Sergio Maistrello's Blog, page 10
November 15, 2012
Il fact checking è un’autocritica
Uno dei problemi del fact checking è che poco si adatta diventare prodotto. Certo, negli Stati Uniti un prodotto lo è già diventato: iniziative come Politifact e FactCheck.org hanno aperto e indicano brillantemente la strada. Ma dal mio punto di vista costituiscono un’eccezione, l’esasperazione di un metodo espulso per contenimento dei costi dal processo produttivo della conoscenza, che nell’epoca della radicalizzazione dei format rischia di finire presto per fagocitare se stesso. Il fact checking è la certificazione del fallimento di un rapporto di fiducia: significa che il giornalista non ha fatto fino in fondo il suo dovere; che il politico sta effettivamente cercando di fregarci; che il rigore del metodo scientifico non è più un requisito sostanziale. Se abbiamo bisogno di Politifact significa che gli anticorpi della società hanno bisogno di una cura ricostituente. In Italia di antibiotici, probabilmente.
Questo non significa che non apprezzi il fiorire di iniziative anche nel nostro Paese, proprio io che sull’argomento negli anni scorsi ho raccolto e rilanciato appunti con grande entusiasmo. Sono felice che Ahref abbia lanciato la sua piattaforma per la verifica dei fatti (e che abbia incontrato sulla sua strada il Corriere della Sera). Mi rallegro che il già innovativo dibattito di Skytg24 con i candidati alle primarie di centrosinistra abbia scelto di integrare una funzione di controllo critico sugli argomenti della serata (pur finendo per dimostrare soprattutto i limiti di un fact checking in tempo reale e spettacolarizzato). Mi piace che nella stessa occasione siano emerse altre iniziative spontanee come Pagella Politica. Tutto bene, tutto bello, tutto utile.
Però mentre ci divertiamo a puntare il dito contro il giornalista distratto o il politico mendace, io guardo soprattutto alla nostra comune consapevolezza. Non vorrei che avessimo trovato solo un modo nuovo per abbaiare al potere e ripulirci la coscienza, perdendo di vista il fatto che il fact checking è soprattutto un’autocritica alla società nel suo complesso. Il principio isolato negli esperimenti di verifica dei fatti stimola ciascuno di noi al rigore degli atti pubblici, alla precisione dei riferimenti, alla ricerca di documentazione affidabile, alla collaborazione con le altre competenze. Dovrebbe costringere il nostro pensiero, soprattutto se esposto in pubblico, a diventare più ecologico: la nostra opinione non vale granché, se non contiene in sé collegamenti riconoscibili ai fatti, ai dati, al percorso intellettuale che l’ha generato. Non basta snocciolare dati per assumere un’aura di rigore: come diremmo sul web, servono i link. E i link devono essere quelli giusti. Possiamo pretendere che comincino politici e giornalisti, ma secondo me facciamo prima se cominciamo a dare, ciascuno nel suo piccolo, il buon esempio.



July 23, 2012
Pnbox e Ordine, non abbiamo concluso granché
Ho seguito con molti motivi di interesse il processo che il Tribunale di Pordenone ha intentato contro la webtv pordenonese Pnbox in seguito alla denuncia dell’Ordine dei giornalisti del Friuli Venezia Giulia. Primo: a sollevare il caso era l’organismo di categoria a cui sono iscritto e che mi rappresenta in ambito professionale. Secondo: seguo e apprezzo dalla nascita le attività di Pnbox. Terzo: ho grande stima delle qualità personali e professionali di Francesco Vanin, fondatore della società e unico imputato al processo (con cui, lo dico qui per trasparenza, mi capita anche occasionalmente di lavorare). Bene, qualche giorno fa la vicenda si è conclusa con l’assoluzione di Vanin: è andata, insomma, com’era logico che andasse, soprattutto in considerazione del fatto che il dibattimento si è andato restringendo fin dalla prima udienza non tanto sull’attività complessiva della webtv (la posizione dei redattori, del resto, era già stata archiviata da tempo), quanto semmai su quella specifica del suo amministratore, talmente al di sopra dei sospetti di abuso di professione che perfino il pubblico ministero ha finito col chiederne l’assoluzione.
