Django mi ricorda gli schiavi di Lecce
La condizione degli extracomunitari che lavorano nei campi di pomodori in Puglia non è poi così lontana da quella dei neri al tempo dello schiavismo. Di Roberto Saviano.

Django Unchained
E se le cose fossero andate diversamente? Se qualcuno avesse fatto la cosa giusta al momento giusto? O la cosa più folle all’improvviso? Quentin Tarantino aveva già appagato il nostro senso di giustizia con “Inglorious bastards”. Una frase riscritta, una sola frase per cambiare la storia del mondo. Un epilogo tanto assurdo quanto mille volte rimpianto. Rincorso nei sogni. Da bambino, il mio primo pensiero quando alle scuole elementari studiai la Seconda guerra mondiale fu chiedermi come mai nessuno avesse capito che quelli erano proprio i peggiori e che andavano fermati subito. Non dopo aver invaso mezza Europa. Ora, questo sogno bambino di correggere la storia con “Django unchained” ritorna. La sete di riscatto viene appagata di nuovo. Di riscatto e di vendetta. E l’eroe è un uomo di colore, mortificato nella carne e nello spirito in un’America lontana nel tempo, ma ancora troppo vicina a noi che diamo continua dimostrazione di non aver imparato la lezione.
IL 31 GENNAIO , davanti alla Corte d’assise di Lecce è iniziato il processo a sette imprenditori salentini e nove complici africani, accusati di avere sfruttato decine di braccianti extracomunitari e di aver organizzato il loro arrivo illegale dall’Africa. Tratta di esseri umani in piena regola, procacciamento di mano d’opera, come è avvenuto per secoli: pratica che abbiamo imparato a stigmatizzare pubblicamente, ma a sfruttare nel silenzio dell’opinione pubblica. A un anno e mezzo dall’introduzione della legge contro il caporalato, è questa la prima volta che verrà applicata durante un processo. Dall’estate del 2011 – l’estate dello sciopero dei lavoratori immigrati capeggiato dallo studente camerunense Yvan Sagnet – è la prima volta che i caporali finiscono alla sbarra con imputazioni gravissime. Secondo la Procura Antimafia, le campagne di Nardò per anni sono state teatro di sfruttamento organizzato e sistematico di extracomunitari giunti dall’Africa per lavorare nei campi nella raccolta di pomodori e angurie. Grazie ai Ros e alle denunce delle vittime è emerso uno scenario infernale. Decine di uomini costretti nei campi per più di dodici ore al giorno, in cambio paghe misere, taglieggiati per un giaciglio in casolari fatiscenti o nei campi di ulivi. Costretti a pagarsi acqua, cibo e cure in caso di malori, dopo essersi già indebitati fino al collo con i caporali per il viaggio dalle loro terre d’origine all’Italia. Di tutti i lavoratori vessati solo quattro hanno avuto il coraggio di costituirsi in giudizio. Ma la notizia che più lascia interdetti è che il Comune di Nardò ha deciso di non costituirsi parte civile con questa motivazione: «Nel processo si rilevano reati che astrattamente coinvolgono interessi della comunità di Nardò». E poi c’è l’imputazione fondamentale, la riduzione in schiavitù, sulla quale Procura e Tribunale del Riesame sono in disaccordo. Ma all’esito delle indagini preliminari, il Pubblico ministero ha ribadito le ragioni che portano a ritenere che si tratta proprio di riduzione in schiavitù, desunto dallo «stato di necessità e di inferiorità fisica e psicologica degli extracomunitari, vulnerabili perché immigrati clandestinamente, spinti dall’indigenza, ingannati dalla promessa di lavoro sicuro e regolare, oberati dai debiti contratti con l’organizzazione che ne avrebbe favorito l’ingresso, impossibilitati una volta preso coscienza del loro stato a fare rientro in patria per mancanza di mezzi finanziari, ancora più soggiogabili per la mancata conoscenza della lingua italiana e dei luoghi in cui si trovavano». Il Gup gli ha dato ragione e ha disposto il rinvio a giudizio di tutti gli imputati. La prossima udienza è prevista per il 7 marzo.
PER UNA VOLTA , forse, potremmo dire: e se le cose andassero diversamente? Ci sarà un processo e dobbiamo aspettarne gli esiti per poter valutare torti e ragioni, ma un invito voglio farlo, e non solo ai soggetti coinvolti in questa ennesima raccapricciante vicenda: dobbiamo essere tutti dalla stessa parte che è una. Quella di chi è stato prelevato dalla sua terra con la promessa di una vita migliore, di chi è stato ingannato, derubato, sfruttato, umiliato. Così facendo non denigreremo la nostra terra, non la umilieremo. Non la mortificheremo come vuole farci credere chi preferisce il silenzio alla denuncia. Ma contribuiremo a costruire un’Italia per la prima volta davvero multietnica perché multietnico è stato il contributo di riscatto e di diritto. E magari, quel senso di liberazione che ora solo al cinema riusciamo a provare, per una volta potrà darcelo anche la realtà.
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