Hierusalem, a Trastevere
Ho passato un bellissimo giorno di Natale a Trastevere, nella basilica di Santa Maria sgombra delle sue pesanti panche, al pranzo che la comunità di Sant’Egidio organizza da 33 anni per gli amici più bisognosi. Potrebbe apparire una carezza sulla propria coscienza: un giorno all’anno a servire il prossimo nostro. Lasagne, polpettone e lenticchie servite sul piatto di donne e uomini senza casa, (quasi) senza speranza, legati da un esile filo all’idea di una vita che possa conservare dignità. Può bastare, alla nostra coscienza? Certo che no. Appagante, per poche ore, è il fare, attorno a quei tavoli, al cibo, con una gentilezza che esce spontanea. E poi? E il dopo?
Ho scoperto che “il” giorno, “quel” giorno può essere “epifania”, se bene lo si concepisce. Scoperta obbligata, e banale. Per nulla scontata, però.
A Santa Maria in Trastevere, basilica cui mi legano i ricordi (tanti, sempre di più) di Gerusalemme, c’è un mosaico di cui parlo nel mio libro. Eccolo.
Il posto da cui si osserva meglio è su, in cima alla navata di destra, vicino al coro. È lì che quel brano del meraviglioso mosaico dell’abside di Santa Maria in Trastevere a Roma si vede in maniera perfetta. Hierusalem, è scritto sulla città turrita e cinta da mura. E’ dalla Gerusalemme turrita che escono sei dei dodici agnelli apostolici. E’ dall’altra estremità del fascione del mosaico del 1140 circa, dove è invece ritratta Betlemme, che escono invece gli altri sei agnelli, tutti attratti al centro, come una calamita, dall’agnus dei. Gerusalemme e Betlemme, dunque, sono considerate parte della stessa storia, spirituale e – certo – geografica, come spiegava padre Michele Piccirillo in un articolo del 2005, fustigando l’idea di una separazione – attraverso un Muro di cemento – delle due città. “Nei mosaici che decorano gli archi trionfali delle chiese di Roma, – scriveva Piccirillo – gli artisti dell’antichità cristiana per indicare la Ecclesia sparsa per il mondo composta dai Gentili pagani e dagli Ebrei, rappresentarono insieme le due vignette di Betlemme e di Gerusalemme come simbolo della Chiesa dei pagani e della chiesa della Circoncisione. Una unità che la politica è intenzionata a scindere, separando famiglie e una storia secolare che non si cancella troppo facilmente”.
Città turrita e cinta di mura, città arroccata. In una delle più belle basiliche di Roma, nella nebbiolina dell’incenso di una messa in cui la solennità si mescola al pane e al vino di un quartiere ancora popolare, Gerusalemme appare così come è ancora oggi, con mura e torri. D’altro tipo, certo, rispetto a quelle di epoca bizantina ritratte a Santa Maria in Trastevere così come nel mosaico più esaustivo e importante di quei tempi, la Mappa di Madaba. Pur sempre, però, una città arroccata, sulla difensiva.
La città santa era, dunque, rappresentata come un gioiello architettonico e religioso racchiuso in un guscio di mura. Città fortificata e cinta, così doveva essere preservata, nonostante le vicissitudini che Gerusalemme ha provato nei secoli, tra invasioni, crociate, distruzioni. Lo sapeva bene in epoca contemporanea anche Ronald Storrs, il primo governatore militare britannico di Gerusalemme dopo la sconfitta dell’esercito ottomano del 1917, che giunse addirittura a proibire con una vera e propria ordinanza, “la demolizione, costruzione, alterazione o riparazione di qualsiasi edificio a Gerusalemme”, per “proteggere” la città “preservandone sia lo status quo estetico sia lo status quo che concerne il culto religioso e la situazione politica”. Non erano manie filologiche, quelle di Sir Ronald Storrs. Semmai il tentativo di rendere reale quello che lui – il figlio di un parroco anglicano – aveva assimilato nel suo immaginario religioso, non importa se fedele alla realtà urbana del Levante oppure se inserito in una mitizzazione orientalista e biblica a un tempo. Bisognava conservare come in un museo a cielo aperto la Terra Santa, i luoghi della Bibbia ritrovati dalle piccole truppe di viaggiatori dell’Ottocento. Conservare la Terra Santa, e infine Gerusalemme. Turrita. Storrs “cercava di preservare la silhouette di una città cinta da un muro e dalle torri, con cupole e altane che si ergevano verso il cielo, circondata da oliveti”, commenta Meron Benvenisti, israeliano, vicesindaco di Gerusalemme ai tempi in cui la città era guidata dal suo primo cittadino più noto del periodo dopo il 1967, Teddy Kollek.
La visione di Storrs, in sostanza, era mitica quanto quella della Hierusalem incisa nello splendido mosaico trasteverino. Eppure in quella concezione estetica della santità di Gerusalemme, Storrs coglieva anche il fatto che la città dovesse essere trattata come si tratta un oggetto delicato, fragile. Un bicchiere di cristallo. È a questa concezione che si deve anche quel regolamento così artificiale per il quale i britannici continueranno a essere ricordati, tra i dominatori della città. Gerusalemme deve continuare a essere costruita in pietra. A Gerusalemme si può fare di tutto, dal punto di vista architettonico. But, please, quel ‘tutto è possibile’ bisogna coprirlo con la bianca pietra di Gerusalemme. Artificiale, slegato dai cambiamenti della storia, dell’estetica e dell’urbanistica, il regolamento del Mandato britannico è come un salvacondotto, un cerotto appiccicato sulla ferita, tanto per nasconderla agli occhi degli altri. Palazzi dal gusto improbabile si ergono ormai nella Gerusalemme ovest, e il cemento usato in gran quantità dà ulteriore rigidità a un’architettura residenziale spartana che quasi sempre non conserva nulla di orientale, fitto di finestre squadrate, balconcini, metallo grigio spento. La facciata, però, è salva: coperta di pietra. Si costruisce alla bell’e meglio dall’altra parte, a oriente della Linea Verde, dalla parte palestinese, senza una licenza peraltro quasi impossibile da ottenere dalle autorità israeliane? Ma almeno la pietra di Gerusalemme è lì a coprire tutto. A rendere Gerusalemme una città fintamente omogenea. Per meglio dire, pallida. Di quel pallore che indica malattia. Senza verve, senza uno scatto di reni. Non più antica, ma vecchia.


