Il tempio di Zeus ad Agrigento
La visita ai monumenti della Valle dei Templi ha inizio dall’area del grande piazzale (che si incontra entrando in città da Porta IV o Porta Aurea.
All’interno dell’area recintata ad Ovest del piazzale, si sviluppa un importante complesso archeologico; esso si articola in una sequenza di aree sacre, diverse nella configurazione architettonica, ma non nella natura dei culti praticati. Questo settore della collina dei templi restituisce la documentazione monumentale più antica della religiosità agrigentina nel VI secolo a.C., con particolare riferimento al culto ctonio (della fertilità della terra e legato al mondo degli inferi) di Demetra e Kore, cui riportano i materiali votivi rinvenuti e le peculiarità struttive dei monumenti.
Uno dei primi monumenti che si incontrano è il più grande tempio dorico d’Occidente: studi recenti hanno posto in rilievo un aspetto particolare del culto (forse già praticato in epoca arcaica): si tratterebbe cioè del culto di uno Zeus ctonio (lo stesso Zeus noto in Esiodo come largitore di beni agricoli in stretto rapporto con Demetra). A tale particolare natura del culto riporterebbero la contiguità con i vicini santuari di culto demetriaco e la stessa singolare concezione architettonica della struttura chiusa e compatta intorno alla grande aula interna.
Secondo Diodoro Siculo, il tempi fu eretto come ex voto dopo la vittoria di Himera sui Cartaginesi del 480-479 a.C. quando Akragas era governata da Terone; la conquista punica della città ne interruppe la costruzione, rendendolo incompiuto. Sin dal Medioevo, l’enorme massa di macerie è stata considerata una grande cava, chiamata cava gigantum: i blocchi sono stati utilizzati per costruire molti dei monumenti della nuova città che, dopo aver abbandonato la valle, che si sviluppò in cima alla collina di Girgenti. Anche parte della cattedrale normanna fu costruita con questo materiale, trasportato su grandi carri trainati da buoi. Infine, nel 1700, il molo del porto di Porto Empedocle fu costruito con blocchi di templi: ancora oggi gli antichi blocchi di tufo sono riconoscibili mentre si cammina lungo la riva. Lo storico siciliano Tomaso Fazello,il quale può dirsi lo scopritore del grandioso tempio, ci dice che gli ultimi avanzi caddero a terra il 9 Dicembre 1401 a causa di un terremoto.
Nel 1787 Goethe visitando le rovine del tempio lasciò questa descrizione ne Il viaggio in Italia:
La sosta successiva fu dedicata alle rovine del Tempio di Giove. Esse si stendono per un lungo tratto, simili agli ossami d’un gigantesco scheletro, popolate e spezzettate da tanti piccoli poderi divisi da siepi, folte d’alberi più o meno alti. In questo cumulo di macerie ogni forma artistica è stata cancellata, salvo un colossale triglifo e un frammento di semicolonna d’ugual proporzione
Nel 1928 fu effettuata una campagna di scavi che riportò alla luce diversi reperti, tra cui i resti di quattro telamoni, di cui uno ricostruito interamente
Oggi il tempio è ridotto ad un campo di rovine dalle distruzioni iniziate già nell’antichità e proseguite fino ad epoca moderna. L’aspetto complessivo del tempio è nelle grandi linee noto, ma sussistono ancora molte controversie su particolari importanti della ricostruzione dell’alzato, cui è dedicata un’intera sala del Museo Nazionale.
Il tempio misurava m 112,70 x 56,30 allo stilobate. Su di un poderoso basamento, sormontato da un krepidoma di cinque gradini, si collocava il recinto, con sette semicolonne doriche sui lati corti e quattordici sui lati lunghi, collegate fra loro da un muro continuo e alle quali, all’interno, facevano riscontro altrettanti pilastri. Negli intercolunni di questa pseudo-peristasi o nella cella si suppone fossero appesi dei telamoni alti ben 7,65 metri, che sicuramente non avevano alcuna funzione portante, date le esili proporzioni delle gambe serrate e dei i piedi uniti rispetto al massiccio busto e alle possenti braccia ripiegate dietro la testa. Dubbi sussistono sulla presenza di finestre, intervallate fra i telamoni e le semicolonne, che si pensa dessero luce all’interno della pesudo-peristasi, tra questa e la cella, se il tempio (che nella parte della cella era certamente ipetrale, ossia scoperto) si presentava invece coperto almeno nello spazio degli pteròmata.
La cella era costituita da un muro collegante una serie di dodici pilastri per ciascuno dei lati lunghi, di cui quelli angolari delimitavano gli spazi del pronao e dell’opistodomo, mentre l’ingresso della pseudo-peristasi alla cella stessa era assicurato mediante porte, di numero e di localizzazione incerta, aperte nel muro continuo della pseudo-peristasi. La gigantesca costruzione era interamente realizzata a piccoli blocchi, comprese le colonne, i capitelli, i telamoni e gli architravi, ciò che lascia molte incertezze sull’effettivo sviluppo dell’alzato: per citare alcuni dati certi, oltre alla già ricordata altezza dei telamoni (m 7,65), la trabeazione era alta m 7,48 e il diametro delle colonne era di m 4,30, con scanalature nelle quali – come afferma Diodoro – poteva entrare comodamente un uomo, mentre le colonne dovevano sviluppare un’altezza calcolata tra i 14,50 e i 19,20 m; la superficie copriva un’area di 6340 mq
La descrizione di Diodoro parla di scene della gigantomachia ad est e della guerra di Troia ad ovest. Si è discusso se egli parli di decorazione frontonale o di semplici metope (a Selinunte – ricordiamo – solo le metope del pronao e dell’opistodomo sono decorate), ma la scoperta recente di un attacco tra un torso di guerriero ed una bellissima testa elmata di pieno stile severo (al Museo Nazionale), conferma che il tempio aveva una decorazione marmorea a tutto tondo più compatibile con cavi frontonali che con spazi metopali, di cui si è sempre, in età classica ed ellenistica, avvertita l’originaria funzione di spazio da chiudere, eventualmente dipinto (e la decorazione a rilievo è appunto sostitutiva di quella dipinta).
