La Casa Professa (Parte I)

Oggi parliamo di una tra la più belle chiese barocche del mondo, la chiesa del Gesù nota anche come Casa Professa, che deve il suo nome ai Padri Gesuiti, detti anche Padri Professi in quanto avevano professato i quattro voti religiosi. Chiesa, che tra l’altro, appartiene al loro convento più vasto e rilevante in Italia, dopo quella di Roma, la cui struttura, sin dalla fondazione era molto articolata ed inglobava un vasto perimetro urbano del quartiere dell’Albergheria, con due ampi cortili porticati e vari corpi edilizi aggiunti che accolsero, nei secoli, aree abitative e spazi sacri, cappelle ed oratori.

La chiesa sorge in un’area dell’Albergheria, che ha avuto una storia tanto lunga, quanto complicata: essendo ricca di grotte, in epoca punica, queste furono utilizzate come luoghi di culto, successivamente cristianizzati. Ai tempi di Balarm, la ricchezza d’acqua fu utilizzata per la realizzazione di balnea e addirittura di due Miqweh, i bagni rituali di purificazione della religione ebraica.

Come accennato in passato, Palermo era uno dei principali centro di vita ebraica di tutta Italia; la città, infatti, ha ospitato fin dal VI secolo una fervente comunità (Aljama), capace di fondersi con la cultura araba dominante e di assimilarne persino la lingua. Basti pensare infatti all’antica Sinagoga, lungo la via Calderai, denominata “Moschita” in continuità con il luogo di culto precedentemente islamico. Gli ebrei palermitani, stabilitisi prevalentemente nel quartiere della Giudecca, erano abili falegnami, argentieri, vasai e fabbri, tuttavia era nella lavorazione del corallo e della seta che si ponevano in una posizione di quasi monopolio, fino all’espulsione dalla Sicilia, avvenuta nel 1492, per volontà dei regnanti di Spagna Ferdinando d’Aragona ed Isabella di Castiglia.

Tra i luoghi frequentati dalla comunità ebraica del tempo possiamo dunque citare la sinagoga, poi sostituita dalla Chiesa di San Nicolò da Tolentino, l’ospedale, il macello o “kosher” (dove si presume fu realizzato per la prima volta il pane “ca meusa”), il cimitero, poi trasferito fuori le mura, e almeno due bagni rituali. Il primo era situato alle spalle della Sinagoga sotto il cortile di Palazzo Marchesi, attuale sede dei manoscritti rari della Biblioteca comunale di Palermo, in piazza Santi Quaranta Martiri al Casalotto. Questo nome, alquanto bizzarro, deriva da due componenti: quella dei Quaranta Martiri, alquanto scontata, deriva un gruppo di soldato cristiani, appartenenti ad una legione romana, che nel 320 d.C. furono condannati ed uccisi tramite immersione in uno stagno gelato presso Sebasta in Armenia.

Più strana è la denominazione di Casalotto, invece, proviene probabilmente dall’unione dei nomi “Guzet” e “Luzet”, ovvero le antiche denominazioni quartieri che si trovavano in questa zona, poi accorpati nel rione Il Capo in epoca araba. Qui vi era la porta la “Porta del Mercato dei Polli” del Kitab Ghara’ib, che in In un documento del 1310 è segnalata con un nome diverso, “Porta Bebilbacal, nei pressi della Chiesa di Santo Stefano”.

Il termine Bebilbacal deriverebbe da Ba’at al-buqul (Venditore di erbe o di legumi) toponimo ricordato nello stesso Kitab Ghara’ib.Dunque si potrebbe credere che, tra le antiche porte “del Mare” e “del Ferro”, in età araba veniva aperta una porta che non aveva nome, successivamente chiamata “Porta del Mercato dei Polli” e più tardi ancora “Porta del Venditore di Erbeo Legumi”. Questa parte della città, in piena età medievale, era la zona dei mercati alimentari di cui resta vivo il toponimo Via Lattarini, dall’arabo al-‘attarin (speziali, droghieri) e “Vucciria” dal francese boucherie (macello, macellai).

