccoli per mani come le sue, un lavoro difficile per una ‘creatura del buio’. Passa al corpo del figlio, che continua a roteare velocemente la testa.
Chissà dov’è, in questo momento. Esiste una fogna all’Inferno?
La sega torna a ruggire, le gambe di Rino saltano via facilmente. Il mostro raccoglie il busto del figlio e lo adagia nella vasca. Inserisce le grappette peripeliche nella carne di Rino, i led verdi si accendono a intermittenza, qualcosa sembra funzionare. Accosta le due sezioni, del figlio e della Sirena, una contro l’altra, ombelico contro ombelico. Spinge, stringe la ferita con la fascia molecolare di acciaio2. Un ronzio, l’attivazione della fusione, le batterie spingono ancora energia. Ma durerà poco.
Il mostro si siede sul pavimento, afferra la coda del tonno e inizia a morderla. Ha fame, la creatura del buio, e denti forti. La Morte, sul bordo della vasca, osserva stupita la sua strana preda. Una donna e un uomo collegati, una post-creatura a due cuori. Un assemblaggio che non ha mai visto.
 Sarà autorizzata a portare via quelle anime attaccate? Foto I FIGLI DI UXOR 77 di Caleb Battiago - Disponibile su Amazon
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Published on April 01, 2020 00:19

March 31, 2020

Cover Reveal e Apertura Preordini: La raccolta di racconti e poesie dark I SOGNI DEL RE NERO

Foto In uscita a fine Aprile I SOGNI DEL RE NERO - Cristiano Saccoccia Dark Edition' , un'altra Edizione Collection Speciale di mie opere (racconti che non fanno parte del ciclo 'narakiano', tra cui alcuni inediti e pezzi non più reperibili sul mercato, due opere scritte assieme a Paolo Di Orazio e una serie di poesie dark tradotte in italiano per la prima volta) fatta realizzare da un collezionista, a tiratura extra-limitata di 36 copie, della quale sono acquistabili sullo Store solo 25 copie (le altre sono di appannaggio del collezionista). La raccolta contiene mieie racconti (20) che non fanno parte del ciclo 'narakiano', tra cui alcuni inediti e pezzi non più reperibili sul mercato, due opere scritte assieme a Paolo Di Orazio e una serie di poesie dark (19) tradotte in italiano per la prima volta, selezionate da 6 raccolte di poesie pubblicate in inglese all'estero.
Il volume è impreziosito da un inserto a colori (6 tavole) illustrato da Stefano Cardoselli, con copertina flessibile con alette e sovraccoperta, e copie firmate da me.
Preordina il libro sullo Store Independent Legions

Ecco l'elenco delle opere contenute nella raccolta:
Racconti: NARIKO (Inedito); IL RE CHE DORME; CONTRALIA BLUES; BY THE SEA; INTERNO 1; L’INFERNO DI CAPELLI LUNGHI; MALANIMA; KIRTI (Inedito); MICTLAN; IL SACCO (scritto con Paolo Di Orazio); LA GEMMA DI BANDIT QUEEN; REGNUM CONGO; MIDNIGHT BABY – HORROR LOLITA (novella); IL PESCE DI FERRO; VERSO IL MONTE MERU; DEADWOOD; L’UOMO CHE MANGIAVA FIORI; HANS e GRETA (scritto con Paolo Di Orazio); LA GABBIA D’ORO; DARK CALIPSO.
*Parte di questi racconti sono apparsi sulle raccolte dell'autore 'Kannibalika' e/o 'Il Giardino delle Delizie', libri entrambi attualmente fuori commercio.

Poesie: IL RE NERO (inedita in tutte le lingue); EUGENE IL PIROMANE (inedita in Italiano); IO SONO IL FUOCO  (inedita in Italiano); KOO-O; BLUE GRACE (inedita in Italiano); LA TOMBA DELLA TRIPLA VENERE (inedita in Italiano); ROUTE 66 (inedita in Italiano); BLACK SPRING (inedita in Italiano); MISS SAIGON (inedita in Italiano); L’UOMO CHE SI CREDEVA UN RE (inedita in Italiano); HOLY DIVER (inedita in Italiano); IL CANALE (inedita in tutte le lingue, in uscita sul prossimo numero del Magazine Weird Tales); LA RAGAZZINA DI CALCUTTA (inedita in Italiano); IL CIRCO MORTO; IL MAESTRO DEL DOLORE (inedita in Italiano); IL VECCHIO SERPENTE (inedita in Italiano); PEZZI DI EDEN; L’ATTESA (inedita in Italiano); LO SPECCHIO DEL RE (inedita in tutte le lingue).
* Le poesie, delle quali tre inedite in tutte le lingue e tredici mai pubblicate in Italiano, sono selezionate dalle seguenti raccolte finaliste e/o vincitrici dei premi internazionali Bram Stoker Award, Elgin Award e Rysling Award: 'Venus Intervention', 'Eden Uderground', 'Sacrificial Nights', 'No Mercy', 'War' e 'The Place of Broken Things' : 
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Published on March 31, 2020 02:05

