Le tombe di via Latina

Il Parco Archeologico delle Tombe della Via Latina, situato tra le moderne via Appia Nuova e via Demetriade, racchiude al suo interno una vasta porzione dell’area compresa tra il II ed il III miglio dell’antica via Latina, che collegava Roma a Capua. Il primo ad esplorare con attenzione l’area fu Pirro Ligorio, che tra il 1550 e il 1560, si recò nella zona, all’epoca aperta campagna, per eseguire i rilievi delle tombe monumentali all’epoca visibili, il nostro Sepolcro Barberini e la tomba Baccelli. Disegni che ci danno informazioni importantissime proprio su quest’ultimo mausoleo. che rimasto integro per secoli, dopo l’esplorazione di Pirro Ligorio era stato trasformato in una chiesa, nel 1959 crollò miseramente.

Le indagini archeologiche nell’area furono condotte fra il 1857 ed il 1858 da Lorenzo Fortunati, un insegnante di scuola appassionato di archeologia che ottenne da papa Pio IX il permesso di condurre a proprie spese scavi archeologici nell’area compresa tra le attuali via Appia Nuova, via Arco di Travertino e via di Demetriade, che allora erano proprietà dei Belardi e Barberini Lante della Rovere. Di quelle ricerche si conserva una Relazione generale degli scavi e scoperte fatte lungo la via Latina

Le ricerche riportarono alla luce un tratto di circa 500 m dell’originario basolato del III miglio dell’antica via Latina, che collegava Roma con Capua, e diversi monumenti funerari con resti archeologici che vanno dall’età repubblicana fino all’alto medioevo: oltre ai sepolcri, furono ritrovati i resti di una villa imperiale e di una basilica paleocristiana dedicata a Stefano protomartire.

Va tenuto presente che Lorenzo Fortunati non era solo animato da interessi scientifici ma anche da finalità di lucro: la legge del periodo prevedeva, infatti che, in caso di rinvenimento di beni archeologici e storici, un terzo degli oggetti rinvenuti venisse consegnati allo Stato Pontificio, mentre i rimanenti potevano essere venduti nel mercato antiquario: così solo una parte dei reperti di quegli scavi sono ora conservati nei Musei Vaticani, mentre la maggior parte sono andati dispersi.

I proventi della loro vendita furono divisi tra lo stesso Fortunati e i proprietari del fondo. Molti sepolcri furono gravemente danneggiati per poter estrarre gli imponenti sarcofagi. Proprio per la spregiudicatezza di Fortunati e a causa di alcuni contrasti sorti con la Pontificia commissione di archeologia sacra in seguito alla scoperta della basilica paleocristiana di Santo Stefano, la concessione di scavo fu revocata nel 1859 e gli scavi proseguirono grazie al diretto interesse di papa Pio IX.

Nel 1879 l’appena costituito Stato Italiano espropriò alcuni dei terreni interessati dai siti archeologici, di proprietà dei Barberini, su iniziativa del ministro Baccelli e l’area fu destinata a giardini pubblico: ai primi del 1900 venne eseguita una campagna di scavi sotto la guida di Rodolfo Lanciani. La porzione di terreno con i resti della villa di Demetriade appartiene inveca alla ex Provincia di Roma, che ha avuto la brillantissima idea di costruire sui resti interrati dei campi sportivi: ovviamente di smantellarli e di restituire al pubblico quel patrimonio culturale, guai a parlarne.

