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Spazio Autori > EXTASIA (Leone Editore) dal 18 febbraio in libreria.

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Silvio Donà (silviod) | 161 comments EXTASIA

Approfitto della vostra pazienza e della vostra cortesia per segnalare che, dopo i buoni riscontri di PINOCCHIO 2112 (che, tra parentesi, uscirà a breve in edizione economica), dal 18 febbraio inizia la distribuzione in libreria di EXTASIA, il mio nuovo romanzo di fantascienza distopica, pubblicato ancora da Leone Editore.


«In una città priva ormai da un decennio dell'energia elettrica, in lento ma inesorabile disfacimento, Dany e Eva, due fratelli adolescenti, cercano di sfuggire a Julius, chimico psicopatico al soldo della mafia cinese, cui hanno sottratto una fiala di Extasia, la nuova, potentissima droga che ha monopolizzato il mercato dei tossicodipendenti.
Perché Francisco Coelo, dopo anni di vita solitaria, decide di lasciare il suo rifugio sicuro e di rischiare la vita per aiutarli?
Cosa rende Eva resistente al "Morbo", la nuova lebbra che devasta i corpi senza rimedio?
Davvero fuori dai confini della città il mondo vive la stessa, miserabile barbarie?
Che cos'è l'ISTITUTO e chi sono gli uomini e le donne che vi lavorano?
È giusto che la ricerca scientifica guardi solo all'obiettivo finale, senza curarsi dei singoli individui? Davvero in campo medico il fine giustifica i mezzi?»

Senza impegno (come dice Mastrota in TV quando vende i materassi). 
Vogliatemi bene.
Tengo famiglia!

La pagina dell'editore:
http://www.leoneeditore.it/catalogo/i...

Il post nel mio blog che parla del romanzo:
http://silviodona.blogspot.it/2015/01...


Per chi volesse un piccolo assaggio, ecco il primo capitolo del romanzo:


