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Quella miriade di sonagli con le loro minuscole lingue di rame gli sembravano altrettante fauci di aspidi aperte, pronte a mordere e a soffiare.
Il tempo è architetto, il popolo manovale.
Tuttavia il tetto singolarmente acuto ed elevato del palazzo moderno, irto di doccioni cesellati, coperto di lastre di piombo su cui si avvolgevano in mille arabeschi fantastici scintillanti intarsi di rame dorato, quel tetto così curiosamente damascato si slanciava con grazia dal centro delle brune rovine dell’antico edificio, i cui vecchi torrioni, gonfiati dal tempo come le botti che si afflosciano su se stesse per vetustà squarciandosi da cima a fondo, somigliavano a pancioni straripanti.
Infine, tra la Rue Saint-Denis e la Rue Montorgueil, le Filles-Dieu. Accanto, si distinguevano i tetti marci e lo spiazzo disselciato della Corte dei Miracoli. Era l’unico anello profano all’interno di quella devota collana di conventi.
Tuttavia, per quanto mirabile vi sembri la Parigi attuale, ripensate alla Parigi del quindicesimo secolo, ricostruitela con la mente, guardate la luce attraverso quella sorprendente selva di guglie, torri e campanili, riversate al centro dell’immensa città, aprite sulla punta delle isole, stringete sotto gli archi dei ponti la Senna con le sue larghe onde verdi e gialle, più cangiante della pelle di un serpente, fatte risaltare nettamente su un orizzonte azzurro il profilo gotico di quella vecchia Parigi, fatene fluttuare i contorni in una bruma invernale che si attorciglia ai suoi numerosi
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Prestate dunque orecchio a questo unisono dei campanili, unitevi il mormorio di mezzo milione di uomini, il lamento eterno del fiume, i soffi infiniti del vento, il quartetto grave e lontano delle quattro foreste disposte sulle colline all’orizzonte come immensi mantici d’organo, smorzate come in una mezzatinta tutto ciò che lo scampanio centrale potrebbe avere di troppo rauco o troppo acuto, e dite se conoscete al mondo qualcosa di più ricco, più gaio, più aureo, più abbagliante di questo tumulto di campane e suonerie; di questa fornace di musica; di queste diecimila voci di bronzo che
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La campana, sfrenata e furiosa, presentava alternativamente alle pareti della torre le sue fauci bronzee da cui si sprigionava quel vento di tempesta che si sente a quattro leghe di distanza.
Era, lo diciamo così di sfuggita, un singolare destino per la chiesa di Notre-Dame a quel tempo essere amata a tal punto, in modi tanto diversi ma con egual devozione, da due esseri tanto dissimili quanto Claude e Quasimodo; amata dall’uno, sorta di subumano istintivo e selvaggio, per la sua bellezza, la sua statura, le armonie che si sprigionano dal suo insieme magnifico; amata dall’altro, immaginazione sapiente e appassionata, per il suo significato, il suo mito, il senso in essa racchiuso, il simbolo celato sotto le sculture della sua facciata come il primo testo sotto il secondo in un
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“Uhm! eccone uno che ha l’anima come l’altro ha il corpo!”.
Eia! eia! Claudius cum claudo!
Per sentire tutte quelle amenità, Quasimodo era troppo sordo e Claude troppo assorto.
Questo ucciderà quello. Il libro ucciderà l’edificio.
Voleva dire: La stampa ucciderà la chiesa.
Voleva dire: La tipografia ucciderà l’architettura.
Il pensiero allora non era libero se non a quel modo, sicché non si scriveva per intero se non su quei libri chiamati edifici.
Senza la forma edificio, si sarebbe visto bruciare sulla pubblica piazza per mano del boia nella forma manoscritto, se fosse stato abbastanza imprudente da azzardarsi a esprimersi per iscritto. Il pensiero portale ecclesiastico avrebbe assistito al supplizio
del pensiero libro. Così, non avendo altra via se non l’arte muraria per farsi strada, vi si affollava da tutte le parti. Di qui l’immensa quantità di cattedrali che hanno coperto l’Europa, numero talmente prodigioso che ci si crede a malapena, anche dopo averlo verificato. Tutte le forze materiali, tutte le forze intellettuali della società convergevano in un medesimo punto: l’architettura. ...
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Allora, chiunque nascesse poeta diventava architetto. Il genio disseminato nelle masse, compresso da ogni lato sotto il regime feudale come sotto una testudo9 di scudi di bronzo, non trovando vie d’uscita se non dal lato dell’architettura, sfociava in quell’arte, e le sue Iliadi prendevano la forma di cattedrali. Tutte ...
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Così, fino a Gutenberg, l’architettura è la principale scrittura, la scrittura universale. Di quel libro di granito iniziato in Oriente, proseguito nell’antichità greca e romana, il medioevo ha scritto l’ultima pagina.