Per prima cosa, entrando nel Parco, si nota il basolato antico della via Latina: ricordiamo come le strade romane fossero fatte a strati, come le torte:

lo Statumen era la parte inferiore di una trentina di centimetri formato da pezzi di pietra legati da malta di calce
il Rudus costituiva uno strato superiore di circa quindici centimetri formato da pietre più piccole e sempre legate da malta di calce
lo strato successivo era il Nucleus spesso circa dieci centimetri costituito da sabbia e ghiaia senza calce
il Summa Crusta che già il nome dice tutto, era formato da blocchi di lava o arenaria di varie forme e spesse almeno trenta centimetri che venivano posti nella sabbia

Appena entrati nel parco sulla destra si vede un grosso blocco in opera cementizia che era il nucleo di un sepolcro a dado completamente spogliato dei suo originario rivestimento in marmo o travertino; su questo è apposta la targa commemorativa della scoperta del sito ad opera di Fortunati e dei successivi scavi intrapresi per volere di papa Pio IX, in cui ovviamente, non si fa parola delle dispute, anche legali, di cui ho parlato prima.

Proseguendo sulla via Latina si incontra sulla destra il sepolcro detto Barberini dal nome dei proprietari del luogo in epoca Rinascimentale anche chiamato Sepolcro dei Corneli da una epigrafe oggi scomparsa ma riportata in un disegno di Pirro Ligorio e riportante il nome L. Cornelius. Il mausoleo è il tipico sepolcro a tempietto, con la facciata in opus latericium a due colori (rosso per le pareti, giallo per i capitelli e gli architravi decorati). La tecnica costruttiva e l’accuratezza delle decorazioni, tipiche della seconda metà del II sec. d.C. (cioè dell’età degli Antonini) e indice del massimo virtuosismo raggiunto nell’uso del mattone, pongono la data di costruzione intorno al 160 d.C.

Il complesso era disposto su tre piani: nel piano seminterrato vi è la camera funeraria (cioè il luogo in cui sono conservati i resti dei defunti), dove fu rinvenuto il sarcofago con il mito di Protesilào e Laodamìa, conservato ai Musei Vaticani. Il mito racconta che Protesilao, principe della Tessaglia, fu il primo a morire tra tutti i partecipanti alla guerra di Troia; ma la moglie Laodamia, dalla quale Protesilao era partito proprio il giorno delle nozze, divenne così disperata da commuovere Plutone e Proserpina, che permisero a Protesilao di risalire dagli inferi per passare un’ultima notte con lei; tuttavia il giorno seguente Laodamia, per non abbandonare il marito, si uccise. La raffigurazione del mito di Protesilao e Laodamia, che simboleggia specificatamente la fedeltà coniugale, fa pensare che l’antico proprietario del sepolcro Barberini fosse molto legato alla moglie.

Il piano centrale era utilizzato per i riti funebri, nei quali i parenti banchettavano ricordando il defunto e pensando che questi partecipasse in spirito e che fosse contento della festicciola familiare. La parete esterna mostra tre aperture murate: le due laterali erano delle finestre rettangolari, mentre la centrale era un riquadro per il titolo sepolcrale, cioè la targa marmorea con l’iscrizione dei nomi dei defunti; la svasatura che si vede sopra ciascuna delle tre aperture conteneva una piattabanda protettiva, cioè un insieme di mattoni messi di taglio che sostituiscono l’architrave

Nel piano superiore compare una sola grande finestra ad arco, in cui era probabilmente collocata la statua del defunto che, affacciata sulla strada, ricordava il morto ai passanti; vista l’ampiezza della finestra, c’è anche chi suppone che vi fosse un triclinio, o una sorta di “terrazza panoramica”. Infine in cima si vede il timpano, che sorregge il tetto.

All’interno le pareti sono ornate da nicchie. Il piano superiore è coperto da una volta a crociera interamente rivestita di intonaco affrescato a sfondo rosso ed elementi in stucco, in IV stile. Si riconoscono gruppi di personaggi, vittorie alate su bighe, amorini, uccelli, animali marini, soggetti mitologici e sfondi architettonici.Il discreto stato di conservazione della tomba si deve al fatto che essa è stata (quasi sempre) abitata da pastori o utilizzata come fienile; ciò ha permesso quel minimo di manutenzione (particolarmente del tetto) che ha prevenuto il crollo.

