E io, invece, ho trovato i (miei) lettori in un blog



È coraggiosa, Claudia Durastanti. Non la conosco, ma è coraggiosa, perché carta canta. In pochi, pochissimi, avrebbero scritto quello che lei ha avuto il coraggio di scrivere, su minima&moralia, raccontando la sua esclusione da una rivista. Rivista, o forse rivista settimanale di un quotidiano, o forse settimanale e basta. Non sappiamo, perché lei non l’ha voluto dire, chi l’ha estromessa da una collaborazione. Ho fatto un rapido giro su google, e ho visto che scrive su mucchio selvaggio e sul Sole24Ore. Spero che l’estromissione non venga dal Sole, ma di questo parlerò dopo.


Claudia Durastanti è giovane. Molto. Quando lei è nata io stavo finendo l’università. Lettere alla Sapienza. Sani studi con Asor Rosa, Serianni, la Franca Angelini, incursioni da Giorgio Raimondo Cardona e Armando Petrucci. Laurea con Paolo Spriano. Non è un dettaglio. Paolo Spriano era giornalista tanto quanto storico. Aveva fatto il partigiano e frequentato casa Gobetti. Non ne poteva più, lui del comitato centrale del Pci, di tesi sul Partito Comunista. Era uomo libero, ed è per questo che è stato un maestro. Claudia Durastanti, che è giovane, forse non sa chi era Spriano, ma qualcuno o qualcosa il coraggio glielo deve aver insegnato. Forse il fatto di aver vissuto all’estero? Mi piacerebbe saperlo, e non solo per una comprensibile curiosità.


È che vorrei capire come mai lei ce l’ha, il coraggio di dire come stanno le cose. E gli altri, me compresa, no. Dire che non è vero che ci sono dibattiti sulla stampa scritta. Che molto è stantio, o a senso unico, nelle pagine culturali italiane. Compresa la discussione sul Pen International e il premio a Charlie Hebdo negli Stati Uniti, le polemiche e gli scrittori che si sono dichiarati contrari al premio.


Da giorni, ascolto le rassegne culturali sul premio del PEN, e la linea – l’unica linea che passa –  è che i sei scrittori dissenzienti (segnatevi questa parola: “dissenzienti”) fanno la figura della Banda dei Quattro della rivoluzione culturale cinese. Colpevoli, insensibili, controcorrente: bersagli perfetti. Poco importa che i sei scrittori non siano 6 bensì, ad ora, 204https://firstlook.org/theintercept/2015/04/30/145-pen-writers-thus-far-objected-charlie-hedbo-award-6/. Poco importa se tra loro ci sono Michael Ondatjie, Terju Cole e David Leavitt, Joyce Carol Oates e Michael  Cunningham, assieme a Sinan Antoon. Importa che si siano schierati contro la linea vincente: il massacro di Parigi, la strage di Charlie Hebdo bisogna cavalcarla il più possibile. Per far passare – con un orientalismo francamente becero – la vulgata che siamo Noi contro Loro, noi Liberi contro loro Retrogradi, noi Buoni contro Loro cattivi, noi Laici contro loro Baciapile, noi Occidente assediato e loro l’Oriente del Feroce Saladino (che poi, però, era curdo). Non ci era riuscito Bush jr, ora abbiamo tutto su un piatto d’argento: ISIS è il nemico perfetto, e si nasconde anche tra i migranti; l’Islam politico ha fallito, e quindi possiamo mettere assieme Fratelli Musulmani con Al Qaeda, musulmani con terroristi, le masse arabe con le antiche  flotte saracene.


Non volevo parlare della Banda dei 6, anzi, 204 dissenzienti del PEN, ma c’entrano anche loro, nel caso di Claudia Durastanti che perde il lavoro per un tweet. Non solo perché il tweet parlava del PEN. Ma perché lei voleva mettere un po’ di complessità, nella discussione. Voleva mostrare una realtà molto più articolata, proprio quella che nei cerchi magici alla guida dei giornali non bisogna mettere.


Shhh, silenzio….. parla l’egemonia culturale dei cerchi magici. Parlano, e soprattutto scrivono in pochi, quelli giusti. Se poi ti occupi (in un certo modo, magari complesso) di quelli che stanno dall’altra parte del Mediterraneo, a oriente, è difficile che tu riesca a sfondare il velo.


A sostegno della giovane Claudia, che non conosco, devo fare outing. E per questo la ringrazio. Ho scritto per molti giornali, per grandi testate. Ho scritto per tanti anni per l’Espresso. Per anni, dal Cairo, ho tentato di far capire che l’Egitto era in ebollizione, sotto la cenere. Almeno dal 2003, rompevo le scatole: da quando in piazza, vicino al Museo Egizio, i dimostranti trovarono il coraggio di strappare un poster di Hosni Mubarak. Ogni tanto trovavano, in redazione, il modo per pubblicare un pezzo. Spesso un pezzetto. Quando nel 2011 scoppiò la rivoluzione di Tahrir, però, scrissero altri: anche da Roma, non solo dal Cairo. Se il tuo argomento diventa la notizia del giorno, ne sei fuori, se sei un collaboratore. Anche se ti hanno messo nel tamburino, dove sono rimasta per tanti mesi, senza voler scrivere.