E sdoppiando queste tre serie, si ritroverà nelle tre sorelle maggiori, l’architettura indù, l’architettura egizia, l’architettura romanica, lo stesso simbolo: vale a dire la teocrazia, la casta, l’unità, il dogma, il mito, Dio; e nelle tre sorelle cadette, l’architettura fenicia, l’architettura greca, l’architettura gotica, quale che sia del resto la differenza di forma inerente alla loro natura, lo stesso significato: vale a dire la libertà, il popolo, l’uomo.
I caratteri generali di ogni architettura teocratica sono l’immutabilità, l’orrore del progresso, la conservazione delle linee tradizionali, la consacrazione dei tipi primitivi, il piegarsi costante di tutte le forme umane e naturali ai capricci incomprensibili del simbolo. Sono libri tenebrosi che solo gli iniziati sanno decifrare. Del resto, ogni forma, come anche ogni deformità, in esse ha un senso che le rende inviolabili.
In queste architetture, pare che la rigidezza del dogma si sia trasmessa alla pietra quasi come una seconda pietrificazione.
I caratteri generali delle costruzioni popolari al contrario sono la varietà, il progresso, l’originalità, l’opulenza, il movimento incessante. Sono già abbastanza distaccate dalla religione per pensare alla bellezza, per preoccuparsene, per rinnovare senza posa il loro paramento di statue e di arabeschi. Appartengono al secolo. Hanno qualcosa di umano e lo intrecciano senza posa al simbolo divino sotto l’egida del quale ancora si producono. Di qui, edifici trasparenti per ogni anima, per ogni intelligenza, per ogni immaginazione, simbolici ancora, ma facili da capire come la natura.
che l’architettura è stata fino al quindicesimo secolo il registro principale dell’umanità, che in questo lasso di tempo non è venuto al mondo un pensiero un po’ complicato che non si sia fatto edificio, che ogni idea popolare come pure ogni legge religiosa ha avuto i suoi monumenti; che il genere umano infine non ha pensato nulla d’importante senza scriverlo in pietra. E perché? Perché ogni pensiero, sia religioso, sia filosofico, è interessato a perpetuarsi, perché l’idea che ha mosso una generazione vuole muoverne altre, e lasciare traccia.
Ma che immortalità precaria è quella del manoscritto! Un edificio è un libro ben altrimenti solido, durevole, e resistente! Per distruggere la parola scritta bastano una torcia e un Turco. Per demolire la parola costruita, ci vuole una rivoluzione sociale, una rivoluzione terrestre. I barbari sono passati sul Colosseo, il diluvio forse sulle Piramidi.
Nel quindicesimo secolo tutto cambia. Il pensiero umano scopre un mezzo per perpetuarsi non solo più durevole e più resistente dell’architettura, ma anche più semplice e più facile. L’architettura viene detronizzata. Alle lettere in pietra di Orfeo succed...
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L’invenzione della stampa è il più grande evento della storia. È la rivoluzione madre. È la modalità d’espressione dell’umanità che si rinnova totalmente, è il pensiero umano che si spoglia di una forma per rivestirsi di un’altra, è la totale e definitiva muta di quel ...
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Sotto forma di stampa, il pensiero è più imperituro che mai; è volatile, inafferrabile, indistruttibile. Si confonde con l’aria. Al tempo dell’architettura, esso si faceva montagna e si impossessava potentemente di un secolo e di un luogo. Ora si fa stormo d’uccelli, si disperde a...
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Così si vede come, a partire dalla scoperta della tipografia, l’architettura si inaridisca a poco a poco, si atrofizzi e si spogli. Si sente che l’acqua scema, che la linfa se ne va, che il pensiero dei tempi e dei popoli si ritira!
Ma, a partire dal sedicesimo secolo, la malattia dell’architettura è visibile; essa non esprime già più l’essenza della società; si fa miseramente arte classica; da gallica, europea, indigena, diventa greca e romana, da vera e moderna, pseudoantica. È questa decadenza ciò che chiamano rinascimento.
Tuttavia, nel momento in cui l’architettura non è più che un’arte come un’altra, quando non è più l’arte totale, l’arte suprema, l’arte tiranna, non ha più la forza di trattenere presso di sé le altre arti. Esse dunque si emancipano, spezzano il giogo dell’architetto, e se ne vanno ciascuna per la sua strada. E ciascuna guadagna da questo divorzio. L’isolamento rende ogni cosa più grande. La scultura diventa statuaria, la figurazione diventa pittura, il canone diventa musica. Si direbbe un impero sfaldatosi alla morte del proprio Alessandro e le cui province diventino regni.
Come le arti, anche il pensiero si emancipa da ogni parte. Gli eresiarchi del medioevo avevano già intaccato ampiamente il cattolicesimo. Il sedicesimo secolo spezza l’unità religiosa. Prima della stampa, la riforma sarebbe stata semplicemente uno scisma, la stampa la rende una rivoluzione. Eliminate la tipografia, l’eresia ne risulterà indebolita.