L’ingresso, come nella maggior parte delle tombe di questo tipo, si trova sul lato opposto alla strada. Lo si raggiungeva, come è stato scoperto durante il restauro del 1999, attraversando uno stretto corridoio scoperto, pavimentato a mosaico a tessere bianche e nere che compongono disegni geometrici delimitati da una cornice nera, protetto da un basso muro che permetteva la lettura delle iscrizioni dalla strada.
Nei corridoi ipogei che circondano la tomba principale la famiglia proprietaria ricavò lo spazio per decine di deposizioni, disposte in arcosoli o in tombe a cappuccina

Il Sepolcro Barberini era circondato da altri edifici funerari di cui oggi rimangono poche tracce.Continuando il percorso, troviamo a sinistra il Sepolcro Fortunati 25 ( tutti i sepolcri rinvenuti erano stati numerati sulla mappa della Relazione) di cui rimane solo la camera ipogea a pianta quadrata, un tempo coperta da una volta a crociera.

Una scala a due rampe permetteva di raggiungere il piano interrato, che era illuminato dalle due finestre a feritoia che si riconoscono sul lato opposto alla scala. Le pareti, che erano ricoperte da lastre di marmo, presentano due nicchie per le olle cinerarie, in origine abbellite con delle pitture di cui rimangono tracce e che rappresentavano elementi floreali, vegetali, animali e figure panneggiate su fondo bianco. Alcuni pilastrini indicano che vi dovesse essere anche un sarcofago. Sulla parete Nord-Ovest si trova una galleria usata anch’essa per la sepoltura.

Segue, sempre sul lato sinistro il Sepolcro n.29, con i resti di un edificio con due camere sotterranee contenenti numerosi defunti. Il Sepolcro sovrastava un altra costruzione funebre più antica (I° sec d.C.) con altre sepolture rinvenute in occasione di scavi effettuati nel 1982-1983. Poco più avanti, sempre sullo stesso lato della strada, si trova quel che resta di un altro Sepolcro a Pilastro, seguito dai muri perimetrali concentrici di un edificio a pianta circolare costituito da una camera rettangolare centrale e da piccoli ambienti radiali.

Si giunge quindi al Sepolcro dei Valeri, posto sulla destra della strada, la cui attribuzione, però non si base su prove concrete: il nome è dovuto ad una iscrizione trovata dalle parti della villa di Demetriade, che ricorda tale famiglia, senza però nessuna indicazione sul fatto che vi possa essere stata sepolta. Il mausoleo seguiva probabilmente lo schema tradizionale delle tombe laterizie del II sec. d.C.; circondava la tomba un “recinto sacro”, del quale si vede una ricostruzione nel muro distaccato, con le semicolonne: questo era l’ingresso monumentale che permetteva di entrare nell’area sepolcrale.

Quello che vediamo oggi, infatti, è una ricostruzione, pensata dall’architetto Fontana e realizzata tra il 1859 e il 1861, dall’architetto, sia per motivi architettonici, sia soprattutto per proteggere gli stucchi che si trovano nella parte inferiore. Alla base, per circa un metro a partire dal livello del terreno, è comunque possibile riconoscere i muri originali, in laterizio e opera reticolata, mentre delle due colonne è autentica solo quella in marmo cipollino. Avendo ritrovato un mattone in laterizio della volta con bollo del 159 d.C. si può far risalire il sepolcro al 160/180 d,C. periodo in cui regnava Marco Aurelio.

Accanto all’ingresso ricostruito due scale laterali conducono alla camera funeraria, formata da un atrio e da due camere funerarie opposte. L’atrio è un piccolo cortile seminterrato a cielo aperto, dal quale entrano la luce e l’aria per i vani del sottosuolo; nel pavimento vi è una fossa per raccogliere l’acqua piovana e salvaguardare le sepolture dall’umidità. La camera funeraria più grande è quella sotto la tomba, di fronte alla quale ce n’è un’altra più piccola, utilizzata solo in un secondo momento quando la principale venne riempita di sarcofagi; entrambe sono coperte con la tecnica della volta a botte.