In quest’area, dicevo, sorge quel che resta del grande “hospicium magnum” edificato alla fine del XV secolo dal magnifico Antonio de Cusenza attraverso l’ampliamento di un più antico edificio preesistente. La famiglia Cusenza mantenne la proprietà del palazzo fino al 1518, anno in cui fu comprato all’asta da Salvatore Marchesi potente castellano del Palazzo Reale di Palermo da cui deriva il nome. Ma il palazzo rimase proprietà di questa famiglia per meno di mezzo secolo, infatti nel 1556 Bartolomeo Marchesi vende il palazzo alla corona di Spagna che lo concede al Tribunale della Santa Inquisizione che lo utilizzò coime carcare fino al 1558, prima di trasferirsi a Castello a Mare e poi allo Steri.

Carcere, quello dello Steri, che presentava diverse tipologie di celle, che venivano utilizzate a seconda degli scopi e delle pene che i detenuti dovevano scontare. Le celle più diffuse erano quelle cosiddette Pubbliche, in cui venivano tenuti i prigionieri colpevoli di reati morali, ad esempio i sospettati di bigamia, blasfemia, falsa testimonianza e sodomia. Qui venivano anche rinchiusi i progionieri politici, con le accuse di opposizione allo stato o all’Inquisizione. Tra queste vi erano le celle della Penitenza, dove i condannati potevano essere riabilitati tramite un percorso di rieducazione religiosa, prima di essere rimessi in libertà.

Poi vi erano delle celle particolarmente comode e dotate anche di qualche confort. Qui stavano i cosiddetti familiari, delle vere e proprie spie che agivano per conto della stessa inquisizione.Infine vi erano le segrete, umide ed oscure, situate nei sotterranei. Qui venivano reclusi i sospettati dei reati più gravi, tra cui le streghe, i bestemmiatori e gli eretici. Tra questi, i più pericolosi venivano tenuti in isolamento nelle cosiddette perpetue, in modo da non consentirgli di entrare in contatto con altri detenuti ed “indottrinarli al peccato”.

Il buon .Giuseppe Pitrè (1841-1916), famosissimo etnografo palermitano, fu colui che tra il 1906 e il 1907, dopo aver scavato per oltre sei mesi negli intonaci che avevano coperto tutte le possibili tracce, scoprì i Graffiti dello Steri. “Linee sovrapposte a linee, disegni a disegni davano l’idea di una gara di sfaccendati ed erano sfoghi di sofferenza”, scrisse nei suoi appunti durante la scoperta il Pitrè, che battezzò quelle incisioni a parete, “palinsesti del carcere”.

I ricercatori hanno stimato che il più antico dei graffiti, datato 1632, è a firma di Battista Gradu e Thomasi Rizzo, ambedue di Messina. Le scritte sono in siciliano, latino, inglese, arabo-giudaico. Il più drammatico ricorda l’incipit del Canto III di Dante all’ingresso dell’Inferno, “Nisciti di speranza vui ch’intrati”. Il più ironico recita così: “Allegramenti o carcerati, ch’ quannu chiovi a buona banna siti” (Rallegratevi o’ carcerati, perché quando pioverà sarete in un buon posto riparato). Molto interessante è il graffito del giovane pescatore Francesco Mannarino, rapito in mare e venduto ad un Ra’is, finendo come mozzo di una nave corsara. Durante i tre mesi di prigionia allo Steri, Mannarino incise magnificamente la battaglia di Lepanto del 1571, che ricostruì grazie ai racconti dei suoi compagni di navigazione. La maggior parte dei graffiti gronda dolore, rabbia, pentimento, devozione a Dio, alla Patrona di Palermo, La Santuzza, Santa Rosalia, e poi alla Madonna, ai tanti santi. Riportiamo fedelmente alcune delle scritte incise: “Poco patire, eterno godere, poco godere eterno patire”; “Maledetto è l’uomo iniquo e rio che confidasi in uomo e non in Dio”; “Pochi giungono al ciel, stretta è la via”; “Santa Rosalia che hai salvato Palermo dalla peste salva anche me”. Le incisioni raffigurano per lo più il Cristo, la Madonna, i santi, gli angeli e i diavoli, mappe della Sicilia e di Paesi conosciuti, date e simboli; sono tante e tutte straordinariamente impressionanti e molto belle.

