Il Castello di Maredolce
Jaʿfar ibn Abī l-Futūḥ Yūsuf detto Giafar II, nonostante le controverse vicende del suo emirato, la solita pletora di colpi di stato e guerre civili che costellano la Storia della Sicilia Islamica, e le sue stranezze, come il suo proclamarsi Malik, re, perché a quanto pare un intellettuale della sua corte, aveva tradotto i brani di Diodoro Siculo che parlavano di Agatocle di Siracusa, cosa rarissima nel mondo islamico, portò Balam al suo apogeo del benessere economico, commerciale e sociale che si riverberò anche in una fioritura delle arti e della letteratura.
Testimonianza di questo boom fu il Qaṣr Jaʿfar, il palazzo di Jafar, il nostro Castello di Mare, che come dice il nome, era una cittadella fortificata situata alle falde di monte Grifone, probabilmente racchiusa entro una cinta di mura, che oltre al palazzo comprendeva un hammam e una peschiera.
Peschiera, che era alimentata dalla sorgente Fawwarah, che nel 973 quella linguaccia di Ibn Hawqal così descrive
“…scaturiscono intorno a Palermo altre fontane rinomate, le quali recano utilità al paese; come sarebbe il Qadus, e, nella campagna meridionale, la Fawwarah piccola e la grande; la quale sgorga dal naso della Montagna, ed è la più grossa sorgente dell’[agro palermitano]. Servon tutte queste acque a [innaffiare] i giardini.”
Henri Bresc ha calcolato che nel 1419 la portata delle acque della sorgente di Maredolce era di 8 zappe, equivalente a 68,24 l/sec. L’abbondanza della sorgente era talmente famosa a Palermo che Antonio Veneziano, quando dovrà rappresentare le personificazioni dei fiumi e delle acque di Palermo, nella fontana di Piazza Pretoria, rappresenterà anche la sorgente di Maredolce nel personaggio di Ippocrate.
Giafar II probabilmente monumentalizzò questa sorgente con i cosiddetti archi di San Ciro, tre archi, con ghiere in mattoni, all’interno di una struttura in blocchi di tufo, da cui partono tre ambienti, coperti da volte a botte ogivali, che si addentrano nella parete rocciosa della montagna, purtroppo oggi quasi interrati e abbandonati a se stessi
Fase islamica testimoniata dai recenti scavi archeologici, che hanno portato sia alla scoperta del muro di cinta della dell’epoca, sia del suo pavimento in terra battuta: a questo sia aggiungono le testimonianze dell’epoca, a cominciare dal viaggiatore andaluso Ibn Giubayr, giunse a Palermo nel 1184, che in brano, tradotto da Michele Amari, così racconta
Giunti al Qasr Sa‘d («il castello di Sa‘d», oggi la Cannita) che siede aduna parasanga dalla capitale, sentendoci stanchi, ci volgemmo a questo ca-stello e vi passammo la notte. Giace su la costiera: grandioso ed antico di costruzione, ché torna all’epoca della dominazione musulmana nell’isola, è stato e sarà sempre, con la grazia divina, soggiorno di servi di Dio. Questo paese,intorno al quale giacciono molte tombe di Musulmani pii e timorati, è celebre come luogo di grazia e di benedizione; onde vi concorre gente d’ogni parte. Dirimpetto ad esso scaturisce una fonte, che s’addimanda Cayn al Magnûnah (la fonte della spiritata). Il castello è chiuso con una salda porta di ferro: dentro [le mura] son abituri, case e palagi in fila; sì che si può chiamare soggiorno fornito di tutti i comodi.