Cover Reveal e Apertura Preordini: La graphic novel KIND OF RED

Foto Independent Legions ha rivelato la copertina, e aperto i preordini, per la graphic novel KIND OF RED, soggetto mio, sceneggiatura scritta assieme a Stefano Cardoselli, che illustrerà anche l'opera, in uscita a Ottobre 2020, in Italiano e Inglese. Preordina il libro sullo Store Independent Legions.

Sinossi e descrizione dell'opera: 
Un musicista jazz, imprigionato in casa da anni, senza più suonare la sua tromba nemmeno per un momento, vittima della droga e della depressione, di un oscuro abisso che l'ha ingoiato, è ossessionato dalle psichedeliche delizie di piacere e dolore offertegli dal conturbante demone che gli è sempre accanto, Vanilla. Si tratta solo di un'ostinata, infinita allucinazione? É lei la catena, con quel suo caratteristico profumo di vaniglia, oppure rappresenta la liberazione?
Edizione Collection a tiratura limitata (299 copie) e numerata, copertina flessibile con bandelle, formato 17x24, interni in bianco e nero, 66 tavole, 75 pagine. Collana: High Voltage. Serie 'Dark Muses' Albo nr. 1
Illustrazione di copertina e di quarta di Stefano Cardoselli.
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Published on March 31, 2020 01:59

March 21, 2020

Quarantine #2 Free Reading: REGNUM CONGO

Foto Ho scritto questo racconto nel 2014, ed è stato pubblicato nel 2016 nella raccolta di racconti 'Kannibalika' (EUS Edizioni), oggi non più in commercio, e non ho ancora voluto ripubblicarlo altrove.
Il pezzo è ispirato da 'The Picture in the House' ('L'Immagine nella Casa') di H.P. Lovecraft, il mio unico omaggio finora al solitario di Providence. L'estratto (poche righe) di 'Regnum Congo' che leggerete all'interno del racconto l'ho tradotto dal latino, e liberamente interpretato, da 'Relatione del Reame Di Congo Et Delle Circonvicine Contrade di Odoardo Lopez il portoghese' di Filippo Pigafetta. Le illustrazioni dei Fratelli De Bry, protagoniste di questa strana storia (e dell'originale pezzo lovecraftiano) ovviamente le ho esaminate personalmente.
Buona lettura. 

REGNUM CONGO
©Caleb Battiago/Alessandro Manzetti
Tutti i diritti riservati
Liberamente ispirato al racconto ‘The Picture in the house’ di H.P. Lovecraft