Tornando a Palazzo Marchesi, per circa undici anni fino al 1569, l’edificio resta in stato di abbandono per poi passare per delibera regia ai padri Gesuiti di Casa Professa che l’avevano chiesto per ampliare il loro limitrofo complesso religioso da poco edificato. I Gesuiti vengono espulsi dal Regno di Sicilia nel 1769 e di conseguenza perdono la proprietà del complesso; i religiosi se ne riappropriano al loro rientro nel 1805. Infine con le soppressioni degli ordini religiosi attuate dalle autorità sabaude l’edificio nel 1879 viene incamerato dal demanio dello stato che vi colloca il Genio Civile e, in seguito il Genio Militare.

Il Palazzo, nonostante le trasformazioni, mantiene ancora tracce dell’originaria struttura gotico catalana, come ad esempio Rimangono il patio d’ingresso con un bel loggiato stilisticamente riconducibile all’architettura gotico-catalana e la magnifica torre merlata sulla quale nel 1731 venne innalzato il barocco campanile della nostra Casa Professa.

La torre, vivace testimonianza di arte gotico-fiammeggiante che certamente accresceva il carattere nobile del palazzo, presenta tre livelli segnati da sottili cornici marcapiano: nella parte basamentale si trova una piccola finestra di gusto rinascimentale con architrave decorato da una coppia di puttini alati che recano l’insegna araldica della famiglia Cusenza. Nel secondo ordine spicca la magnifica finestra trifora centrale riccamente decorata, realizzata da maestri lapicidi maiorchini che rappresenta un “unicum” nell’architettura palermitana del XV secolo, mentre il terzo livello è caratterizzato da una bifora con archivolto rettangolare a bilanciere. Il suo spazioso atrio interno, di chiara impronta catalana, simile a quello del coevo palazzo di Gaspare Bonet alla “Misericordia” (oggi Galleria di arte Moderna), conserva ancora oggi gran parte delle antiche arcate a sesto acuto sorretti da pilastri ottagonali, una finestra gotica, una bella cornice a piccoli archi inflessi e una elegante “escalera escubierta” a doppia rampa, elementi architettonici dell’originaria costruzione di particolare pregio. Dalla scala esterna, un tempo si raggiungeva direttamente il vestibolo dal quale, attraverso una ampia porta, si accedeva alla grande sala magna del piano nobile.

Nel cortile, si trovano due singolari ambienti sotterranei: il primo è stato identificato come una camera dello scirocco, per sopravvivere alle calde estati palermitane, l’altra il Miqweh, una camera ipogea di forma quadrangolare circondata da sedili anch’essi scavati nella roccia, con al centro una grande vasca. Secondo le Scritture, l’immersione in acqua era necessaria per riacquistare la purità rituale e dunque poter accedere al luogo di culto. Era consuetudine inoltre che le donne si immergessero totalmente dopo mestruazioni o parto, che fossero immerse nuove stoviglie e posate prima di consumare i pasti (sono stati infatti ritrovati frammenti di ceramica sul fondo della vasca), e che si accostassero al bagno anche coloro i quali dovevano essere convertiti.