Non ho mai nascosto le perplessità per la scelta dei miei rappresentanti regionali di risolvere una questione pur legittima e fondamentale (l’inquadramento delle attività di informazione in rete) nel modo più pavido e prepotente (chiedendo a un giudice di decidere sulla pelle del malcapitato di turno). In tutto il mondo, intere filiere editoriali, dall’editore all’ultimo dei collaboratori, si stanno confrontando sui cambiamenti epocali in corso nel mondo della comunicazione e del giornalismo, condividendo preoccupazioni, idee e sperimentazioni. Qui, nella nazione che già vanta con la corporazione professionale dei giornalisti un’anomalia più unica che rara, si passa direttamente alle denunce, senza nemmeno il dibattito. Tale era l’urgenza di venire a capo del problema che nessun rappresentante dell’Ordine ha assistito alla lettura della sentenza, per dire. Chiusa parentesi.
E ora? Non abbiamo concluso nulla, secondo me. C’è poco da festeggiare o di cui rammaricarsi. La situazione è esattamente com’era prima, non è stato sancito alcun nuovo diritto, tutte le criticità restano. Abbiamo semplicemente evitato che si generasse un grave precedente giuridico, com’era stata per esempio nel 2008 la condanna dello storico Carlo Ruta per il reato di stampa clandestina, perché il suo blog non era una testata registrata (caso risolto soltanto pochi mesi fa, dopo quattro anni di ricorsi, a dimostrazione di come certe cantonate facciano perdere tempo prezioso, mentre il resto del mondo corre). La legislazione di riferimento è ancora nel pieno del suo vigore, nonostante abbia visto la luce nel 1948 (la legge sulla stampa) e nel 1963 (la legge sull’ordinamento giornalistico) e i suoi limiti siano sempre più evidenti. È un po’ come se ci ostinassimo a regolare il traffico di oggi con il codice della strada di fine ’800: a un certo punto le analogie con le carrozze e i velocipedi non funzionano più, semplicemente. Stabilire che quella di Pnbox non sia attività giornalistica a me non soddisfa affatto come conclusione, perché taglia con l’accetta un confine già oggi labile, ma che sarà sempre più difficile rilevare in futuro.
Da giovane giornalista ho molto creduto nei benefici di una professione definita con rigore, perché il sovrappiù di norme poteva garantire un importante margine di autoregolamentazione nella categoria. A quest’ora, però, avremmo dovuto avere come minimo il giornalismo migliore del mondo, mentre il fallimento dell’ambizioso progetto – generoso nelle intenzioni di chi lo ha istituito e difeso finora – è sotto i nostri occhi. L’Ordine oggi è quasi più un freno passivo per gli innovatori che un respingente per professionisti senza scrupoli. I giornalisti rischiano di diventare i peggiori nemici di se stessi, perché mentre difendono le carrozze e i velocipedi vengono travolti dal traffico molesto del 2000 e mancano le ultime scadenze utili per recitare un ruolo attivo e consapevole nella ricerca urgente di una mobilità dolce e sostenibile.
Così oggi ho anch’io sempre meno dubbi: dovremmo fare un salto in avanti. E lo dobbiamo fare – in questo mi ritrovo nelle posizioni di colleghi tutto fuorché avventati, come Mario Tedeschini Lalli - superando questa legislazione e non tentando di adeguarla o modificarla, col rischio di renderla magari ancor più insidiosa a forza di compromessi. La Costituzione già regola, concedendolo a ogni cittadino, il diritto di espressione, così come nei fatti è sempre più spesso il mercato a definire chi effettivamente eserciti le funzioni del giornalista e chi no. Nell’epoca in cui chiunque abbia qualcosa da dire può accedere in modo semplice ed economico a una platea globale, le eccezioni cominciano a essere talmente numerose da rendere impossibile quell’unità di intenti e di pratiche che aveva favorito la nascita della corporazione. In questo calderone anche soltanto far rispettare la legge diventa difficile, mentre la certificazione di Stato che un tempo dava certezza oggi per paradosso tende a ottenere il risultato inverso. Io sono ancora convinto di quello che scrivevo nel 2010: è il momento migliore per essere giornalisti. Ma, appunto, il momento è adesso. Non il 1948.