I


Erano in sette. Camminavano in fila, ma non avevano niente
a che vedere coi Sette Nani. Sette cappucci rattoppati di
materiale plastico, trattato con vernici speciali per resistere
alle piogge acide. Sotto i cappucci sette ragazzini, tra gli
undici e i quindici anni. A guidarli un biondino con mezza
faccia di bioplastica e una benda nera a coprire l’occhio sinistro.
Che non c’era più. Tra le mani stringeva l’unica arma
da fuoco in possesso del gruppo: una vecchia Beretta semiautomatica
che aveva conosciuto tempi migliori. Gli altri
avevano fionde da caricare con biglie di metallo ricavate da
cuscinetti a sfera.
Scivolavano silenziosi lungo il canyon artificiale di una
stretta strada, fiancheggiata da alti palazzi le cui finestre avevano
perso anche la memoria di vetri e infissi, ingombra di
ostacoli: macerie, gusci vuoti di auto spolpate, rifiuti di ogni
genere. Procedevano a zig zag, cercando di non perdere il
passo. Sopra di loro il cielo aveva un colore non molto diverso
dall’asfalto sbrecciato e pieno di crepe su cui poggiavano
le loro scarpe di fortuna, con le suole ricavate da
vecchi copertoni.
Quando la strada incrociò un’arteria più grande, anch’essa
deserta e ingombra di ostacoli, il gruppetto si compattò
dietro il capo che scrutava a destra e a sinistra con l’unico
occhio buono, di un colore indefinibile tra il verde e l’azzurro.
Alcuni si girarono, preoccupati, a controllare che nessuno
li stesse seguendo.
«E adesso?» chiese il più alto della compagnia, lunghi capelli
neri e spalle larghe.
Il capo, una buona testa più basso, magro e nervoso,
sembrò non avere sentito. Poi però annuì tra sé e diede un
buffetto sull’avambraccio del compagno, con gesto cameratesco:
«Per di qua… Siamo vicini!».
«Sicuro?»
«Sì. Mancano un paio di isolati.»
Il serpente di cappucci girò verso destra e riprese la marcia.
Procedevano veloci nonostante due di loro avessero un
piede artificiale. Zoppicavano su protesi di poco prezzo che,
a differenza delle protesi di qualità istallate nelle cliniche
dei ricchi, non si adattavano con naturalezza all’andatura di
chi le portava. Del resto era già strano che piccoli sbandati
come quelli fossero in possesso di una protesi.
«Da questa parte!»
Il capo li guidò in una stradina laterale, fino a quello che
era stato un albergo, facendo intanto sparire la pistola dietro
la testa, infilandola in una tasca cucita nella parte interna del
cappuccio.
«Che facciamo ora?» chiese un piccolino dalla faccia butterata.
«Aspettiamo. Di sicuro controllano l’entrata. Lo sanno
che siamo qui.»
Gli occhi frugavano inquieti le finestre. A un tratto cominciò a piovere.
Tutti e sette chiusero i cappucci, facendo
attenzione che l’acqua non si infilasse da qualche parte. Nonostante
le piogge fossero ustionanti solo quando il vento
spingeva una nuvola particolarmente tossica sopra la città,
era sempre meglio non rischiare.
Dopo tre minuti di quella immobilità bagnata, la porta
dell’albergo, rattoppata con pannelli di plastica dove un
tempo c’erano stati dei vetri, si aprì. Un movimento lento
che rivelò la canna di un grosso mitra. Dietro la canna un
nero enorme. Di fianco, uno per parte, una faccia da tagliagole
asiatica e un tizio sulla cinquantina, che ai bambini
apparve vecchio, con in mano una pistola.
«Avete la roba?» chiese quest’ultimo.
«Per te no. Per il tuo capo sì» rispose il ragazzino con un
occhio solo con tono incolore.
«Lo sai che potrei spararti e prendermela da solo, stronzetto?»
«Lo sai che potresti rompere l’ampolla e allora il tuo capo
ti romperebbe il culo?» ribatté pronto il ragazzino. «Ma magari
se te lo rompe a te fa pure piacere…»
L’altro irrigidì la mascella mentre il viso gli si arrossava
per la rabbia, ma fu costretto a controllarsi. «Entra!»
«Entriamo tutti.»
«No, solo tu.»
«Col cazzo! Se comincia a piovere acido qualcuno dei
miei si può ustionare. Facciamo che entrano anche gli altri e
che mi aspettano nell’ingresso, al riparo.»
L’uomo sbuffò, ma poi annuì. Si spostò e lasciò passare il
gruppetto di ragazzini sgocciolanti. L’asiatico chiuse la porta
e la bloccò, incastrando un palo di ferro in un paio di anelli
saldati alla meglio, come una specie di grande chiavistello.
«Vieni qua. Ti devo perquisire.»
Il ragazzino si tolse il cappuccio. Tenendolo sollevato e
allargando le braccia, si offrì alla perquisizione.
«Perquisisci anche lui» disse facendo un cenno verso il
suo compagno più alto. «Anche lui viene con me».
L’asiatico guardò l’uomo quasi vecchio, che sbuffò di
nuovo, ancora più forte. Però alla fine fece un cenno di assenso.
«Che è questa?» ringhiò a un certo punto l’asiatico.
«Una fionda. Hai paura di una fionda?»
«Va bene. Fanculo. Andiamo!» tagliò corto l’uomo quasi
vecchio.
Il ragazzino con la benda sull’occhio, che aveva tenuto la
pistola in mano, nascosta all’interno del cappuccio sottraendola
così alla perquisizione, infilò di nuovo l’indumento
