Nessuno ti conosce così bene come me - Parte Prima

Qui non ci sono nato, è quasi certo; dove son nato non lo so; non c’è da queste parti una casa né un pezzo di terra né delle ossa ch’io possa dire «Ecco cos’ero prima di nascere» (Cesare Pavese – La luna e i falò)
Nessuno ti conosce così bene come me. Le disse.
Lei lo guardò. Senza espressione. Solo uggiolì: uh uh.
Erano sdraiati sul letto.
Fuori era nebbione.
Lei aveva pianto.
Lui le aveva detto: il mio compito prima di morire è far sì che tu e le tue figlie non abbiate problemi quando io non ci sarò più.
Lei aveva pianto. Il sabato e la domenica piangeva sempre.
Era un dramma.
Anche quel sabato il dramma cominciava.
Perché piangi? le chiese.
Ma tu non vuoi vivere con me? Tu vuoi morire? Gli aveva risposto.
Sì, lui voleva morire. In quel mondo non aveva più senso vivere. Era un mondo di vermi che si rivoltolano uno sull’altro.
Ma non ora. Ancora era presto.
Doveva aspettare. Aspettare che le cose si mettessero a posto.
Se lui era lì, davanti ai suoi occhi, a chi doveva dire grazie se non a se stesso?
A parte i genitori da cui aveva ricevuto pelle sangue e ossa, a chi altro doveva dire grazie? No, non gli veniva il nome di nessuno.
Un nome gli veniva, invero, ma non era di questo mondo. Ma ora voleva sospendere quel nome, non dimenticarlo, solo sospenderlo. Voleva vedere se l' uomo può vivere di sola carne, sospendendo lo spirito.
E le loro carni erano vicine in quel letto. Si toccavano. Sentivano il calore dei corpi che li univa.
E allora lui era lì e non doveva dire grazie che a se stesso, e allora poteva anche decidere di morire, quando voleva.
Sapeva che il pianto le lavava il dolore dentro. E la lasciò piangere anche se disse: non piangere.
Eppure in quel letto non erano soli.
Lui sentiva il peso di tutti quelli che avevano costruito la sua vita, che magari nemmeno poteva citare o rammentare. Ma erano tanti quelli che aveva incontrato che aveva permesso che entrassero in lui e qualcosa gli avevano lasciato, sebbene non sapesse che. Ma non doveva dire grazie a loro. Era lui che li aveva fissati e mantenuti vivi.
E allora capì perché si sentiva senza terra sotto i piedi, senza passato. Anche loro, le tracce che di loro lui aveva fissato in sé, anche loro erano come lui, stranieri in quella terra dove era venuto a vivere.
Non erano nati in quel posto, non lo avevano nel sangue, e il cibo che mangiavano e l’aria che respiravano e il sole la pioggia il vento di quel mondo non erano quelli in cui erano cresciuti e vissuti.
Erano stranieri. Erano senza storia, senza passato. Come lui. Attaccati ai fili dello stesso universo.
E loro lo aspettavano. Ma capivano e non lo forzavano.
Non voglio morire, le disse allora. Ma dovrò morire. Tutti muoiono. Anche tu morirai. E spero che sarà dopo di me. Tu sei più giovane, ed è giusto che tu viva ancora e ti goda la vita, se questa vita veramente può essere goduta. Ormai è solo uno stato di polizia, dove vive bene chi fa delazioni e vive da verme contento di quel poco che gli viene concesso nel letamaio dove si aggroviglia quotidianamente. Per viverci bene in quel letamaio non bisogna mai uscirne. La gioia, quella vera, è dannata. La parola di Dio abolita. E’ solo carne, che puzza, in quel letamaio.
Ora il mondo è in mano ai pazzi. Ma ce ne fosse uno che si alzasse e dicesse: ma che stiamo facendo? Ma siamo impazziti? Abbiamo perso il senso non dico della ragione ma anche quello comune?
Tutti sono dentro un meccanismo che ripete lo stesso ticchettìo. Rotelle di un unico ingranaggio, che si muovono tutte nella stessa direzione. Per questo il mondo è impazzito. Per far si che l’universo si muova in modo corretto c’è bisogno di un motore che si gira immobile su se stesso in senso opposto al moto della massa.
Lui la guardava. Era perfetta, nel suo dolore. Era perfetta nei suoi pensieri. Era perfetta nei suoi giorni.
Perché piangi? le chiese
Non lo so. Rispose.
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Published on May 15, 2021 02:34
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