Nella sommità [si ammira] una moschea delle più splendide del mondo; bislunga, con archi allungati, col pavimento coperto di stuoie pulite, di lavorìo tale che mai non se ne vide più bello. Son appese in questa moschea da quaranta lampade di varie maniere d’ottone e di vetro. Le corre dinanzi una larga strada che gira intorno la sommità del castello: al basso è un pozzo d’acqua dolce. Passammo benissimo e assai dolcemente una notte della detta moschea;dove udimmo l’appello del muezzin, che gran pezza l’avevamo desiderato invano. Molto ci onorarono gli abitatori del castello. Avean essi un imâm che facea con loro le preghiere obbligatorie e il tarawîh (preghiera suppletoria del ramadân) in questo mese santo.Non lungi da Qasr Sa‘d, ad un miglio circa su la via che mena alla capitale, è un altro castello somigliante, che s’addimanda Qasr Ga‘far («il castello di Ga‘far») dentro il quale è un vivaio [nutrito da] una polla d’acqua dolce. Lungo la strada vedemmo delle chiese di Cristiani ordinate [ad ospizi] pe’ malati di lor gente. Nelle città ne hanno essi delle altre alla guisa de’ maristân [spedali] dei Musulmani; che già ne vedemmo ad Acri ed a Tiro; e maravigliammo della cura che ne prendean costoro. Fatta la preghiera del mattino, ci mettemmo per la via di Palermo
Romualdo Salernitano, arcivescovo di tale città, medico e storico, nel suo Chronicon sive Annales, confermò i lavori di ristrutturazione e ampliamento del palazzo da parte di Ruggero II diventando così uno dei “solatii regii”
Intanto il re Ruggero, che tanto in tempo di pace che in tempo di guerra, non sapeva restare ozioso, sicuro della pace e tranquillità del suo regno, ordinò la costruzione a Palermo di un palazzo molto bello e di una cappella incrostata di marmi preziosi e coperta da una cupola dorata, e l’arricchì di vari ornamenti.
E perché a così grande uomo in nessun tempo mancassero le delizie della terra e delle acque, in un luogo chiamato Fabara, tolta molta terra e creata una cavità, fu fatto un bel vivaio nel quale furono immessi pesci di diversa specie, portati da varie regioni. Presso il vivaio il re fece edificare un palazzo molto bello e specioso.
Inoltre fece chiudere con un muro di pietre alcuni terreni montuosi e boschi vicini a Palermo e ordinò che fosse impiantato un parco molto delizioso ed ameno, rendendolo folto di alberi e liberandovi daini, caprioli e cinghiali. Costruì in quel parco un palazzo al quale fece portare l’acqua da una fonte purissima attraverso condotti sotterranei .Così questo uomo saggio e avveduto, fruiva di quelle delizie secondo le condi-zioni del tempo: in inverno e durante la Quaresima dimorava nel palazzo dellaa Fabara dove era grande abbondanza di pesci, in estate temperava l’avvampo del calore estivo soggiornando nel parco e sollevando l’animo affaticato daisuoi impegni con un moderato uso della caccia
La bellezza creata dal paesaggio è evocata dal poeta Abd arRahman, governatore di Trapani, vissuto sotto Ruggero II, che lascia una delle poche testimonianze sull’incantevole paesaggio che circondava il castello di Maredolce
Fawwarah da due mari, tu contenti ogni brama di vita dilettosa
e di magnifica apparenza
Le tue acque diramansi in nove ruscelli: oh bello il corso delle acque così
spartito!
Là dove si congiungono i due mari, là s’affollano le delizie
E sul canal maggiore s’accampa l’ardente desiderio
Oh quanto è bello il lago delle due palme e l’ isola nella quale s’estolle il
gran palagio!
L’acqua limpidissima delle due polle somiglia a liquide perle e il bacino a
un pelago
Par che i rami degli alberi si allunghino per contemplare il pesce nell’acqua
e gli sorridano
Nuota il grosso pesce in quelle chiare onde, e gli uccelli tra quei giardini
modulano il canto;
Le Arance mature dell’isola sembrano fuoco che arde su rami di smeraldo
Il limone giallo rassomiglia all’amante che abbia passato la notte
piangendo per l’assenza (della sua donna)
Le due palme hanno l’aspetto di due amanti che siansi riparati in asilo
inaccessibile, per guardarsi dai nemici
Ovvero sentendosi caduti in sospetto, s’ergan li ritti per confondere i
sussurri e lor ma’pensieri
O palme de’ due mari di Palermo! Che vi rinfreschino continue, non
interrotte mai, copiose rugiade!
Godete la presente fortuna, e che dorman sempre le avversità!
Prosperate con l’aiuto di Dio, date asilo ai cuori teneri, e che nella fida
ombra vostra l’amor viva in pace.