Tuttavia, quando il sole del medioevo è tramontato del tutto, quando il genio gotico si è spento per sempre sull’orizzonte dell’arte, l’architettura si appanna, scolara, si cancella sempre più. Il libro stampato, questo tarlo dell’edificio, la prosciuga e la divora. Essa si spoglia, si sfoglia, dimagrisce a vista d’occhio. È meschina, è povera, è nulla. Non esprime più niente, neppure il ricordo dell’arte di un tempo. Ridotta a se stessa, abbandonata dalle altre arti perché il pensiero umano la diserta, fa appello a manovali in mancanza di artisti. I vetri sostituiscono le vetrate. I
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Il capitale di forze che il pensiero umano spendeva in edifici ormai viene speso in libri. Sicché a partire dal sedicesimo secolo la stampa, cresciuta in concomitanza al decrescere dell’architettura, lotta con lei e la uccide.
Ma l’architettura non sarà più arte sociale, arte collettiva, arte dominante. Il grande poema, il grande edificio, la grande opera dell’umanità non verrà più costruita, verrà stampata.
il genere umano ha due libri, due registri, due testamenti, l’arte muraria e la stampa, la bibbia di pietra e la bibbia di carta. Senza dubbio, quando si contemplano queste due bibbie così spalancate nei secoli, ci è concesso di rimpiangere la maestà visibile della scrittura di granito, quei giganteschi alfabeti formulati in colonne, pilastri, obelischi, quelle specie di montagne umane che ricoprono il mondo e il passato, dalla piramide alla torre campanaria, da Cheope a Strasburgo. Bisogna rileggere il passato su quelle pagine di marmo. Bisogna ammirare e risfogliare senza posa il libro
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Ogni spirito è muratore. Il più umile tappa una falla o posa una pietra.
E la seconda torre di Babele del genere umano.
Tuttavia, con tanti buoni motivi per prendere la vita con pazienza e con gioia, messer Robert d’Estouteville si era svegliato la mattina del 7 gennaio 1482 assai scontroso e di pessimo umore. Da dove gli veniva quell’umore? non avrebbe saputo dirlo neppure lui. Era perché il cielo era grigio? perché la fibbia del suo vecchio cinturone di Montlhéry era mal agganciata, e stringeva troppo militarmente la sua pinguedine di prevosto? perché aveva visto passare per strada sotto la sua finestra un gruppo di ribaldi che si facevano beffe di lui, camminando a quattro a quattro, in farsetto senza
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Il popolo, nel medioevo soprattutto, è nella società ciò che il bambino è nella famiglia. Fintanto che resta in questo stato di ignoranza primaria, di minorità morale e intellettuale, si può dire di lui come del bambino: Quell’età è senza pietà.19
Del resto, tutto ciò si univa in lui a grandi pretese di eleganza, moda e bella presenza. Si combinino tutte queste cose come si riesce. Io sono solo uno storico.
Lo studente guardava sorpreso il fratello. Non sapeva, lui che lasciava scorrazzare all’aria aperta il suo cuore, lui che non osservava al mondo altra legge se non l’ottima legge della natura, lui che lasciava scorrere le passioni per la loro china, e in cui il lago delle grandi emozioni era sempre in secca, tanto ampiamente vi apriva ogni mattina nuovi canali di sfogo, non sapeva con quale furia il mare delle passioni umane fermenta e ribolle quando gli si nega ogni via d’uscita, come si accumula, come si gonfia, come trabocca, come scava il cuore, come scoppia in singhiozzi interiori e in
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Sub conservatione formæ specificæ salva anima.24
Così dicendo con la voce più dolce del mondo, si faceva estremamente vicino alla gitana, le sue mani carezzevoli avevano ripreso posto attorno a quella vita tanto sottile e flessuosa, il suo occhio si accendeva sempre più, e tutto annunziava che messer Phœbus stava per raggiungere con ogni evidenza uno di quei momenti in cui Giove in persona fa tante sciocchezze che il buon Omero è costretto a chiamare una nube in suo soccorso.
Povero grano di miglio che la giustizia umana dava da macinare alle spaventose mole della tortura!
La giustizia umana lo chiamava dimenticare.
Era in una fossa del genere, nelle segrete scavate da San Luigi nei sotterranei della Tournelle, che avevano, certo per paura di evasione, messo la Esmeralda condannata alla forca, con il colossale Palazzo di Giustizia sopra la testa. Povera mosca che non avrebbe potuto spostare il più minuscolo di quei blocchi di pietra!
Mai creatura vivente era stata spinta così in là dentro il niente.
Due cose soltanto parevano vivere in quel sotterraneo; lo stoppino della lanterna che sfrigolava per via dell’umidità circostante, e la goccia d’acqua della volta che interrompeva quel crepitio irregolare col suo sciabordio monotono e faceva tremolare la luce della lanterna in marezzature concentriche sull’acqua oleosa della pozza.