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Il mondo danzava una ridda. Gli scheletri sotto terra davano il ritmo. Le rose sbocciavano nere. Le strade erano ponti sospesi, ondeggianti, pronti a precipitare da un momento all’altro. Persino la neve aveva assunto una sfumatura bluastra. Il cielo era bucato; si vedevano fori di proiettile anche all’orizzonte. E il sole illuminava ancora, stancamente, ma non riusciva più a riscaldare.
Anche chi aveva perso genitori e nonni per opera del conterraneo non sopportava la verità, eppure la conosceva da tempo. Tutti consideravano oltraggioso ciò che quel cafone ucraino si permetteva di dire e dimostravano per le strade, assediavano l’università, bloccavano gli incroci. Si ribellavano appunto alla verità. Perché ormai da tempo le vittime erano diventate colpevoli e i colpevoli erano diventati vittime.
Sulle sue gambe fragili e vacillanti, Stasia andò incontro all’amica eternamente giovane. «Non fingere che la mia visita sia una sorpresa» disse Sopio. «Ho mandato tutto all’aria. Da quando non ci sei più è andato tutto…» Le labbra di Stasia si muovevano ma le parole non uscivano. «Aveva solo ventun anni, mio Dio, solo ventun anni. Non sono riuscita a trattenere nulla, ho lasciato che tutto si disperdesse come attraverso un setaccio con i fori troppo grandi.» «Ah, Tasiko, inguaribile fatalista.» «Cos’avrei dovuto fare? Cosa?» «Danzare, Taso. Avresti dovuto danzare.»