Ho scritto per il Sole 24 Ore. E non perché avevo bussato alla porta. Mi chiamò Riccardo Chiaberge, che pur non l’ha mai pensata come me. Anzi, ci siamo fatti fior di discussioni. Ma sapevo del Cairo, e lui mi chiese cosa avevo da proporre. Un’intervista con Ala al Aswani, gli risposi. Era il 2005. Palazzo Yacoubian era appena stato pubblicato in una splendida traduzione inglese. Feltrinelli lo avrebbe pubblicato l’anno seguente, e quello dopo ancora sarebbe uscito, per Feltrinelli, il mio Arabi Invisibili, proprio con la prefazione di Aswani. Poi, pian pianino, per il Sole24ore non ho scritto più. Non chiedetemi perché. Io non me lo sono neanche chiesta. Mi ricordo però che alcuni anni fa protestai per un titolo ad effetto che faceva da amplificatore agli stereotipi ancora vigenti sugli arabi. Sono sempre stata un po’ fumina, e puntualizzo un po’ troppo…

Non ho mai fatto parte dei chierici, e forse proprio per questo mi sono accorta del disagio egiziano e di Aswani. Non sono allineata, e forse proprio per questo mi sta stretta l’ignoranza che vige in molte redazioni, sui temi di cui mi occupo. Come faccio a proporre un articolo, se prima devo riuscire a spiegare i fondamentali all’interlocutore, che però è anche presuntuoso? Così, con l’andare degli anni, ho sempre proposto meno alle redazioni. Ho scritto libri, ho scritto – ora – anche un testo teatrale, mi occupo di organizzazione culturale, mi commuovo quando i bambini vengono nel teatro che dirigo e sono incantati a guardare il palcoscenico.


Sono appagata? Sì. Sono soddisfatta? In parte. Alla mia età, e con il mio curriculum, sento e ho il dovere di incidere sulla realtà del mio paese. Lo faccio, con grande trasporto. Ma non più sui giornali. Dal 2008 ho aperto questo blog, perché i giornali mi stavano stretti già allora. Fu quando mi chiamarono dal Riformista e mi chiesero di scrivere un pezzo tratto da un lancio di un’agenzia di stampa. Una delle tante stronzate che trovano albergo sui giornali: c’era la minaccia che i terroristi palestinesi che si facevano saltare per aria si legassero nella cintura una sacca di sangue infetto da HIV. Risposi: “te lo scrivi tu, ‘sto pezzo. Io ho una dignità, e non scrivo sulle veline passate da qualche servizio propaganda”. Vivevo a Gerusalemme, mia casa per dieci lunghi anni: avrei potuto scrivere altro, di una realtà nascosta ai più. Ma non ero in linea, non lo sono mai stata.


E allora ho aperto il blog, come facevano i ragazzi arabi di cui allora nessuno sapeva l’esistenza. Gli stessi che hanno fatto la rivoluzione e che ora, in molti, sono in galera. Facebook e Twitter me l’hanno fatti conoscere loro, e quando penso al coraggio penso a quello che loro rischiano. Carcere, tortura, morte. Ho imparato, da loro, che possiamo avere almeno il coraggio di parlare, di scrivere come stanno le cose, e anche di cominciare – finalmente – a lavare i tanti panni sporchi del giornalismo italiano in pubblico.


I miei (tanti) lettori lo sanno. Io scrivo ciò che mi piace, ciò che vedo, ciò che analizzo. Sono anche io un’artigiana, come mio padre che faceva il sarto. Non scrivo più sui giornali, perché li trovo vecchi, lontani dalle realtà,  autoreferenziali, spesso inesatti. Sono vicina ai miei colleghi di vaglia, inviati, corrispondenti, giovani freelance che continuano a vivere all’estero e a rischiare spesso la vita. Quasi tutti loro, dei cerchi magici, non fanno parte: faticano e scrivono, scrivono e faticano. E penso alle parole di Giuseppe Prezzolini sulla società degli apoti, di quelli che non la bevono. Allora, nella polemica con Piero Gobetti, Prezzolini spingeva al disimpegno politico. Non è il mio caso, ma penso alle sue parole e ci ritrovo tanto della propaganda che leggo e vedo spesso, travestita da informazione. Allora, a scontrarsi erano Gobetti e Prezzolini. Oggi i protagonisti sono ahimè altri. Di frequente sono di bassissima lega.


E quindi, cara Claudia, non sei la sola. Continua a scrivere tweet, perché il mondo per fortuna è vario, e i cerchi magici poi si sciolgono da soli. Per mancanza di coraggio.

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Published on May 11, 2015 08:03
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