Questa è una tomba famigliare: infatti sulla parete di fondo della camera principale c’è una base rialzata, sopra la quale doveva trovarsi un grande sarcofago, probabilmente del capofamiglia. Le pareti della camera erano tutte rivestite di marmo fino ad altezza d’uomo (come si può vedere dalle impronte lasciate nell’intonaco) sia per decorazione sia per protezione delle pareti. Si sono conservati la soglia, l’architrave e gli stipiti della porta, tutto in marmo bianco.

La parte più spettacolare è la decorazione della volta: tanto il soffitto quanto le lunette presentano uno spettacolo festoso tutto in stucco bianco e medaglioni, in cui si vedono menadi (fanciulle invasate) e satiri (divinità dei boschi) che danzano assieme a pistrici (animali marini favolosi) e nereidi (ninfe marine). Al centro del soffitto è raffigurata una figura femminile velata, trasportata sul dorso di un grifone (animale mitico con le ali, dalla testa di aquila e dal corpo di cavallo); questa immagine simboleggia l’anima del defunto trasportata in cielo.

Nella lunetta sopra l’ingresso è raffigurata una nereide sopra un pistrice, mentre nella lunetta di fronte all’ingresso ci sono tre figure danzanti; tutti questi soggetti mitici ballano come folletti, per dare un’idea del mondo beato dell’aldilà, che si immaginava oltre l’Oceano. Infatti gli antichi credevano che l’anima del defunto, se in vita era stato buono, trasmigrava nel paradiso dei beati, dove veniva accolta da queste divinità fantastiche, buone e liete, eternamente in festa.

Le nereidi, in particolare, sono gli spiriti divini che accompagnano le anime dei morti, e hanno più o meno lo stesso compito dei nostri angeli custodi (o delle Uri nella tradizione musulmana); questo mostra quanti residui del paganesimo ancora sopravvivono ai nostri giorni. Scarsi i resti rinvenuti nella tomba: alcuni elementi marmorei di decorazione architettonica e i frammenti di due sarcofaghi: uno raffigura le fatiche di Ercole (conservato ai Musei Vaticani), mentre l’altro un tema bacchico (265/270 d.C.).

Intorno al Sepolcro dei Valeri sono stati ritrovate murature di alcuni ambienti appartenuti ad una Mansio (o Statio), una stazione di posta dove i viaggiatori potevano riposarsi, mangiare e lavarsi, forse della stessa proprietà dei destinatari del sepolcro. Vi erano stanze, tabernae e terme.
Le stanze erano disposte intorno ad un peristilio con al centro una grande vasca e nel lato di fondo un ninfeo con pavimento a mosaico. Accanto alla strada due pilastri (che anticamente dovevano sostenere delle statue) delimitano l’ingresso dell’albergo, dove era la ricezione; in questo punto i basoli salgono sopra il marciapiede, a costituire il “passo carrabile” dell’albergo. Dietro il sepolcro dei Valeri si vede, ad un livello inferiore rispetto al piano di calpestio, il pavimento a mosaico (assieme al condotto per l’acqua) di una delle stanze termali del complesso, nonché due cisterne destinate all’approvvigionamento idrico; di queste una (in calcestruzzo e scaglie di selce) è lunga ben 19 metri. Sul retro, una sorta di terrazza panoramica permetteva di banchettare godendo la vista della campagna dall’Appia Antica fino ai Colli Albani.

Subito dopo si passa allo sfortunatissimo sepolcro Baccelli: questa tomba, probabilmente costruita in cooperativa, seguiva il solito schema delle tombe a tempietto del II sec. d.C., con la camera funeraria sotterranea destinata alle sepolture, il piano terra per i riti funebri e la soprelevazione per farla spiccare sul paesaggio. L’ingresso, che come al solito non è sulla via Latina, dava su una stradina che puntava verso la via Appia Antica, forse la stessa che, valicando l’Almone all’altezza della torre-ponte, costeggiava il colombario ipogeo rinvenuto nel 1990 di fronte a S. Urbano (ora ricoperto). La camera funeraria è di un tipo diverso da quelli visti finora: essa è del genere a loculi sovrapposti per inumati, e contiene infatti tre strati di deposizioni, disposti su due file.