June 25, 2012
State of the Net 2012, the aftermath
Non è andata solo bene: è stato proprio bello. E di questo il merito va a tutti quelli che hanno partecipato, condividendo idee, esperienze, sensibilità, attenzione, immaginazione, creatività. Abbiamo avuto relatori straordinari, partecipanti curiosi e attentissimi, collaboratori generosi ed entusiasti. Grazie a ciascuno di voi.
Per chi l’ha visto e per chi non c’era, un po’ di materiale in rete:
i video delle sessioni (per ora sono le registrazioni automatiche con qualche buco, e Luca Perugini ha condiviso una scaletta ragionata, ma a giorni arrivano i video hd completi)
le slide degli interventi (in arrivo)
le foto di Giacomo Perasti su Flickr e su Facebook, di Alessio Jacona, di Piero Tagliapietra, di Claudio Zuzzi, Marco Zamperini
l’hashtag #sotn12 su Twitter
il sito ufficiale, la pagina Facebook, il profilo Twitter di State of the Net
La rifacciamo? Sì, e non solo ogni quattro anni. Da oggi Beniamino, Paolo e io siamo al lavoro per State of the Net 2013.
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Vedi anche i post di Vincenzo Cosenza (1, 2), Luca De Biase (1, 2), Marc Canter, Gaspar Torriero, Massimo Mantellini, Daniele Chieffi, Paolo Valdemarin (continua)



June 22, 2012
State of the Net 2012
Potete seguire la diretta della conferenza, venerdì e sabato, su YouTube.
Il programma della conferenza.
L’hashtag su Twitter è #sotn12.
Informazioni e aggiornamenti sul sito di State of the Net.



May 20, 2012
Fatevene una ragione, arriveranno sempre dopo
Capisco sempre meno le polemiche sul ritardo dell’informazione mainstream in caso di notizie importanti e impreviste. Prendiamone atto e facciamocene una ragione: in piena notte, in orari periferici, in situazioni confuse, i giornalisti arriveranno sempre più tardi. Ed è molto meglio così. Preferisco un’informazione che si prenda il tempo di verificare i dettagli e che quando si esprime diffonde certezze, rispetto a dirette fiume improvvisate, che prendono notizie a casaccio da agenzie e flussi di rete, mancano alla loro missione essenziale basata sull’accuratezza e sulla sintesi. I social network ci hanno abituato a una velocità che prima semplicemente non esisteva. Ricordo bene terremoti come quello di stanotte, quando ero ragazzino: le edizioni straordinarie dei tg non si facevano con la facilità di oggi, non esistevano i canali all news (italiani), c’era solo il benemerito Televideo, embrione di flusso digitale nell’informazione giornalistica tradizionale, davanti al quale aspettavo non meno di un’ora l’aggiornamento chiarificatore. Ed era un’altra ansia, peraltro nemmeno condivisa come oggi.
Dovremmo considerare lo straordinario tempo reale condiviso attraverso Twitter e Facebook qualcosa in più, un arricchimento per tutti, non una competizione con le testate giornalistiche. “Se non ci fosse stato Twitter…”: invece c’è, ed è per questo che percepiamo la differenza. Stiamo parlando di due forme di informazione diverse, che hanno tempi e presupposti differenti. Non basta un tweet e una foto di un crollo per avere la notizia, giornalisticamente parlando: o meglio è un’informazione rilevante per me se il tweet mi arriva da @gluca, di cui ho fiducia e che ha l’avventura di vivere sull’epicentro del sisma di questa notte, ma dal Tg1, da Rainews o da Repubblica.it voglio qualcosa di diverso e di più che una collezione di tweet aggregati dalla rete. Non è semplice e lo è ancora meno oggi, che di fronte all’aumento di complessità del mestiere gli organici, i turni e il non necessario vengono selvaggiamente potati per contenere i costi. A volte penso a che cosa avrebbe potuto essere l’informazione giornalistica se mai avesse unito gli strumenti d’oggi alle risorse di ieri.
