In Messico si continua a morire per un articolo

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Nei giorni scorsi altri due giornalisti sono stati uccisi in Messico per colpa del loro mestiere. Filadelfo Sanchez Sarmiento, 45 anni, direttore ed una delle voci più autorevoli di radio ‘La Favorita 103.3’ di Miahuatlán, nello stato meridionale di Oaxaca, è stato ucciso da due killer mentre lasciava la redazione giovedì mattina. Contro di lui sono stati sparati più di cinque colpi di arma da fuoco, che hanno ferito anche due persone che erano accanto a lui in quel momento.


Come per la maggior parte dei casi di omicidio di giornalisti, anche quella di Sarmiento sembra essere una morte annunciata, dal momento che il giornalista aveva ricevuto minacce di morte telefoniche in diverse occasioni.


Nelle stesse ore, nello stato orientale di Veracruz, veniva ucciso il blogger Juan Mendoza Delgado e prima di lui, a maggio, era stato trovato morto assassinato nello stato di Oaxaca anche Armando Saldaña Morales, 46 anni, giornalista radiofonico di Veracruz, sparito di casa qualche giorno prima del ritrovamento del suo corpo con ferite d’arma da fuoco.


Secondo CPJ, l’organismo internazionale per la protezione dei giornalisti, il Messico è uno degli stati più pericolosi al mondo per esercitare la professione di giornalista. Dal 2007 sarebbero più di 50 i giornalisti od opinionisti uccisi per aver svolto liberamente il proprio mestiere. Nell’80 per cento dei casi, sempre secondo le ricerche di CPJ, i giornalisti uccisi si occupavano di criminalità organizzata. Ma ciò che aggrava il fenomeno è l’impunità che segue a questi delitti, la maggior parte dei casi resta senza colpevoli.


Il Messico è al settimo posto nella graduatoria degli stati che non rendono giustizia agli attacchi alla libertà di stampa. I primi tre posti sono occupati dall’Iraq, dalla Somalia e dalle Filippine. Dal 2014 in questo triste elenco si è inserita anche la Siria.


Chi non viene assassinato viene messo a tacere per sempre dietro alle sbarre. È così che l’Egitto, ad esempio, impedisce ai giornalisti di esercitare la libertà di espressione.  A un anno dall’elezione del presidente Abdelfattah el-Sisi sono diciotto i giornalisti rinchiusi nelle prigioni egiziane vittime di un sistema che sta stringendo sempre più la morsa contro i diritti umani.


Anche in Turchia l’uso della giustizia per reprimere la libertà di stampa sta diventando un fenomeno sempre più frequente. Dopo il caso della giornalista televisiva Sedef Kabaş, l’ultimo a farne le spese è stato Mehmet Baransu, corrispondente del quotidiano Taraf, già indagato per l’acquisizione di documenti segreti correlati all’inchiesta sulla corruzione di alti funzionari di governo, che ha scoperchiato uno scandalo alla fine del 2013.  Taraf è stato condannato a  fine giugno a 10 mesi di prigionia per aver offeso via Twitter il presidente Erdogan. I tweet e retweet incriminati sarebbero partiti da profili contraffatti del giornalista arrestato.




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Published on July 06, 2015 08:13
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