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«È da un po’ che avrei una domanda da fare a qualcuno del partito» disse il vecchio che cuoceva le patate. «Compagno commissario, si dice che col comunismo riceveremo tutti secondo le necessità. Ma cosa succederà se avremo tutti quel che vogliamo già dalla mattina presto? Saremo sempre ubriachi?».
Non fiatavano, i due abitanti della guerra. L’automatismo perfetto e infallibile – uccidi! – di cui erano entrambi dotati, non scattò.
La vita era tremenda, e nel profondo dei loro occhi balenò il triste presentimento che anche dopo la guerra la forza che li aveva spinti in quel buco, sbattendoli faccia a terra, non avrebbe calpestato solo gli sconfitti.
Eravamo così depressi che cercavamo di spiegarci difficoltà temporanee e imputabili alla guerra con presunti vizi della realtà sovietica. Mentre tutto ciò che rimproveravamo allo Stato s’è rivelato un suo pregio». «Tipo il Trentasette?» chiese Štrum. «Viktor Pavlovič,» disse Sokolov «ultimamente ho l’impressione che lei cerchi sempre la lite».
A Berlino la razza dominante era diffusa a ogni livello sociale. Ma proliferava più che mai fra gli intellettuali cosmopoliti e privi di tratti nazionali specifici, che non facevano differenza tra un tedesco, un italiano e un polacco.
Era grazie a loro se da oltre confine approdavano in Germania scienziati, artisti, filosofi e ingegneri. E pertanto avevano poco e niente del tipo tedesco: la loro casa era il mondo, avevano legami d’amicizia tutt’altro che tedeschi e le loro ascendenze germaniche erano decisamente dubbie.
filo spinato del lager, i muri delle camere a gas, l’argilla dei fossati anticarro hanno riunito milioni di persone di età, professione e lingue diverse, dai molteplici interessi quotidiani e spirituali, persone fanaticamente religiose o fanaticamente atee, operai e scansafatiche, medici e commercianti, saggi e idioti, ladri, idealisti, contemplativi, uomini di buon cuore, santi e corrotti. Tutti in attesa dell’esecuzione.
Gli ingenui, che facevano capo alla prima categoria, possedevano una dote preziosa: venivano dal popolo. Citavano i classici del nazionalsocialismo e parlavano la lingua del popolo. I loro modi rozzi erano modi popolari, contadini. Le loro battute divertivano le platee operaie.
Ma Liss vedeva anche che a quelle altitudini tremende, sui vertici, sulla stratosfera, incombeva un mondo di nebbia incomprensibile, poco chiaro, dolorosamente illogico, e quel mondo era il mondo del Führer, di Adolf Hitler.
Gli ebrei sono una minoranza che non resta confinata alla periferia sociale e geografica, ma cerca di distinguersi lungo la strada maestra, là dove prosperano il pensiero e l’azione. Ed è il terzo tratto specifico della minoranza ebraica.
La minoranza ebraica in parte si assimila, si diluisce nella popolazione autoctona, ma la base – ampia, popolare – mantiene i propri tratti nazionali nella lingua, nella religione, nelle forme del quotidiano. L’antisemitismo si è dato come regola di imputare agli ebrei assimilati segrete mire nazionaliste e religiose, e ad artigiani e manovali – il corpo dell’ebraismo – la responsabilità per l’operato di rivoluzionari, capitani d’industria, inventori di reattori atomici, direttori di banche e società per azioni.
«Abbiamo molti uomini e poche armi. Qualunque scemo può mettere al mondo un altro uomo, ma pochi sanno costruire un carro armato o un aereo. E chi ha il cuore tenero faccia a meno di comandare!».
Quelli come lui avevano fatto carriera nel Trentasette: scrivendo delazioni, smascherando i nemici del popolo.
Ascoltando la voce tranquilla del primo segretario, Krymov capì che nella stridente incompatibilità fra i suoi pensieri e i suoi sentimenti e gli elogi tributati all’agricoltura e all’industria della regione – ligie al proprio dovere verso lo Stato – non si esprimeva l’assurdità, ma la logica della vita.
Gli uomini sanno vincerla, la paura: i bambini azzardano qualche passo nel buio, i soldati vanno in battaglia, qualcuno decide persino di saltare nel vuoto col paracadute. Quella, però, era una paura speciale, pesante, insormontabile per milioni di persone, una paura scritta a orride lettere rosso cangiante nel piombo del cielo di Mosca: Gosstrach...52
Žučenko non lo turbava perché era più colpevole di lui. Žučenko gli faceva orrore perché era nato mostro, e questo lo scagionava. Lui, invece, Chmel’kov, era nato uomo, non mostro. Capiva confusamente che con i nazisti per chi voleva restare uomo la scelta era semplice: non la vita, ma la morte.
Il destino prende per mano l’uomo e l’uomo diventa strumento di forze di sterminio: perché ci guadagna, non perché ci rimette.
Chi è in lager, chi è in prigione, chi dalle prigioni è uscito e chi va incontro alla morte conosce bene la forza della musica. Nessuno la sente come chi ha provato il lager e la prigione o sta andando a morire. Quando sfiora un morituro, la musica non risveglia in lui pensieri o speranze, ma il miracolo cieco e straziante della vita. Un singhiozzo scosse la colonna. Tutto era cambiato, e ciò che era disperso – la casa, il mondo, l’infanzia, il viaggio, il rumore delle ruote, la sete, la paura, quella città spuntata dalla nebbia, quel bagliore rosso, fosco – tornava a ricomporsi di colpo, e
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Come si può vivere vedendo che il bagliore si è acceso di nuovo, nel cielo, e sapendo che forse ad ardere sono le mani che avevi baciato, gli occhi che avevano gioito nel vederti, i capelli che sapevi riconoscere anche al buio, dall’odore, i tuoi figli, tua moglie, tua madre?