L’acqua che alimentava la vasca (secondo i dettami del Tanakh l’acqua del Miqweh doveva essere assolutamente pura) proveniva dalla falda freatica formatasi per effetto delle infiltrazioni superficiali e del vicino Kemonia, sorgente che riempiva con le sue limpide acque anche l’altro enorme locale adiacente, utilizzato un tempo come cisterna che, certamente secoli fa, serviva ad assicurare il fabbisogno idrico della città in caso di emergenza. Il secondo bagno, con una struttura analoga a quello precedente, si trova proprio nel chiostro di Casa Professa ed è stato identificato da pochissimi anni.

La prima testimonianza di un uso religioso dell’area, risale al 884 d.C., in piena epoca islamica; ebbene, non riguarda la fondazione di una moschea, come sarebbe logico aspettarsi, ma di una chiesa cristiana. Nella bios di San Filippo di Argira, scritta dal monaco Eusebio scrisse

Un uomo molto ricco viveva a Palermo con tristezza poiché non aveva figli. Ma, avendo sentito parlare dei tantissimi miracoli compiuti dal Beato Filippo di Agira, ispirato in sogno, decise di andare a trovarlo, per pregarlo di intercedere affinchè Dio gli concedesse il sospirato figlio. Giunto con alcuni suoi servitori, vide da lontano San Filippo che siedeva dinanzi alla porta del tempio. Rivolto ai servitori disse: – Ecco l’ uomo che ho visto in sogno, che mi ha invitato ad incontrarlo. Se la vìsione che ho avuto è stata voluta da Dio, quel sant’uomo nel vederci ci chiamerà; ci dirà di entrare nel tempio per pregare il Signore; ci domanderà da quale città veniamo, e per quale motivazione siamo venuti-. Filippo, alzatosi, in quello stesso momento, disse al compagno Eusebio: -Chiama coloro che vengono a noi da lontano. -Eusebio li chiamò subito: – O pellegrini, il sacerdote Filippo per cui siete venuti vi chiama -. Quel ricco uomo, dopo avere pregato, e posto ai piedi del Santo i doni che gli aveva portato, gli disse: -Padre, tu sai lo scopo della mia venuta-. Il Santo di rimando a lui: -Lo so; ed io ti dico, ritorna a casa, poichè ciò che brami ti sarà concesso da Dio in premio della tua fede. Ritornato a Palermo il ricco signore trovò la moglie felice, che andandogli incontro disse: -Ho visto in sogno il Beato Filippo che mi diceva:-Il tuo sposo ritorna; sappi che concepirai e partorirai un figlio, che chiamerai Filippo-. L’uomo raccontò poi alla donna come il Santo sapesse già la ragione del suo viaggio, e lo avesse fatto chiamare dal monaco Eusebio. La moglie diede alla luce un bambino, e quel ricco signore gli pose nome Filippo. Il padre alla età di otto anni, lo portò ad Agira per presentarlo al santo sacerdote Filippo, e glielo offrì, dicendogli:-Ecco, o padre, il frutto delle tue preghiere-.

E San Filippo, prendendolo nelle sue mani, l’offrì nel tempio a Dio; lo benedisse, dicendogli poi:-Va, o flgliuolo, alla terra dove sei nato, innalza un tempio al Signore, e la benedizione di lui sarà sempre con te-. Di ritorno a Palermo Filippello, che aveva avuto in dono, come ricordo, una tunica, un asciugatoio e una fascia con cui il maestro si cingeva i fianchi, avendo incontrato un uomo, che giaceva quasi morto (si poteva dire quasi paralizzato), perchè morsicato da un serpente, sciolta la fascia, l’applicò a quel misero, dicendogli: -In nome di San Filippo sii guarito-. Quell’uomo si alzò pienamente risanato, senza alcuna traccia del male, e lodò il Signore. Filippo rimase grandemente meravigliato dell’accaduto, perché il Santo non guariva le malattie di persona, ma le sue vesti stesse (reliquie ex contactu) vincevano le malattie. Quando fu cresciuto, venne consacrato Diacono dal vescovo di questa città(Palermo). Esortato dal maestro a non attaccarsi ai beni terreni, all’oro ed allo argento il giovane gli ubbidì, e fece virtuosamente quanto gli era stato suggerito, distribuì ai poveri il ricco patrimonio che aveva. Dio operò per mezzo del giovane vari prodigi. Quando poi i Palermitani seppero che Filippo, ritornato in patria, aveva portato i vestiti del santo maestro, e che per mezzo di essi operava molti prodigi, si rallegrarono sommamente. San Filippello ad un monaco posseduto dal demonio disse di recarsi ad Agira per essere liberato da San Filippo, che operò il miracolo, nonostante il monaco fosse arrivato ad Agira quando il taumaturgo era già morto.