La pioggia, sempre più stretta, penetra nel ventre del piccolo cimitero di Wilsondale. Lampi, tronchi che galleggiano in un mare di terra nera. Un posto senza più scheletro, senza una solida logica. Foglie affogate, ossa d’acqua, tutto sembra squagliarsi. La mia vecchia Ford è bloccata, azzannata dai denti morbidi del fango. I vermi, aggrappati allo sportello con un lunga cordata, sono arrivati alla maniglia.
Sono riusciti ad entrare, hanno acceso la radio. Until the end of the world. Ho fatto una cazzata a uscire dalla Yankee Division con questo tempo. Tutto per trovare mio padre, la sua poltiglia sottoterra, quello che sarà rimasto del vecchio. Forse i suoi due denti d’oro, stelle nel frullato di melma.
Il Massachussets è troppo grande per scoprire una vecchia tomba, senza sapere dove cercare. Vent’anni di fango e di deserto, di fotografie sconosciute, di grassi custodi, di un invisibile gracchiare di ombre. Un eterno bianco e nero, su file regolari, tra pozze viola e gialle: fiori marci, disintegrati. Il vomito del tempo.
Il cimitero ormai è chiuso, il cancello stretto dalla catena. Le punte arrugginite, il campanello ossidato, le impronte digitali della tristezza. Creste, micron di fantasmi. Ho perso troppo tempo per seguire la mia mappa di illusioni, le tracce del vecchio su questo mondo. Fanculo, non lo trovo da nessuna parte, deve aver camminato tutta la vita senza scarpe, senza piedi. Esisterà davvero la sua tomba?
Oggi ho letto cinquecentoventi nomi, cinquecentoventi lapidi. Ormai sono arrivato a centinaia di migliaia, in tanti anni. Conosco tutti gli indirizzi dell’Inferno, tranne uno.
Cristo, qui non c’è più nessuno. Il parcheggio di terra è sfregiato dalle sgommate, dalle curve morte di chi è già andato via. Posto di lumache del cazzo. Mi allontano a piedi, spero di incontrare qualcosa di vivo, di acceso. Un passaggio per tornare sulla Yankee, tra l’amato asfalto e le tette giganti dei cartelloni pubblicitari. Monotonia di alberi, le scarpe bagnate, la lingua secca. Una macchia rossa, in fondo. La lascio alle mie spalle: sono le lamiere della mia Ford. Il muro di cinta del cimitero è affondato troppo presto, non si vede un cazzo con questa pioggia. Devo andare avanti.
Penso al mio vecchio, come al solito, ai frammenti che mi sono rimasti dentro. Ricordi che puzzano di sigaro, del sudore di fantasmi in canottiera davanti allo specchio. Il pettine nero, la riga da una parte. Un sorriso storto: quella volta non aveva bevuto. L’insolito silenzio di quella mattina, niente grida.
Mia madre sul divano con la fronte squarciata, un asciugamano zuppo di sangue. Una bottiglia rotta in testa, lacrime, bestemmie. Il vecchio ne aveva combinata un’altra delle sue, niente di nuovo. Invece no, se n’era andato sul serio quella volta. Ricordi che accendono una vecchia radio: le pantofole trascinate, la frusta della cintura, a volte, e quel tossire e sputare alle cinque di mattina. Le sue raffiche mi facevano sentire al sicuro. Il vecchio era ancora con me, dentro quella casa sgangherata, coi polmoni neri e la faccia rossa. Le orme verdastre della sua schiuma da barba nel lavandino scheggiato, le campane di tutti i round dell’incontro di boxe in TV. Cosce e cartelli, numeri. Frammenti.
Devo aver camminato parecchio, le gambe sono sempre più rigide, gelate. Quando penso al vecchio. non mi accorgo più di nulla. Viaggio veloce come un razzo, accelero sempre più fino a schizzare fuori dall’atmosfera, per poi cadere giù. Per svegliarmi, alle cinque di mattina, senza più rumori. Silenzio, nel bagno e nell’anima.