Di fronte al sepolcro dei Valeri, una costruzione di cemento nasconde e protegge i resti di un altro monumento funerario. Della costruzione originaria non rimangono che tracce di muro non più alte di un metro (su cui si è innestata la muratura attuale), ma la tecnica costruttiva utilizzata, in opus reticulatum con ricorsi di mattoni, contribuisce a collocare la datazione all’età adrianea (110-130 d.C.); in seguito il laterizio diverrà pressoché l’unico materiale costruttivo utilizzato. La tomba era probabilmente del consueto tipo a tempietto.

La visita del monumento comincia con la sala superiore, quella all’altezza del piano di calpestio, che si presenta con due camere separate da un muro antico, in opera cementizia e intonacato, che attualmente si eleva dal terreno per non più di 50 cm. Qui è collocato vario materiale archeologico, tra cui due sarcofagi di terracotta privi di decorazioni, forse di quelli rinvenuti dal Fortunati nelle camere sotterranee. Il pavimento pende verso il fondo delle due sale (dove un tubo di piombo scaricava l’acqua nella villa retrostante) e risulta completamente rivestito di mosaico: proprio di fronte all’entrata si possono osservare due riquadri a tesserae bianche e nere che rappresentano scene marine con pesci di varie grandezze immersi nell’acqua resa tramite bande nere ondulate; la sala in fondo invece è rivestita solamente da mosaico bianco.

Se si presta un po’ di attenzione, all’estremità sinistra dei riquadri marini si può notare che questi ultimi si sovrappongono al pavimento privo di decorazioni che compare più in fondo, dimostrando così di appartenere ad un periodo più tardo. Sulla destra, una scala conduce ad un cunicolo indipendente.Un lucernario, tagliato nel pavimento già dall’antichità, collega la sala superiore a quelle inferiori; è proprio da qui che L. Fortunati si inoltrò al momento della scoperta della tomba.

Il piano inferiore è composto da due ambienti nei quali si rinvennero numerosi sarcofagi; per raggiungerli, a sinistra dell’ingresso si scende la scala originaria. Il primo ambiente, coperto con la tecnica della volta a botte, è il cortile scoperto che dava aria e luce alla camera funeraria (ma che ora è coperto dalla tettoia); il pavimento, decorato da un mosaico, è in lieve pendenza verso un pozzo profondo ben 75 m destinato a raccogliere le acque piovane.

Quando il cortile fu scoperto, 5 sarcofagi erano appoggiati sul bancone in laterizio sostenute da archetti, la cui funzione era proteggere i sarcofagi dall’umidità del terreno; quattro sarcofagi sono stati portati ai Musei Vaticani, mentre il quinto è rimasto al suo posto di fronte alla scala; è bisomo (cioè per due persone) del tipo a cassa strigilata, cioè con la fronte ornata a serpentina: un genere stilistico molto diffuso tra il III e il IV sec. d.C.; al centro sono raffigurati i due coniugi Demetrianus e Vivia Severa, mentre in basso una iscrizione ricorda il collegio funeratizio dei Pancrazi.

I Pancrazi dovevano infatti essere l’impresa proprietaria del sepolcro quando il sarcofago vi fu collocato (dunque tra il III e il IV sec. d.C.); essi acquistarono questa tomba forse dai discendenti di colui che l’aveva costruita più di un secolo prima, e la riadattarono per accogliere altri sarcofagi (all’interno del pozzo il Fortunati trovò i frammenti di un’iscrizione con i nomi di 11 persone); segni dei lavori di riadattamento sono probabilmente sia il mosaico con i pesci, sia gli affreschi con pavone, anatre e cesti di frutta sotto il bancone laterizio, databili al III sec. d.C. in base al genere stilistico. Le pitture della camera, ancora ben visibili nel 1861, sono oggi quasi completamente scomparse; si riconoscono i resti evanescenti di piante e animali, tracce di paesaggi e figure umane.

