Sul nostro stramaledettissimo ombelico – j’accuse n.2
Non c’è niente da fare. Non ce la facciamo a non essere così autoreferenziali, così egocentrici, così concentrati sul nostro meraviglioso e perfetto ombelico… Neanche di fronte all’immagine iconica di questo nostro tempo ce la facciamo.
Foto sì o foto no? Dovere di cronaca o rispetto per i morti e i minori? Dobbiamo sferrare un pugno nello stomaco allo spettatore, oppure astenerci dal fare la tv o la stampa del dolore? Ore di riflessione, di fatica intellettuale, di citazioni ultracolte tra semiotica e massmediologi interrogati all’ultimo minuto, per l’ultimo giornale radio. Foto sì o foto no? Bimbi sì o bimbi no? Che mal di testa, signora mia! Non era ancora finita la telenovela sui reportage di finte turiste che non fanno neanche la richiesta per entrare da giornaliste in Iran, che occorre di nuovo spremere le meningi per occuparsi del valore dell’immagine nella società postmoderna e liquida.
Nel frattempo, signore e signori, nel “mentre” delle ennesime seghe mentali europee, sulle altre sponde del Mediterraneo è successo quanto segue (e la lista non è esaustiva e riguarda solo le ultime 24 ore): a Baghdad sono stati rapiti 18 lavoratori turchi; in Yemen sono almeno 32 i morti ammazzati in un attentato suicida in una mosche di Sana’a rivendicato da ISIS; la coalizione formatasi contro ISIS ha continuato a bombardare nelle ultime ore obiettivi tra Siria e Iraq, indicati nel dettaglio dal dipartimento della difesa statunitense (vedi sito); Israele ha bombardato il nord della Striscia di Gaza, dove non è stata ricostruita nessuna delle oltre ventimila case distrutte durante la guerra di un anno fa e dove (sopra)vivere sarà impossibile entro cinque anni, ammesso che ora si riesca a vivere con il 44% di disoccupazione ; l’esercito israeliano ha ferito un ragazzino di 15 anni a Betlemme; a Beirut le dimostrazioni di massa della crisi della spazzatura nascondono l’incapacità dei politici e la discesa del Libano verso una crisi pericolosissima; nelle galere dell’Egitto, sotto il regime di AbdelFattah el Sisi, languono decine di migliaia di oppositori, compresi i ragazzi di Tahrir, ma a noi ci fa un baffo perché l’Eni ha scoperto la pepita d’oro del giacimento di gas naturale. Poi, la Croce Rossa dice che ad Aleppo l’acqua potabile è divenuta un’arma di guerra contro la popolazione: ah, a proposito, Aleppo dal punto di vista culturale e artistico è tanto importante quanto Palmira, così per dovere di cronaca. E le Nazioni Unite ci dicono che le guerre in Medio Oriente hanno colpito il diritto all’educazione di 13 milioni di bambini e ragazzi studenti.
Nel frattempo, nel “mentre” che ci avviluppiamo sull’ennesima polemica evanescente, fatta di fumo, di spessore estetico, di cultura plurisecolare della quale ci beiamo. Povero Aylan Kurdi, di cui non sapevamo prima e ora, che è morto, sappiamo tutto. Tutto sappiamo, dei dettagli, di dove voleva portarlo suo padre assieme alla famiglia in fuga dalla guerra. Nulla sappiamo di dov’è Kobane, chi sono i curdi che non sono arabi ma alla storia araba hanno dato il Saladino, il più grande eroe. Nulla sappiamo di ciò che accade di là, tra Aleppo, Kobane, Baghdad, Beirut, Gaza, Cairo, perché se lo sapessimo (e se lo sapessero molti dei miei colleghi giornalisti), allora dovremmo agire. Dovremmo fare.
Fare è peccato, si dice qui in Sicilia. Certo, un peccato, un vero peccato. Un peccato serio, da mettere assieme al peccato di conoscere. Meglio non conoscere, così non si deve fare.
Ps: il j’accuse, in primis, riguarda i molti giornalisti (fatti salvi i pochi bravi) che in questi anni hanno disinformato perché non sanno neanche la differenza tra un iraniano e un arabo. Questa pagina nera ha sostenuto le paure, la disinformazione, la propaganda e – ora – la paralisi.