Due olmi con la testa fradicia stringono in una morsa una sagoma rettangolare. Qualcosa che ha le finestre accese. Cazzo, quella deve essere una casa, se non sono già impazzito. Qui in mezzo al bosco?
Il mio vecchio mi avrebbe preso a calci nel culo per stronzate del genere. Lui leggeva nei miei pensieri. In questo posto di lumache non potrebbe viverci nessuno. Eppure, quella sembra proprio una casa.
Mi avvicino, alzo le braccia. Grido: Ehi! Silenzio. Sfioro con le dita il legno marcio della porta, la crosta della resina. Accosto l’orecchio, non si sente niente. Zero rumori, zero anime in moto. La colla gialla del silenzio, appiccicosa, mi resta sul collo, sulla guancia. Busso con decisione, più volte, anche un sordo mi sentirebbe. Cristo, apri questa cazzo di porta! Un telefono, un asciugamano e sarei a posto. Spingo la porta, si apre scricchiolando. No, non sono i miei denti, anche se ormai tremo come un frullatore.
Un piccolo ingresso, due stanze sui lati, una scala che porta al piano superiore. Ehi! C’è qualcuno?
La mia voce rimbalza sul logoro divano del salotto, a sinistra. Vecchie molle la lanciano in alto, verso il caminetto. Cenere, budella di legno, silenzio. Mi risponde solo il ticchettio dell’orologio. Lui, lassù, se ne fotte della pioggia, dei lampi, dello strano rumore delle mie scarpe bagnate. A ogni passo penso di aver schiacciato un grosso rospo. Squash.
La stanza è spoglia, arredata con pochi mobili, rozzi ed essenziali. Da un tavolo massiccio spuntano incerte torri di libri antichi con la copertina in pelle, carte, illustrazioni e altra roba. Tutto in piedi sull’orlo dell’equilibrio, gli spigoli e la polvere sostengono le architetture di carta, digrignando i denti ai cavi della gravità che cercano di tirare verso il pavimento.
Mi avvicino, stupito. Esploro quell’inatteso Eldorado, volando in cerchio come una mosca. Una Bibbia del XVIII secolo dalla pancia gonfia, una copia del Pilgrim’s Progress, illustrata con grottesche incisioni, sbavate dall’umidità, le pagine rosicchiate del Magnalia Christi di Cotton Mather.
Qui in mezzo al bosco? Questa roba? Da non crederci. Forse non sono mai uscito davvero da quel cancello, dal cimitero di fango di Wilsondale. Quel figlio di puttana del custode, il maledetto sordo, deve avermi sfondato il cranio col suo badile. Mi guardava storto fin dall’inizio. Gente che non vuole forestieri tra le palle, che ha pronte delle fosse speciali per i curiosi. Lunghe e corte, qualsiasi dimensione e misura. I turisti dei cimiteri, così li chiamano. Vai a spiegare la storia del mio vecchio, che non ricordo più neanche io.
Cazzo, questa è grossa! Il Regnum Congo di Pigafetta! Corazza di pelle e fermagli di metallo, le stravaganti illustrazioni dei fratelli De Bry. Affondo le mani, stavolta: sfoglio il libro eccitato. Le pagine frusciano: Francoforte, data di pubblicazione 1598. Davvero strano questo Inferno, con una biblioteca così ricca e affascinante. Forse ognuno di noi materializza le stanze dell’altrove assecondando le proprie passioni, le abitudini. Se è davvero così, l’Inferno dove è rinchiuso il mio vecchio deve essere attrezzato con un bel tavolo da biliardo, un bar ben assortito e un paio di puttane sedute, in attesa di lavorare. Calze rotte, gioielli falsi, pesanti e scintillanti. Profumi di mango e di albicocche decomposte.
Il mio, di Inferno, non poteva che essere questo, come lo vedo adesso. I libri, i miei amici silenziosi che non bevono, che non sputano pezzi di polmoni. Che non ti abbandonano mai. Riprendo a immergermi nel Regnum Congo, senza accorgermi che finalmente ha smesso di piovere.