Attraverso una porticina si entra nella tomba vera e propria, dove erano collocati ben 8 sarcofagi, sette dei quali sono ora ai Musei Vaticani. L’unico rimasto è un gigantesco sarcofago di marmo greco non levigato, senza nessuna decorazione tranne il coperchio a doppio spiovente con quattro acrotèri scolpiti che ornano gli angoli. Purtroppo non è rimasta nessuna iscrizione che indichi a chi fosse appartenuto.

Il sarcofago, così grande da non passare attraverso la porta, è stato evidentemente collocato qui prima che la tomba fosse costruita; con questo accorgimento il proprietario ebbe la certezza che nessuno glielo avrebbe mai rubato, e gli stessi archeologi pontifici sono stati costretti a lasciarlo al suo posto. Anche il pavimento, costituito da un mosaico bianco e nero con decorazione a squame, mostra di essere stato eseguito dopo la collocazione del sarcofago.

La parte veramente spettacolare è però la grande volta a crociera, decorata con pitture e stucchi policromi che si sono conservati in modo straordinario; vi sono rappresentate scene famose dell’iconografia greca e romana che si ritrovano in molti affreschi (ad es. a Pompei) e rilievi di sarcofagi, e il risultato è un complesso intreccio mitologico.

Entrando, nella parete di fronte all’apertura d’ingresso, è raffigurato il famoso giudizio di Paride: Paride, con un berretto frigio sulla testa, è raffigurato seduto mentre pensa a chi consegnare il premio, mentre Mercurio gli indica le tre dee (Venere nuda, Minerva con l’elmo e dietro Giunone, matronale e seduta).Nella parete opposta (cioè dalla parte dell’ingresso) è raffigurato l’episodio narrato nel XXIV libro dell’Iliade in cui Priamo si reca con molti doni da Achille a riscattare il corpo del figlio Ettore. La scena mostra Priamo, col berretto frigio, che si inginocchia davanti ad Achille (a destra, seduto su un seggio e con due guerrieri a lato), mentre a sinistra si vede il carretto coi doni.

Altre due scene sono raffigurate nelle pareti laterali: a sinistra una gara musicale tra Ercole deificato nell’Olimpo dopo la morte e un satiro che suonano da una parte mentre Minerva, Diana, Dioniso ed un’erma di Apollo ascoltano dall’altra (questa scena è l’unica che manca di confronti in altri monumenti, e sembra essere stata inventata dall’artefice della decorazione); a destra il mito di Alcesti: lo stucco mostra il re Pelia seduto sulla destra, dietro al quale si trova la figlia Alcesti vista di fronte; davanti Apollo presenta dietro di sé Admeto sul carro trainato dal leone e dal cinghiale. Sotto ogni lunetta, in una prospettiva architettonica con colonne in stucco e soffitti a cassettoni dipinti, troviamo tre personaggi.

Sotto il giudizio di Paride è rappresentata una gara musicale tra Apollo e Bacco con la barba, con al centro la Vittoria che darà la palma al vincitore; Bacco giovane e Mercurio sono sull’ingresso, ai lati di una finestrella tagliata già nell’antichità, ma che probabilmente all’inizio presentava una figura anch’essa; sotto il mito di Alcesti si vede Achille tra due guerrieri (che somigliano molto a quelli del rilievo con Achille e Priamo). Infine, sotto la gara musicale tra Ercole e il satiro, sono raffigurati Ulisse, Diomede e Filottete ferito. Diomede solleva il “Palladio”, ossia una statua raffigurante Pallade Atena con scudo e lancia; secondo la leggenda, la statua aveva la proprietà di difendere una città fintantoché essa vi era ben custodita; per questo il Palladio di Troia fu rapito da Ulisse e Diomede, così da favorire la vittoria dei Greci.