Ovviamente, come in tutte le bios i fatti sono leggendari: però, è indubbio, che all’epoca, fosse fondato, nel centro di Balarm, una chiesa e un convento di padri basiliani, a riprova che lo scandalo dei pii viaggiatori musulmani sulla strana vita religiosa cittadina erano in fondo motivato. Nel 1072, Roberto il Guiscardo e la moglie Sichelgaita, nel tentativo di ottenere il consenso degli abitanti di Balarm di lingua greca e religione ortodossa, restaurarono e ampliano il complesso basiliano di San Filippo, trasformandolo nella la badia di Santa Maria alla Grotta, sempre affidata ai basiliani.

Convento che, sotto la protezione degli Altavilla e delle loro corte, divenne tra i più ricchi e potenti della Sicilia. Nel 1128, Cristodulo Rozio, ammiraglio antiocheno al servizio di Ruggero II di Sicilia, gli donò tutti i suoi beni: nello stesso periodo, sappiamo che i balnea araba presenti nell’area furono trasformati in chiese dedicate ai Santi Cosma e Damiano, a San Michele de Indulcis, a San Leonardo de Indulcis e a san Pantaleo, tutte dipendenti dalla Badia.

Nel 1130, Ruggero II di Sicilia dona al monastero di Santa Maria della Grotta dell’Ordine basiliano di Marsala l’isola di Mozia comprendente la chiesa di San Pantaleo e le Saline. A questi possedimenti si aggiungono la chiesa di San Giovanni Battista al Boeo sul promontorio Lilibeo e la chiesa di Santa Croce. Fuori città la chiesa di San Michele Arcangelo (o Sant’Angelo) al Rinazzo presso il feudo Farchina, la chiesa di Santa Venera e un ampio giardino in località Eraclia, l’odierna Rakalia. Nel maggio dell’anno successivo, sempre Ruggero II, sancisce l’elevazione del monastero del Santissimo Salvatore ubicato sulla “lingua phari” di Messina a «mandra» o «Mater Monasteriorum» ossia guida di tutti i monasteri basiliani di Sicilia e di Calabria, compresa quindi la badia palermitana, alla quale furono dati uno sproposito di privilegi, confermati sia da Enrico VII, sia da Federico II.

I Gesuiti arrivano in Sicilia nell’anno 1547, a seguito del vicerè Don Juan de Vega che intuisce l’utilità di affiancarsi un nucleo di religiosi che in pochi anni hanno già dimostrato notevoli qualità organizzative e ottime capacità di aggregare consenso. Ma soprattutto è la viceregina Donna Eleonora Osorio amica di Ignazio che garantisce protezione e favori per i padri Gesuiti. Nel 1549 Ignazio di Loyola invia a Palermo Padre Diego Laynez, uno dei fondatori della Compagnia, per iniziarvi, assieme ad altri 12 Gesuiti, un collegio d’istruzione richiesto dal Vicerè e dal Senato cittadino. Già Messina, città in cui la compagnia per la prima volta assume la cura di istruire la gioventù, aveva ottenuto l’anno precedente un collegio che fu modello a tutti gli altri dell’isola. La prima sede dei Padri Gesuiti a Palermo, fu nelle case di Sigismondo Platamone presso la chiesetta di S. Maria della Misericordia nella piazza oggi detta di Sant’Anna e successivamente, nel 1550, si trasferirono nella casa del nobile Girolamo Xirotta, presso la chiesa di S. Antonio Abate.