Di esso restano visibili l’angolo sud-est, due tratti settentrionali della pseudo-peristasi, i piloni del pronao, dell’opistodomo e metà circa del lato nord della cella. Intorno ai resti del basamento si conservano, talora in posizione di caduta, alcune parti dell’alzato, nonché la ricostruzione di un capitello e di un telamone (in calco; l’originale al Museo). Davanti alla fronte orientale è visibile il basamento a pilastri dell’altare, non meno colossale del tempio (54,50 x 17,50 m). Presso l’angolo sud-est del tempio si conserva un piccolo edificio (12,45 x 5,90 m) a due navate con profondo pronao, doppia porta d’accesso ed altare antistante, un sacello piuttosto che un thesauros, di cronologia controversa, secondo alcuni d’età ellenistica, ma molto probabilmente arcaico, viste le numerose terrecotte architettoniche di VI secolo a.C., rinvenute nella zona durante gli scavi di Ettore Gabrici del 1925.
A sud-ovest di questo sacello, lungo la linea delle mura, sono i resti di una stoà del IV secolo a.C., con una vasca intonacata all’estremità orientale e cisterne sulla fronte e alle spalle, da dove proviene materiale votivo d’età timoleontea, mentre resti di un precedente edificio (cui sembrano da riferirsi le cisterne) sono visibili attorno alla cisterna più vicina alle mura
In generale le caratteristiche che emergono dalle ipotesi ricostruttive, sembrano evidenziare come l’Olympieion avesse ben poco a che fare con i canoni dell’architettura greca. Anche se si è voluta vedere, in questa costruzione colossale, influenze di modelli architettonici grandiosi fenicio-cartaginesi in particolare gli edifici ad aula pilastrata, o addirittura egiziani, attualmente si propende per ritenere che il tempio di Zeus frutto dell’intraprendenza e del genio locale, che già aveva dato prove di notevole creatività ed ingegno nella produzione artistica in generale. Infatti anche l’Olympieion come gli altri templi acragantini esprime con forza la concezione, propria dell’ambiente siceliota, dello spazio circoscritto e concluso.
L’imponenza del tempio richiama quella di altri edifici realizzati nelle regioni più ricche e floride del mondo greco, in Asia Minore, e in particolare l’Artemision di Efeso, una delle sette meraviglie del mondo antico, o nel tempio di Apollo a Mileto, a cui l’accomuna carattere ipetrale, ovvero l’assenza di copertura nella parte centrale, dovuta o problemi statici, dovuti alle difficoltà legate al proporre un sistema di copertura per una struttura di tali dimensioni o a particolari esigenze di culto.
Altrettanto peculiari sono i telamoni, il cui più antico, ‘Giganti ‘, è attestato per la prima volta in un anonimo epigramma citato da Fazello dedicato al crollo della parte superstite del tempio nel dicembre del 1401 e da attribuire, con ogni verosimiglianza, a un contemporaneo e che è ripres nel motto (Signat Agrigentlum Mirabilis Aula Gigantum) apposto allo stemma della città.
Questi telamomi sono una caratteristica eccezionalmente insolita e potrebbero essere stati unici ai loro tempi. Sono stati interpretati da alcuni come simbolo della schiavitù greca degli invasori cartaginesi, o sono stati persino attribuiti a influenze egiziane. Joseph Rykwert commenta che
“la vastità del tempio sembra confermare la fama stravagante degli Akragans, il loro amore per le cose insolite e capaci di stupire”.
Di sicuro, come si è detto, essi erano situati all’esterno del tempio e scandivano, a partire da una certa altezza, lo spazio degli intercolumni e, probabilmente poggiando su un ispessimento della parete della pseudo-peristasi o su una cornice continua, sorreggevano la pesante trabeazione aggettante. Tra le ipotesi più recenti vi è quella di Ernesto De Miro, che ha postulato una originaria disposizione divaricata delle gambe dei giganti, con proporzioni simmetriche corrispondenti alla distanza e alla sporgenza delle braccia piegata.
Essi rappresenterebbero iTitani , sconfitti i quali Zeus Olimpio ha conquistato il potere, regnando ora sugli immortali. In questi termini, la sequenza dei Titani sconfitti e puniti attorno al tempio ha il primo inequivocabile carattere di forte asserzione del potere di Zeus. Da una parte rappresentano i Cartaginesi sconfitti, simbolo del caos che si oppone alla razionalità greca; paradossalmente, tale simbologgia troverebbe un parallelo calzante, nel Vicino Oriente, negli esempi achemenidi coevi di figure di nazioni sottomesse e umiliate in guerra collocate a sostegno del trono reale, secondo un’iconografia ben documentata a Persepoli.
Dall’altra, un messaggio all’inquieta città di Akragas: citando Pindaro, che era a libro paga dei tiranni siciliani,la lotta di Zeus, garante dell’ordine olimpio, contro i Titani, artefici del disordine evidenzia il ruolo del committente come garante delI’ordine interno, come ottimo legislatore, contro le intemperanze provocate dalle lamentele dei democratici
Alessio Brugnoli's Blog