Amano la carne umana, come noi gustiamo quella degli animali, mangiano i nemici che hanno ucciso in battaglia, li vendono come schiavi, se possono ottenere un buon prezzo, altrimenti li consegnano al macellaio che li taglia a pezzi e poi li vende arrostiti o bolliti. Un fatto notevole nella storia di questo popolo è rappresentato dal fatto che quando vogliono dimostrare il proprio coraggio, e il disprezzo della propria vita, ritengono sia un grande onore offrirsi ai propri principi, come fedeli vassalli, per essere macellati. Offrono se stessi oppure i propri schiavi, quando sono ingrassati, per farli uccidere e mangiare. Molte popoli mangiano carne umana, come nelle Indie Orientali, in Brasile e altrove, ma divorare la carne dei propri nemici, amici e parenti, è una cosa che non ha eguali, se non tra le tribù degli Anzique. *
 
Più che le abitudini gastronomiche degli Anzique, descritte da Pigafetta, sono le illustrazioni dei fratelli De Bry a gelarmi le palle. La tavola XII, la macelleria. Tranci di uomo appesi alle corde: braccia, cosce, crotali di budella attorcigliati. Grossi vasi colmi di teste e busti sfondati, immersi in un liquido giallo, denso. Uno dei due macellai apre un coperchio, mostra la merce bollita. Un Anzique, col culo di fuori e penne nere tra i capelli, si sporge per guardare il contenuto. Immerge un dito, assaggia il brodo di uomo. L’altro addetto del mattatoio indigeno, con una stella a sei punte che ciondola sul petto, si occupa della carne arrostita. Affonda il coltello, prepara altri spiedini. Sulla sua destra spuntano decine di canne con un boccone sulla punta. Sembra carne bianca quella che lavora, corpi occidentali. Il gruppo di indigeni si stringe verso il bancone di legno, allungano le mani, sono affamati. Barattano i propri oggetti per mangiare. Una donna grassa, con le tette sgonfie che coprono l’ombelico e la faccia pitturata da tigre, trascina via un sacco.
Lo sfondo è riempito da una collina squadrata, la cima tagliata di netto. La terra è decorata di ossa: salite di teschi e di tibie, macabri orti di resti umani dalla forma circolare. L’allevamento, la roba ancora viva, è in una gabbia, a fianco del mattatoio. Si vendono uomini interi, per chi vuole, ancora urlanti e parlanti. Non sarà difficile tirare il collo a quei disgraziati, tritarli per un allegro banchetto.
L’indigeno di guardia spinge una lancia verso la folla, non lascia avvicinare le sue vacche umane. Deve essere uno dei capi, le sue penne sono lunghe e colorate. Dal viso color argilla spuntano occhi troppo grandi. Lo sguardo a trecento gradi di una tarantola, di un evoluto predatore, di un demone. Nella confusione si calpestano fegati, bistecche di polmoni e pezzi di altri organi ormai irriconoscibili. Motori spenti, carburante rosso sparso ovunque. Un gran casino.
Torno continuamente alla magnetica tavola XII, alla macelleria. Gli Anzique si sono accorti della mia presenza, mi guardano minacciosi dalla loro rettangolare finestra d’Africa. Sono vicini, sono veri. Potrebbero afferrarmi per un braccio, trascinarmi dentro. Assaggiarmi e fare il prezzo, prima di mettermi nella gabbia. Finirò bollito o arrostito?
Un rumore di passi dalla stanza di sopra. Cazzo: non sono solo. Eppure gli indigeni dalle formidabili mascelle sono ancora chiusi nel libro. Altri passi, più chiari e pesanti, sulle scale. Non mi resta che aspettare il padrone di casa, chiunque esso sia. Il Regnum Congo resta aperto sulla tavola XII.
Si mostra una strana donna, grassa e possente, con uno sguardo d’aquila. Fianchi da rinoceronte, collo e caviglie impressionanti, forti, solide. Le labbra enormi, i capelli neri legati, è scalza. La gigantessa si avvicina, si sistema il logoro vestito rosso schiacciandoci dentro le grosse tette sbordate. Mi sorride, mi fa cenno di accomodarmi sul divano. Si muove pesante verso la finestra.
«Finalmente ha smesso di piovere»
La sua voce è profonda e orridamente sensuale. Avrà cinquant’anni, non è certo bella, è solo una grande pandemia di carne, un’esasperazione di tessuti.
«Non viene più nessuno da queste parti, una volta era diverso»
Si siede accanto a me. Mi osserva: sono completamente fradicio. I suoi occhi da vitello si soffermano sulle mie scarpe infangate, poi salgono verso i pantaloni. Orbite che peseranno cinque chili l’una, le sento addosso. Mi stringo nel mio cappotto, torno a sentire freddo.
«Davvero un brutto temporale, vero? Capita spesso, qui. La pioggia.»
L’odore della sua pelle è forte, penetrante, famigliare. Mi ricorda il fiato acido del sudore di mio padre. Esalazioni di ricordi, di pozzi di metano alieni, di frammenti senza tomba.
Sono a disagio, vorrei andarmene, ma ho bisogno di usare il telefono della gigantessa. Sto per chiedere, ma la donna mi anticipa, seccandomi le parole in bocca.