Ugo Falcando (o pseudo Falcando) scrivendo la biografia di Guglielmo II conferma la realizzazione di Ruggero:
…cogitans ut quia pater eius Favariam, Minenium aliaque delectabilia locafecerat, ipse quoque palatium construeret
Beniamino da Tudela, il grande viaggiatore ebraico, ci fa invece sorridere raccontano le stranezze dei re normanni
Da Messina in due giorni di viaggio si arriva a Palermo, una città molto grande. Vi si trova il palazzo di re Guglielmo. In città vivono circa millecinquecento Ebrei, ed un gran numero di Cristiani e di Ismaeliti. È una zona ricca di sorgenti e ruscelli d’acqua, di frumento e orzo, di orti e giardini; non c’è nulla di simile in tutta l’isola di Sicilia.Qui si trovano le proprietà e i giardini del re, chiamati al- Harbina: contengono alberi da frutta di tutti i tipi e una grande fontana, e sono cinti da mura. Hanno costruito là una cisterna, chiamata al-Buhayra, con molte specie di pesci; il re si diverte a navigarci insieme alle sue donne, su barche ricoperte d’oro e d’argento. Nel parco c’è anche un grande palazzo, con mura dipinte e ricoperte d’oro e d’argento; sui pavimenti di marmo risaltano disegni di ogni genere in oro e argento. Da nessuna altra parte c’è un edificio pari a questo.
Il palazzo fu particolarmente apprezzato dagli Svevi, come Enrico VI, come racconta lo stesso Pietro da Eboli
Fabariam veniens, socerum miratus et illum, delectans animos nobilelaudat opus
e da Federico II, che lo preferì al Palazzo Reale, trasferendovi la corte. Di fatto, Maredolce fu il luogo dove, più per hobby che per convinzione, nacque la poesia italiana. Nel 1328, il re Federico III d’Aragona lo cedette ai cavalieri Teutonici della Magione, in cambio di una parte del giardino della Casa della Magione di Palermo. In quest’occasione, il palazzo diventò un ospedale; furono adibiti gli ambienti interni per il ricovero degli ammalati. Nel frattempo, nell’area di Maredolce s’impiantarono numerose coltivazioni di canna da zucchero.
Nel 1460 la struttura fu concessa in enfiteusi alla famiglia siciliana dei Beccadelli di Bologna e nel XVII secolo diventò di proprietà di Francesco Agraz, duca di Castelluccio, al quale si affiancò la famiglia Lo Giudice come comproprietaria. Mantenendo sempre la funzione di azienda agricola, il duca di Castelluccio fece eseguire dall’architetto Cadorna alcuni lavori di manutenzione per meglio adattarlo a tale proposito. Il lago di Maredolce, diventato già da qualche tempo una malsana laguna, venne prosciugato del tutto lasciando posto alle coltivazioni di agrumi, tra le prime in Sicilia.
A tal proposito abbiamo la testimonianza del Mongitore
“Oggi non vi è più questo lago, perché senz’acqua, ma si vede chiaramente il suo sito, e le mura in alcune parti colorite di rosso, de’ quali era circondata, e ristretta l’acqua. Si vedono tuttavia ne’ suoi angoli alcuni scalini di pietra, per li quali in esso scendevasi, e alcuni anelli di ferro, a’quali s’attraccavano le gondole reali: il che ho più volte osservato. Ora ove eran l’acque sono alberi fruttiferi.”
Ricordiamo infatti che la coltivazione diffusa degli agrumi, in Sicilia, cosa che può lasciare perplessi, perchè nell’immaginario la associamo al profumo della zagare, è assai tardiva, cominciando a fine Settecento. Sono con i Borboni Conca d’Oro diventa un unico grande agrumeto, tanto che lo scrittore Guy del Maupassant la descrisse come la “foresta profumata”: finalmente gli agrumi potevano arrivare freschi a Londra e Parigi, e, dai primi del ‘900 anche in America (la stessa sostituzione delle viti e degli ulivi a favore degli agrumi si verificò, nello stesso periodo, anche in Liguria).
All’inizio, si coltiva, in monocultura, l’arancio (Citrus sinensis), fino a che, nel 1850 arancio scoppia una grave epidemia di Phytophthora, che provoca il marciume delle piante. Subentra allora il limone (Citrus x limon), che a sua vola ha un grande successo per altri 50 anni, in particolare dopo che, nel 1875, venne quasi per caso scoperto la pratica della forzatura (assetandolo per poi bagnarlo in abbondanza), così da produrre frutti anche in estate, i cosiddetti “verdelli”.