Proseguendo nella descrizione degli stucchi, in alto il tondo centrale raffigura un Giove con la folgore trasportato dall’aquila (la folgore è quell’oggetto con l’impugnatura al centro e i due tortiglioni che escono di lato). Infine, la volta è completata da un’infinità di altre figure dipinte e stuccate, tra cui si riconoscono animali mitici e non, lotte di centauri e leoni, elementi floreali di delicata fattura, satiri, menadi, amorini, paesaggi sacro-idillici con caratteri quasi “impressionistici”.La folla di elementi e personaggi della sfera divina ed eroica nascondono sicuramente un unico disegno, che probabilmente voleva mostrare la fedeltà coniugale e l’esaltazione della figura del defunto, sia nelle sue imprese “eroiche”, sia nel destino ultraterreno, assurto tra gli dei nel paradiso dei beati insieme agli eroi mitologici o agli imperatori coevi.

Sorge infine il problema della datazione e della proprietà del sepolcro: la presenza del grande sarcofago e delle ricche (e molto costose) decorazioni della sala degli stucchi, oltre che di tre sarcofagi in marmo istoriati (sempre costosi) oggi ai Musei Vaticani, fanno ritenere che inizialmente il sarcofago fosse proprietà di personaggi di una certa levatura sociale. Le differenze di stile tra tutti gli affreschi, stucchi, mosaici e sarcofagi rivelano inoltre un arco temporale di vita e frequentazione del sepolcro di quasi due secoli, se non di più. La contiguità del sepolcro con la villa di Demetriade, e la presenza di collegamenti con essa, ha fatto ipotizzare l’appartenenza del monumento, sin dalla sua costruzione (tra il 110 ed il 130 d.C), agli stessi proprietari della villa (forse la famiglia dei Valeri Paullini); dopo una serie di vicissitudini, ipotizzabili dalle numerose iscrizioni rinvenute nella villa, parte del sepolcro fu acquistato dal collegio dei Pancrazi almeno 120-150 anni dopo la sua costruzione.

L’area alle spalle del sepolcro dei Pancrazi era occupata da una ricca e vasta villa (nella quale fu costruita successivamente la basilica di S. Stefano), che sembra sia stata costruita all’inizio del II sec. d.C. dalla famiglia dei Valeri Paullini.

Essa doveva essere assai ricca, come dovevano esserlo le numerose ville edificate nel suburbio di Roma intorno alla via Latina e alla via Appia Antica. Ci sono poi degli indizi che questa villa sia finita nel demanio imperiale per opera dell’imperatore Commodo, con una vicenda simile a quella subita dalla villa dei Quintili sulla via Appia.

Il complesso, che in questo punto si affacciava sulla via Latina, aveva l’entrata principale all’altezza del sepolcro Barberini; da lì infatti, guardando fuori del recinto del Parco in direzione di via Tuscolana, si vede un grosso rudere, che costituiva l’ingresso apposta per chi veniva da Roma. Il monumento aveva la forma di un’esedra, cioè di uno spazio semicircolare (probabilmente coperto) delimitato da un muro.

Accanto al sepolcro dei Calpurnii vi era invece l’ingresso secondario, che immetteva in un cortile grande grosso modo come lo spiazzo a trapezio allungato che separa la basilica di S. Stefano dalla cancellata che chiude il parco.