Dopo tutto questo vagare, fu affidata loro proprio nel 1553 l’antica Abazia normanna di S. Maria della Grotta che, con la crisi dell’ordine basiliano, era caduta in progressivo abbandono. Essendosi rivelata troppo angusta la chiesa di S. Maria della Grotta, nel 1564, i padri Gesuiti iniziarono la fondazione della loro nuova chiesa, inglobando anche quella dei Santi Filippo e Giacomo. I lavori per la fabbrica del nuovo complesso ecclesiastico su disegno del Consiliarum ferrarese Giovanni Tristano, e sotto la direzione dei fratelli Gesuiti Francesco Costa e Alfio Vinci furono ultimati nel 1578. Le prime manomissioni della chiesa avvennero già nel 1591, quando, investendo capitali non indifferenti, si diede via ad una serie di lavori che portarono all’abbattimento dei muri divisori delle cappelle che trasformarono la chiesa da una a tre navate, su progetto redatto dal Gesuita messinese Padre Natale Masuccio. Ma un’altra significativa trasformazione dell’edificio religioso avvenne agli inizi del secolo successivo, quando si pensò ad ulteriori ingrandimenti della struttura per adeguarla alle esigenze di fasto e grandiosità tipiche dell’architettura gesuita. Sempre secondo un disegno del Masuccio i lavori furono realizzati soltanto dopo l’acquisto dei locali della Confraternita dei Santi Cosma e Damiano avvenuto nel 1606. Fra la seconda e la terza decade del XVII secolo sotto la direzione dell’architetto Padre Tommaso Blandino, la chiesa fu oggetto di altri importanti ampliamenti, specie nella zona del transetto e dell’abside che diedero al tempio gesuita l’attuale e definitivo aspetto. Il 16 di agosto del 1636 avvenne la solenne consacrazione della chiesa presieduta dal cardinale Giannettino Doria.

Nel 1767, viene teoricamente soppressa la Compagnia di Gesù, perchè in pratica, almeno a Palermo, i gesuiti continuano a occuparsi dell’insegnamento: però, la Casa professa è affidata al parroco dell’Albergaria, che esce scemo nel gestirlo. Per salvarlo, da quella incombenza, durante i restauri della cattedrale di Palermo del 1781, visto che Marvuglia non vuole nessuno tra i piedi, il Capitolo metropolitano e gli uffici parrocchiali sono trasferiti presso Casa Professa che in tale frangente assume il titolo e ricopre le funzioni di Concattedrale. Nel 1805 la Casa Professa viene restituita ai Gesuiti, che la terranno sino all’arrivo di Garibaldi, che li caccia a pedate da Palermo: nel 1866, con le leggi eversive, la chiesa diviene proprietà del demanio e nel 1892, il cavaliere Salvatore Di Pietro, rettore di Casa Professa, ottiene tramite il ministro della pubblica istruzione Paolo Boselli che il tempio sia dichiarato monumento nazionale.

Il 9 maggio 1943, la chiesa è vittima dei bombardamenti anglo americani, con una loro bomba che colpisce la cupola della chiesa causandone il crollo che danneggiò i manufatti interni adiacenti. Andò perduta gran parte delle pitture del presbiterio e del transetto. La cupola fu interamente ricostruita con tecniche moderne che prevedevano l’utilizzo del calcestruzzo armato realizzando una struttura a doppia calotta nervata, dissimulata dai rivestimenti esterni. Il progetto ed i calcoli strutturali vennero redatti dall’ing. Giovanni Crinò, con i restauri che terminarono nel 1956, quando fu concluso l’affresco della volta della navata centrale opera di Federico Spoltore e Guido Gregorietti.

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Published on December 11, 2021 07:00
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Alessio Brugnoli
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