Non capisco nemmeno le polemiche sui tweet acquisiti più o meno sportivamente dalle testate: io non riesco proprio a concepirli come contenuti originali che ciascuno di noi compone in esclusiva per il proprio ininfluente canale Twitter (col sottointeso che, se utilizzati da canali professionali dovrebbero essere adeguatamente remunerati). Sono testimonianze che mettiamo a disposizione di un ecosistema e che, in contesti straordinari e auspicabilmente rari, diventano parte di una notizia e vengono amplificati dai media mainstream. La notizia non è soltanto copia-incolla, è un processo di validazione e costruzione complessa di senso che prescinde dalla sigola unità di informazione. Ieri si intervistavano le persone con un microfono, oggi esistono molti altri modi per mettere a sistema i loro punti di vista, in modo più veloce ed efficace.
Per inciso, di quello che io penso debba essere un approccio compiutamente giornalistico nell’epoca delle reti sociali ho riscontrato un solo caso all’altezza, stanotte. Ed è stato quello de Il Post, che ha saputo unire sangue freddo velocità di reazione, ricchezza di fonti, prudenza nella selezione e capacità di sintesi.



May 17, 2012
State of the Net, aggiornamenti
Sono aperte le iscrizioni a State of the Net 2012: sono gratuite, ma consigliate (ne abbiamo raccolte un centinaio in tre giorni).
È online la pagina degli speaker: ci sono i primi nomi, molti altri arriveranno nei prossimi giorni.
Stiamo aggiornando una lista Twitter con tutti i partecipanti registrati alla conferenza, così cominciamo a conoscerci per tempo.
Se non l’avete ancora fatto, mettete in agenda il 22 e 23 giugno: vi aspettiamo al Magazzino 26 di Trieste.



May 7, 2012
Dove faremo State of the Net
May 2, 2012
Scienza connessa, un libro
Un pomeriggio di fine novembre del 2010, più o meno mentre sull’altipiano triestino iniziava un’abbondante nevicata, partecipavo a una tavola rotonda di Mappe, convegno internazionale sulla comunicazione scientifica organizzato dalla Sissa di Trieste. In quell’occasione portai alcune chiavi di lettura introduttive sulla rete e i social network. A distanza di qualche tempo, gli atti di quell’incontro sono diventati un libro, pubblicato proprio in questi giorni da Gangemi. Si intitola Scienza connessa: rete, media e social network ed è stato curato da Sveva Avveduto, direttrice dell’Istituto di Ricerche sulla Popolazione e le Politiche Sociali del CNR. Nel volume c’è un mio breve testo, nel quale accenno alla mia idea di rete come sistema operativo per le relazioni. Tuttavia per gli addetti ai lavori il volume è reso interessante semmai dai contributi di Giovanni Boccia Artieri, Tullio De Mauro, Domenico Laforenza con Maurizio Martinelli e Michela Serrecchia, Laura Sartori, Sveva Avveduto con Loredana Cerbara e Adriana Valente, Lella Mazzoli, Nico Pitrelli, Fabio Fornasari e Davide Bennato. Per chi vuole approfondire: il libro sarà presentato il 22 maggio alle 17 presso la sede di Gangemi a Roma.