Il cortile era circondato da un lungo portico, che consentiva di arrivare al peristilio (cioè il cortile circondato da colonne che era al centro della villa, e nel quale sors e poi la basilica di S. Stefano) comodamente anche quando pioveva o c’era troppo sole. Lì era la facciata della villa, con ai lati i magazzini in cui si tenevano i depositi di grano, i carri o altro. Il muro perimetrale del cortile, messo per sbieco, è ancora visibile dietro il sepolcro dei Pancrazi

Attorno alla metà del II secolo la villa fu acquistata dalla famiglia senatoria dei Servili Silani per entrare poi nel demanio imperiale con Commodo che secondo le fonti fece giustiziare un membro della gens dei Silani. In età costantiniana la villa sembra sia passata dal demanio imperiale alla famiglia degli Anicii, e nel V sec. d.C., al tempo di papa Leone I (440 – 461) detto “Magno” per aver fermato Attila, ne era proprietaria una nobildonna romana di nome Demetriade. Questa donna, consacrandosi a Dio, trasformò la propria casa in una basilica, coprendo con un tetto il peristilio e consacrandolo come chiesa.

Della basilica (oggi chiusa da un muro moderno) restano tratti dei muri e alcune colonne, dalle quali si deduce che l’impianto era a tre navate.

Tenendo presenti le dimensioni della basilica possiamo renderci conto della grandezza della villa; al posto della basilica c’erano il giardino, le statue, le fontanelle, le aiuole fiorite, e il colonnato tutto attorno; sul cortile si affacciavano le stanze, e in particolare in fondo il triclinio (la camera da pranzo) e le camere da letto, mentre ai lati dovevano esserci i bagni e le cucine. Nei secoli successivi la villa crollò, mentre la basilica rimase in attività fino addirittura al ‘200; dopodiché, sperduta com’era nella campagna e senza la protezione della villa, cadde in disuso, e dal XIV secolo se ne persero le tracce fino alla riscoperta del Fortunati.

La basilica era dedicata a S. Stefano protomartire, le cui reliquie furono trasportate qui dalla stessa Demetriade; esse dovevano essere conservate nella “Confessione”, cioè il vano sotto l’altare (ora coperto dalla tettoia di plastica ondulata) sul quale i fedeli si inginocchiavano in venerazione; dietro l’altare si vede l’abside in opera listata. L’opera listata, in uso saltuariamente (e per di più associata quasi sempre al laterizio) sin dall’età di Adriano, diventa all’inizio del IV sec. d.C. la tecnica tipica di costruzione; il paramento è costituito da fasce di mattoni alternate con parallelepipedi di tufo, disposti in fasce orizzontali.

In fondo alla navata destra, in corrispondenza di una porticina, c’è il Battistero, una piccola piscina a forma di quadrifoglio scavata nel terreno, nella quale si scendeva per mezzo di una scaletta; gli antichi cristiani infatti erano battezzati per immersione. Qui furono ritrovate numerose sculture, oggi esposte ai Musei Vaticani, e anche una lastra di marmo, a profilo ricurvo, con una discussa epigrafe altomedievale.

La lastra, che forse apparteneva ad un ambone, fu ritrovata nel XIX secolo e oggi è conservata nella sala IV del Museo Nazionale dell’Alto Medioevo. L’epigrafe è incisa dall’alto verso il basso, tuttavia lo spazio limitato a disposizione ha costretto l’incisore a mandare a capo le parole in modo disordinato, a usare molte abbreviazioni e ad affollare di lettere la parte finale dell’epigrafe dove lo spazio disponibile stava ormai finendo; questo ha portato ad interpretare l’epigrafe come se si riferisse ad una campana dedicata a S. Stefano da un pastore (gregarius) locale, ma l’interpretazione appare poco plausibile.

La menzione del pontificato di papa Sergio II (844-847) assegna con certezza l’epigrafe alla metà del IX secolo. La dedica è compiuta da un certo Lupo, che doveva essere il soldato magazziniere (GRIGARIVS dovrebbe essere inteso come miles gregarius) di un deposito (de canapa) militare situato presso la basilica di S. Stefano protomartire, quindi probabilmente nella zona del vicino Campo Barbarico.

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Published on August 04, 2021 07:47
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Alessio Brugnoli
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