«Ti serve qualcosa di caldo. Aspettami, torno subito.»
Guardo quell’enorme culo allontanarsi, il tessuto che tira, che fatica a contenere le masse di quei glutei tellurici. Cammina curva, come le persone troppo alte. Due metri almeno, cazzo, forse di più.
Da dove è uscita fuori una donna del genere? Mi alzo, vado alla finestra, spero di veder spuntare fuori qualcuno da quella boiata di fango e di nulla. Ma la strada è lontana, questo è il regno delle lumache e delle gigantesse, a quanto pare. Un lampo, subito seguito dal suo tamburo sfondato. Riprende a piovere.
I tanti chili della donna tornano in salotto, insieme a un vassoio troppo piccolo.
Non mi è mai piaciuto il tè. Fanculo, meglio accontentare la gigantessa. Sorrido come se mi avessero arpionato sul groppone. Mi siedo, sorseggio quella merda bollente. Non mi toglie gli occhi di dosso.
I suoi denti mordono ritmicamente le labbra, somigliano alla fica di una vacca. Pandemia di porpora. Le tette balzano sempre più fuori, la grassa troia lo ha fatto apposta, ha calato le spalline del vestito per farmi ammirare il décolleté da balena. Un Gesù Cristo d’argento soffoca, là in mezzo. Meglio deviare l’attenzione verso qualcos’altro, prima che la padrona di casa mi salti addosso. Saranno anni che non chiava, troppo caro il prezzo per un tè di merda. Riesco ad aprire bocca, finalmente.
«Dove hai trovato quella roba? Sono libri molto rari.»
La gigantessa tira un respiro pesante, un vortice, schiaccia la schiena sulla spalliera del divano e mi risponde annoiata. Non è quello l’argomento che le interessa.
«Ebenezer, un amico. Ha lavorato anni su un mercantile, ha girato il mondo. Un collezionista di stranezze, ogni volta che veniva a trovarmi mi portava un regalo.»
Si alza, afferra il Regnum Congo e torna a sedersi, sempre più vicina. Le sue corde vocali vibrano sulle radici, sputando fuori qualcosa di simile a un sussurro. La bocca si muove modulando suoni marci. Il suo sudore si mescola al profumo di viola che si è sparata addosso. L’odore di un cimitero d’estate, di atomi di un macabro agosto, fusi sulle lapidi bollenti.
La tavola XII dei fratelli De Bry, il libro si apre sempre in quel punto. La macelleria Anzique si anima ancora una volta. Le dita tozze della gigantessa accarezzano i disegni, le sfumature di sangue, le sezioni. Quella scena orribile sembra eccitarla. Insiste, frega con le unghie affilate quei pezzi di corpi umani che penzolano dalle corde, co leggere inclinazioni che fanno immaginare il vento. Il lento respiro dell’Africa. Oppure è lei a far oscillare la carne, manovrandola con i polpastrelli. Sono confuso, la maledetta illustrazione si trasforma in un imbuto, la mia mente cola lentamente dentro quella follia.
Una goccia di sangue, di quello vero, si schianta al centro della pagina. Proprio sulla faccia del macellaio che prepara gli spiedini d’uomo. Cazzo, la pioggia non è rossa.
Sollevo gli occhi verso il soffitto, una grande macchia rossa, irregolare, si allarga sempre più. Gronda sangue fresco, altre gocce sono pronte al salto, trattenute da sottili filamenti viola. Le immagini diventano sfocate, cosa cazzo mi ha fatto bere la grassa troia?  Buio, la sensazione di qualcosa di pesante che mi schiaccia il petto, perdo i sensi. Dunque è tutto vero, sono all’Inferno da ore, ormai. La gigantessa che mi offre il tè in una casa inesistente, prima di spedirmi dentro, tra le fiamme. Una strana guardiana dell’aldilà, la grassona. Ora incontrerò il mio vecchio, qui non potrà certo scappare. Ho finito di consumare la mia vecchia Ford tra le strade di polvere del Massachussets.
Tornano improvvisamente gli odori, i rumori. Occhi bovini che mi fissano, una bocca insanguinata che mi bacia. Non sono nel mio appartamento all’Inferno, ma nel letto della gigantessa. I pensieri si sono riaccesi, ma non riesco a muovermi. Sono nudo, come la padrona di casa. Una grossa tetta mi sbatte in faccia, la mia amante si è voltata: ora ho sulla faccia il suo enorme culo che balla come un budino di vaniglia. Non riesco a respirare altro che la sua carne trionfante, i suoi umori che mi colano sul collo, sul petto. Cosa cazzo fa? Me lo sta succhiando? Non sento nulla: piacere, dolore, disgusto, nulla.
Capisco quello che mi sta facendo solo quando si mostra il suo profilo massiccio: si è rialzata dal mio ventre, dove era affondata con la faccia. Tra i denti ha pezzi di me, roba morbida, non riesco a capire cosa mastica. Dal mento le cola sangue. Si succhia le dita e scende di nuovo a lavorare sul mio ventre.
Il suo culo che danza è la mia porta dell’Inferno.
 
* Nota: estratto, liberamente interpretato e tradotto, da “Relatione del Reame Di Congo Et Delle Circonvicine Contrade di Odoardo Lopez il portoghese” di Filippo Pigafetta
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Published on March 21, 2020 11:03