April 24, 2012
Si sta come a Perugia ad aprile i giornalisti
April 3, 2012
Fai presto a dire testata giornalistica
Poi, quando avrò tutti gli elementi per essere certo di quello che dico, parlerò della vicenda giudiziaria che vede opposti la webtv pordenonese Pnbox e l'Ordine dei giornalisti del Friuli Venezia Giulia. È un caso che – da giornalista, friulano, attivo da anni al confine tra informazione tradizionale e online – vivo con notevole disagio, a cominciare dal fatto che conosco bene e stimo Francesco Vanin e i ragazzi di Pnbox. Se la mia città sta incubando processi e occasioni contemporanei lo si deve a loro e a pochi altri. Qui, per ora, ci tenevo a condividere una piccola esperienza personale, per dire innanzitutto del rapporto ancora difficoltoso tra testata giornalistica e internet. Il mio caso è opposto rispetto a quello di Pnbox: io vorrei registrare una testata giornalistica. Poco importano qui i dettagli e i motivi, ci saranno altre occasioni. Fatto sta che, per registrare una testata, è necessario presentare domanda al tribunale della città in cui la pubblicazione ha sede e fornire alcuni dettagli: il titolo, la periodicità, la sede della redazione, il carattere, la tecnica di diffusione, il proprietario, l'editore, il direttore responsabile (necessariamente iscritto all'Ordine) e la tipografia. La legislazione di riferimento è degli anni '40 e ogni virgola ne risente, ma il caso della testata telematica è ormai considerato e previsto: è necessario indicare il nome e l'indirizzo del service provider, gli estremi dell'autorizzazione del ministero delle Comunicazioni e l'Url del sito. Non è difficile, no? A meno che il tuo fornitore di spazio web non stia all'estero e tu non abbia alcuna intenzione di cambiarlo.
Io, per esempio, da alcuni anni utilizzo per un certo numero di buone ragioni Dreamhost, un provider statunitense che mi permette il pieno controllo di tutti i miei siti in un solo account. Sono costretto a comprare in Italia il dominio .it, se del caso, ma poi redirigo i dns () all'estero. Da parte mia non c'è alcun ragionamento politico o legale, semplicemente la scelta del fornitore più adatto e più conveniente rispetto alle mie esigenze contingenti. Il problema è che, in questa configurazione, io non potrò mai registrare una testata giornalistica. Il tribunale, infatti, vuole sapere dove stanno le mie pagine e chi le ospita per poter dar corso con facilità alle previsioni di legge nel caso io, pubblicazione online registrata, compia illeciti e reati vari previsti dalla legge sulla stampa. Per questo, però, non gli basta sapere che le mie pagine stanno a Brea, California. Vuole avere preventivamente un rapporto consolidato con quell'operatore, in modo che le forze dell'ordine, ricevuto l'eventuale ordine della magistratura, possano seguire procedure rapide e codificate. Da qui la necessità dell'autorizzazione ministeriale, che ovviamente richiedono soltanto i provider italiani e di una certa dimensione. Dunque la testata telematica, se proprio la voglio, devo aprirla necessariamente presso un provider italiano certificato. Oppure sperare che l'interpretazione prevalente riguardo a questa materia evolva rapidamente.
Ho provato a capire che cosa significherebbe per me dar corso all'intero procedimento. Dovrei togliere il mio sito potenzialmente giornalistico dal provider estero in cui già risiede con soddisfazione, affrontare una serie di complicazioni amministrative per trasformare il mio profilo contrattuale presso il provider che mantiene il mio dominio (che, guarda caso, è riconosciuto dal ministero degli Interni), chiedere il permesso anche al provider medesimo (perché naturalmente pure loro vogliono sapere preventivamente se posso procurare guai) e infine presentare la mia benedetta domanda al Tribunale, che la valuterà. E sapete che cosa? A questo punto, non avendo particolari urgenze di riconoscimento formale, ho pensato che chiedere a tutte queste persone il permesso per fare quello che già faccio liberamente come cittadino e che milioni di cittadini fanno quotidianamente in tutto il mondo, era piuttosto lontano dal mio ideale di mondo perfetto. E che tutto questo non c'entrava nulla con quello che ho capito fin qui della rete. Così, almeno per il momento, ho deciso di temporeggiare nel mio intento.
Questa storia non è nemmeno troppo originale, a dirla tutta. Quelli di Bora.la l'avevano già raccontata a modo loro nel 2006.


