In esilio ci sta bene un coniglio
Anziché nell’apolidia, il trucco consiste nell’avere molte case, ma nel trovarsi, per ciascuna di esse, contemporaneamente dentro e fuori, coniugare intimità e occhio esterno, coinvolgimento e distacco: un trucco che le persone sedentarie difficilmente possono imparare. L’esilio offre l’opportunità di imparare tale trucco: tecnicamente, un esilio significa essere in un posto ma non farvi parte. L’illimitatezza risultante da tale condizione (e che è anzi l’essenza stessa di tale condizione) rivela come le verità locali siano fatte e disfatte dagli uomini, e come la lingua madre sia un ininterrotto flusso di comunicazioni tra generazioni e un tesoro di messaggi sempre più ricco di quanti ne vengono letti e perennemente in attesa di essere riscoperto. […]
Creare (e dunque anche scoprire) significa sempre infrangere una regola; seguire una regola è pura e semplice routine, non un atto di creazione. Per l’esiliato, infrangere le regole non è una questione di libera scelta, ma una circostanza inevadibile. Gli esiliati non conoscono a sufficienza le regole invalse nel paese ospitante, né le trattano con rispetto sufficiente a far apparire sinceri i loro sforzi di osservarle e conformarvisi.
Zygmunt Bauman, Modernità Liquida, Laterza 2002, pp.245-246.
Vale per tutti gli esiliati, quelli all’interno dei propri paesi, coloro che non riescono a omologarsi del tutto, gli emigranti che lasciavano i propri materassi e i poveri corredi a Palermo, al Monte dei Pegni ora restaurato all’interno di Palazzo Branciforte. Un memento che ha un sapore tutto dickensiano. Ho riletto queste frasi Bauman mentre rileggevo, parallelamente, Cent’Anni di Solitudine, ambientato in un luogo – Macondo – che è composto sin dalle sue origini di auto-esiliati che vanno a trovare condizioni migliori. Una città, Macondo, che continua a essere crocevia anche quando si trasforma in un posto pieno di case, di abitudini consolidate, di unioni. La contaminazione e l’accoglienza, a Macondo, non vengono mai meno, perché questa è la forza della città. Dell’archetipo della città.
Vale per i fatti di questi ultimi giorni, segnati – al contrario – dallo sguardo verso l’Altro che si fa più torvo, forse – paradossalmente – più in Occidente che sulla riva sud del Mediterraneo. E invece la contaminazione è vincente. Nella città. E anche in cucina, ovviamente. E allora, per alleggerire riflessioni che rimandano a Edward Said e a Mahmoud Darwish, così come alle lunghe gallerie di legno di Palazzo Branciforte, ecco la ricetta del coniglio allo zafferano. Un piatto che rimanda alla tipica cucina contadina romana (quella di mia madre), condito con quel tanto di profumi in più che non guastano. Per creare, appunto, bisogna sempre infrangere una regola. E gli esiliati, che di regole ne hanno viste molte, seguite in modo più o meno farisaico, sono bravissimi a infrangerle…
Il coniglio deve essere di campagna, a chilometro zero o poco più. Piccolino, insomma. Fatevelo tagliare a pezzi grandi. Marinatelo per un po’ di tempo (basta anche un’ora) con del vino bianco, un po’ di olio, e tutte le erbe aromatiche e spezie che vi trovate nelle vicinanze. Rosmarino, pepe, aglio, e il mio amato origano non ci stanno per niente male.
Fate rosolare il coniglio per bene, così che faccia quel po’ di crosta, in olio e cipolla. E magari aggiungete un po’ di vino, che farete sfumare. Mettete molte carote e molto sedano, tagliati grossolanamente. Se serve, aggiungete un po’ d’acqua, e fate cuocere. A metà cottura, mettete lo zafferano che avrete fatto sciogliere in un po’ di acqua calda, e i pinoli. A fine cottura, le olive nere, quelle al forno. Non cuocetele, le olive, se non per pochissimi minuti, altrimenti il gusto diventa amaro.
Buon appetito, in onore dei grandi e dei piccoli esiliati.
E per la playlist, The Tracks of My Tears, che molti ricordano nella colonna sonora del Grande Freddo, in una particolare versione di Smockey Robinson assieme ad Annie Lennox.