Un’epidemia di Phoma tracheiphila distrugge i limoneti, che vengono sostituiti, verso i primi del Novecento, dall’ultimo agrume importante arrivato in Europa dalla Cina, a inizio Ottocento: il mandarino (Citrus reticulata), giunto prima nei Kew Garden di Londra, dove era utilizzato come pianta ornamentale da serra, da qui venne inviato a Malta per la produzione dei frutti e da Malta arrivò Palermo).
All’inizio si coltiva mandarino ‘Avana’, così chiamato per il colore della buccia matura, simile a quello dei sigari cubani, i cui frutti maturano in dicembre. Poi, negli anni ‘Cinquanta nella zona di Ciaculli, venne individuata una mutazione naturale che matura a febbraio, utilizzando il freddo per avere un contenuto di zuccheri maggiore, e che inoltre contiene meno semi: battezzata mandarino “Tardivo di Ciaculli” e quella ancora presente in ciò che rimane degli agrumeti della Conca d’Oro, proprio in corrispondenza di Mardedolce.
Verso la fine del XIX secolo il castello divenne proprietà di due importanti famiglie: Conti e Castellana, originarie rispettivamente di Palermo e di Vicari. La strada ove è ubicato il castello venne dedicata al proprietario di allora: il cavaliere Salvatore Conti, vicesindaco di Palermo. Oggi, la medesima prende il nome di via Emiro Giafar, in ricordo del primo costruttore e proprietario. Il castello di Maredolce appartenne alla famiglia Castellana sino al secondo dopoguerra. Ne conseguì poi un progressivo degrado ed abbandono frutto anche delle numerose forme di abusivismo che si susseguirono nel corso dei successivi decenni. Nel 1992 la Regione Siciliana ha acquisito per esproprio l’edificio e iniziato i lavori di restauro tramite la soprintendenza nel 2007.
Il palazzo, che ai tempo dei normanni doveva svilupparsi, con due elevazioni, intorno ad una vasta corte a “L”, con portici coperti da volte a crociera, ha forma rettangolare e misura m 55 x m 46,50, con una rientranza nell’angolo est. L’intera costruzione si sviluppa attorno ad un cortile pressoché quadrangolare circondato, sui lati, da un portico, di cui rimangono le tracce dei gioghi delle volte lungo le pareti. L’esterno del palazzo si presenta come un blocco volumetrico, costituito da un basamento di grossi blocchi in tufo, disposti su tre filari nei prospetti sudovest, sud-est e nord-est, mentre nel prospetto nord-ovest sono distribuiti su otto filari. Questo basamento, ad eccezione del lato nord-ovest, era bagnato probabilmente dall’acqua di Maredolce e, per questo motivo, è stato coperto da vari strati di intonaco idraulico, misto a polvere di laterizio, che garantiva l’impermeabilità della struttura.
Sopra il basamento, le pareti sono state realizzate con conci di tufo di piccole dimensioni, disposti fino ad un’altezza max di 10 m. La compatta massa muraria è alleggerita da eleganti e slanciate arcate a sesto leggermente acuto, con piano interno rientrato ed una finestra a feritoia al centro, ispirate all’architettura araba.
Il lato d’ingresso al palazzo è situato sul fronte nord-ovest, in cui si aprono quattro grandi porte. Dalla seconda porta, a sinistra, si accede al cortile interno, attraverso un percorso a gomito. La terza porta costituisce l’ingresso alla cappella del palazzo. La quarta porta d’ingresso immette in una sala rettangolare caratterizzata, sulla parete sud-est, dalla presenza di un’alcova conclusa superiormente da una nicchia a conchiglia che richiama le nicchie del palazzo dello Scibene e di Caronia, di ascendenza persiana. A questa sala si addossa perpendicolarmente, lungo la parete sud-ovest, un altro ambiente più vasto che presenta, nella parete sud-est, un leggero restringimento con un rincasso agli angoli mentre, alla sommità, una semplice cornice sporgente sormontata da tre muqarnas ne costituisce una raffinata decorazione; infine, data la particolare configurazione, la decorazione e l’orientamento di questa ultima sala, si può ipotizzare che fosse la sala del trono (Majlis).