La morte faceva il suo lavoro, gli uomini il proprio. Certe volte ti lasciava finire la sigaretta o il boccone, altre si presentava come una vecchia amica, brusca, ridacchiando, dandoti una pacca sulla spalla. La gente aveva finalmente cominciato a capirla, la morte, e lei si mostrava in tutta la sua normalità, in tutta la sua puerile naturalezza. Perché era diventato facilissimo, quel passaggio, era come attraversare un ruscello d’acqua bassa su tavole gettate da una sponda popolata di izbe fumanti a un’altra deserta, a un prato vuoto: cinque, sei passi in tutto. Ed è fatta! Cosa c’è da avere
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Era il corpo nudo di un popolo giovane e vecchio insieme, vivo, florido, forte e avvizzito, con i capelli ricci o canuti, splendido e informe, forte e debolissimo.
Bisogna avere una bella faccia tosta per sostenere che il suo lavoro trasuda spirito ebraico e che Gurevič l’ha definita un classico e l’ha lodata solo perché lei è ebreo. E le ha dette, quelle porcherie, tra i sorrisetti muti dei capi. Ha capito, il “caro compatriota”?».
Era il talento l’essenziale, il sacro fuoco, la scintilla divina.
Perché nell’uomo che lo aveva colpito Krymov non vedeva un estraneo, ma se stesso, il ragazzo che aveva pianto di felicità per un passo del Manifesto comunista: «Proletari di tutto il mondo, unitevi!». Era una sensazione orribile...
L’aggettivo «geniale» dovrebbe essere utilizzato soltanto per coloro che partoriscono idee nuove, per quanti guardano al cuore e non alla superficie, all’asse e non a ciò che ci gira intorno. E dai tempi di Alessandro il Macedone tattiche e strategie militari non hanno più nulla di divino. Tuttavia, scossa da eventi bellici grandiosi, la mente umana tende a giudicare altrettanto grandiosi gli stratagemmi dei condottieri.
Ed è a quest’ultimo ambito che appartiene l’arte della guerra, un ambito in cui nuove condizioni tecniche si innestano su vecchi princìpi. È assurdo negare il ruolo di un generale che regge le sorti di una battaglia. Sarebbe tuttavia sbagliato ritenerlo un genio. Perché se è sciocco chiamare genio un ingegnere, nel caso di un generale è pericoloso e deleterio.
soldati e ufficiali assediati finiscono per riconsiderare non solo la forza degli eserciti in guerra e il futuro della guerra stessa, ma anche la politica patria, il carisma dei leader, le leggi, la Costituzione, il carattere nazionale, il passato e il futuro del proprio popolo.
dal dicembre del Quarantuno l’esercito nazista non faceva più paura. Stalingrado, l’attacco di Stalingrado, invece, aiutò i soldati e la popolazione civile a prendere coscienza di sé. I russi, i sovietici cominciarono a guardare a se stessi e alle altre nazioni con occhi diversi. Ormai la storia era la storia della gloria russa, non quella delle sofferenze e delle umiliazioni patite da contadini e operai patri. E l’identità nazionale si era trasformata da forma in contenuto, diventando il fondamento di una nuova concezione del mondo.
Ebbe la percezione concreta, fisica della differenza di peso tra un corpo umano fragilissimo e uno Stato possente, e gli parve di sentirseli addosso, gli occhi chiari, enormi dello Stato pronto a scagliarsi contro di lui. Uno scricchiolio, un gemito, un grido e addio per sempre, Štrum.
«Di cos’è che dovrei pentirmi? E con chi?». «Scriva alla direzione, scriva al Comitato centrale. Non è questo, che conta! Quel che conta è che lei si penta. Qualcosa del tipo “riconosco la mia colpa, ho sbagliato, prometto di rimediare...”. C’è già un cliché, lo sa anche lei. Serve, serve sempre, è questo che conta!».
A Stalin, per esempio, interessava solo rinforzare l’amicizia coi tedeschi, e ha continuato a mandare a Hitler carichi di caucciù e di altre materie prime strategiche fino a poco prima che scoppiasse la guerra. Mentre non è così grave che un grande politico prenda un abbaglio nel nostro ambito, in fisica.
nei prossimi millenni il progresso si orienterà verso l’acquisizione della forma suprema di energia: quella psichica».
noi siamo i saggi ed Ercole era un povero rachitico, come no... Intanto i tedeschi ammazzano vecchi e bambini ebrei come cani rabbiosi, e noi abbiamo alle spalle il Trentasette, la collettivizzazione forzata e la deportazione di milioni di poveri contadini, la fame, il cannibalismo... Prima mi sembrava tutto molto semplice e chiaro. Ma dopo tanti lutti tremendi e tante disgrazie le cose si sono complicate, confuse.
Tolstoj guardava al frutto del suo genio come a un semplice gioco. Mentre noi fisici, che geni non siamo, amiamo fare la ruota come i pavoni».
Noi non diciamo ciò che pensiamo. Sentiamo una cosa e ne facciamo un’altra. Ricorda cosa scrive Tolstoj sulla pena di morte? “Non posso tacere!”. Noi, invece, abbiamo taciuto, quando nel Trentasette hanno mandato a morte migliaia di innocenti. Hanno taciuto i migliori! Anzi, qualcuno ha persino applaudito vigorosamente. Abbiamo taciuto durante gli orrori della collettivizzazione forzata. E abbiamo parlato troppo presto di socialismo, che non è solo metallurgia. Il socialismo è innanzitutto il diritto ad avere una coscienza.
«Se si pensa che bastano due chiacchiere attorno a una tazza di tè per scatenare sospetti e convocazioni...».