facendo attenzione che l’arma non scivolasse a terra. Fregare
i controlli era stato più facile del previsto. Come aveva
immaginato quella gente non si aspettava che un gruppo di
ragazzini potesse davvero essere pericoloso.
Seguirono il tizio con la pistola, che si avviò verso il piano
superiore, mentre il nero e l’asiatico restarono a guardia
della porta e degli altri bambini. Percorsero alcune rampe di
scale, quindi si inoltrano in corridoi quasi bui. Il biondino
con metà della faccia in bioplastica ne approfittò per recuperare
la sua arma dalla tasca e infilarla sulla schiena, nella
cintura dei vecchi jeans stracciati. L’uomo conosceva bene
il palazzo e avanzava sicuro. I ragazzi invece erano nervosi
come gatti e poggiavano i piedi con circospezione, temendo
di inciampare in qualche ostacolo sul pavimento. Alla fine
raggiunsero la porta di quella che era stata la migliore suite
dell’albergo, davanti alla quale stazionava un tipo smilzo,
ben vestito, coi capelli tutti impomatati, anche lui armato
di pistola. Quando gli furono a un metro di distanza i due
ragazzini si accorsero che l’aspetto distinto era guastato da
un piccolo particolare: l’uomo era privo del naso. Al centro
della faccia aveva una macchia brunastra, in cui si aprivano
due cavità scure al posto delle narici.
Anche nel covo di una delle bande più potenti, come
in ogni altro angolo della città, il Morbo faceva il suo mestiere,
mangiandosi pezzi di corpo che marcivano in fretta.
Nessuno era al sicuro. Nessuno era immune. Il Morbo
colpiva all’improvviso e nessuno sapeva come si trasmettesse.
Si poteva stare a stretto contatto con un malato senza
conseguenze e vivere solitari come eremiti e beccarselo
lo stesso. L’unico farmaco conosciuto andava preparato e
utilizzato entro poche ore, non c’era modo di conservarlo
senza che si deteriorasse, ed era somministrato solo nelle
poche cliniche dei ricchi. I poveri non potevano far altro
che aspettare e pregare che il Morbo si fermasse da solo. Di
solito succedeva. Ti lasciava senza il naso, senza una gamba.
O senza metà della faccia e un occhio. Ti ritrovavi vivo.
Mai immune: il Morbo poteva sempre tornare. E, infatti, a
volte ritornava.
«Qui dentro» annunciò l’uomo quasi vecchio ai ragazzini.
Il senza naso aprì la porta, i due entrarono insieme ai loro
accompagnatori. Il senza naso fu l’ultimo, chiuse la porta e
ci si appoggiò contro.
La suite era arredata con mobili raccattati in giro per
l’albergo, secondo un’idea di lusso pacchiana e approssimativa,
da papponi di periferia. Un velo di sporcizia e di
polvere copriva ogni cosa. Seduti su due poltrone gemelle,
intenti a fumare una pipa di rosso con occhi sognanti, c’erano
il Cobra e il Biondo: i due uomini più potenti di quel
quadrante della città.
Il Cobra, il capo della banda, aveva una trentina d’anni
e il viso pallido, gli occhi di un azzurro slavato, freddi, inquietanti,
il fisico asciutto e nervoso del tossico abituale. Il
Biondo era il suo braccio destro. Doveva il soprannome alla
cascata di capelli, legati in una lunga coda, troppo gialli per
non essere tinti. Era una montagna di muscoli e cattiveria.
Il Morbo gli aveva mangiato la mano sinistra, al posto della
quale aveva una costosa protesi in metallo. Dalle dita potevano
fuoriuscire a comando artigli lunghi dieci centimetri e
affilati come rasoi. Gli uomini che non rispettavano le regole
della banda sapevano che quei rasoi avrebbero segnato la
loro faccia per sempre.
Il ragazzino con la benda sull’occhio si scoprì il capo. Il
suo amico lo imitò, deglutendo a vuoto per la tensione. Silenziosi
aspettavano. Era una di quelle cose che si imparano
presto in città, se si vuole sopravvivere: tacere e aspettare.
I due uomini poggiarono le pipe su un basso tavolino di
cristallo, la cui superficie era stata rigata dalle suole rinforzate
in metallo dei loro stivaletti. Quindi si alzarono senza
fretta e si avvicinarono sorridendo, osservando i nuovi
arrivati con curiosità, come animaletti di una razza buffa
comparsi per caso.
«Ero sicuro che sareste venuti» sorrise il Cobra.
«Lei dov’è?» chiese il piccolo con la benda.
«Hai la roba?» si informò il Biondo, ignorando la domanda.
«Lei dov’è?» insisté l’altro, con lo stesso tono.
Irritato il Biondo fece un passo in avanti, sollevando l’arto
di metallo, ma il suo capo lo bloccò poggiandogli una
mano sull’avambraccio «umano», sempre sorridendo, come
se tutta la faccenda fosse una specie di farsa comica che lo
divertiva un mondo.
«È nell’altra stanza, tranquillo» il Cobra indicò con un
cenno della testa una porta alle sue spalle.
«Voglio vederla.»
«Tu non detti le regole!» ringhiò il Biondo.
Il ragazzino tirò fuori da sotto la mantellina una piccola
fiala di vetro, grande come un accendino, e la tenne tra il
pollice e l’indice con una specie di molle indolenza.
(....)
Nella provetta era contenuta una nuova sostanza di sintesi
chiamata Extasia.


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