Da questa sala si sviluppa, lungo tutto il lato sud-ovest, una serie di piccoli ambienti che si dispongono lungo tutto il perimetro del cortile, caratterizzando così l’impianto. Questa successione di ambienti si interrompe lungo lo spigolo sud per lasciar posto ad un altro ambiente di maggior volume che, come gli altri, si evidenzia dall’esterno per la maggiore altezza.Questa grande sala, chiamata Sala dell’Imbarcadero, presenta sul fronte sudest un grande varco che si apriva sulla Peschiera di Maredolce. Una simile distribuzione degli spazi è probabilmente derivata dei “ribat” dell’architettura islamica, veri e propri conventi fortificati che ospitavano i combattenti della fede musulmana, che sappiamo essere stati molto diffusi a Balarm.
Non conosciamo la dedica originale della Cappella Palatina, che forse sorgeva sul luogo della precedente moschea: solo in età aragonese, è infatti consacrata ai santi Filippo e Giacomo, come citato in diploma del 1274 conservato nel Tabulario della Cappella Palatina. . Anche nel Quaterno delle gabelle della città di Palermo, del 1312, si parla della “Ecclesia sanctorum Philippi et Iacobi de Fabaria”.
Strutturalmente, la cappella è composta di una navata unica (m 8 x m 5), coperta da due volte a crociera, con transetto non aggettante sormontato da una cupola semisferica. Un arco trionfale separa il presbiterio dalla navata.La parte presbiteriale è costituita dall’abside centrale e da due nicchie laterali, la protesi ed il diaconico; ai lati si aprono due bracci coperti da due volte a crociera, ognuno dei quali presenta una nicchia. Le pareti conservano ancora le tracce di affreschi andati, purtroppo, perduti ma ancora visibili ai tempi di Mongitore e del Di Giovanni (secc. XVIII-XIX). Al centro si eleva la cupola semisferica che si sovrappone al quadrato del presbiterio mediante quattro raccordi angolari a nicchia che, alternati ad altre quattro piccole finestre ogivali, formano una base ottagonale e facilitano il passaggio dalla base quadrangolare a quella circolare della cupola. A fianco del tamburo, tra questo e la parte del muro di prospetto, è ricavato un piccolo ambiente che probabilmente accoglieva la campana.
La cappella si ricollega alla tradizione delle chiese calabro normanne, con la differenza della cupola, sempre ispirata all’arte araba, con il perfetto passaggio tra la base quadrata a quella ottagonale delle nicchie, che viene coronata dalla base circolare della cupola, coronando elegantemente il presbiterio.
Il complesso di Maredolce comprendeva anche un hammam, o sala termale, posto all’esterno del palazzo, quasi attaccato all’angolo nord-est. La sala termale è una struttura ereditata dal mondo greco-romano; questa comprendeva una stanza riscaldata (laconicum), una stanza più calda con una vasca per i bagni caldi (calidarium) ed un stanza più fredda, con vasca per i bagni freddi (frigidarium)
L’hammam del palazzo della Fawwarah era chiaramente visibile fino alla metà del XIX secolo ma, in poco tempo, fu inglobato in una palazzina privata che tutt’oggi ne nasconde la struttura. Sull’edificio resta un disegno a penna eseguito da Vincenzo Auria che lo raffigura come una struttura coperta da cupole. Andrea Pigonati ne rappresenta, invece, una pianta dettagliata. Gaspare Palermo lo vede ancora nel 1816
Alcune descrizioni particolareggiate vengono fatte dai viaggiatori del XIX secolo, tra le quali la più completa è quella di Goldschmidt, risalente al 1898:
La costruzione oltre le tre celle, larghe da 2 a 3 metri, ed il corridoio longitudinale, largo m 1, conteneva un ambiente più grande con grotte artificiali. Le celle avevano piccoli pilastri di terracotta, coprivano un ambiente vuoto, l’ipocausto. Sopra alla parete passava un lungo tubo in terracotta, dal quale discendevano otto simili tubi lungo la parete lunga e quattro lungo i lati corti nell’ipocausto per condurre l’aria calda che serviva a riscaldare l’acqua
ciò conferma che l’antica ”Portae Thermarum” (Porta Termini), aveva preso questo nome , non per la città di Termini, ma per le terme di Maredolce, che si trovavano distanti qualche miglio da Palermo.
Alessio Brugnoli's Blog

