L’ex carcere delle Benedettine

[image error]Carcere delle Benedettine



Da quanto sappiamo dai documenti storici, le prime famiglie rom giunsero via mare nel regno di Napoli a inizio Quattrocento, come profughi in fuga dai territori bizantini, a causa delle invasioni turche. I primi stanziamenti furono in Abruzzo: da lì, si spostarono progressivamente verso sud. Intorno al 1422, giungono in Grecanica e dopo una decina d’anni, traversano lo Stretto di Messina, dove sin da subito, sono integrati nelle società locale, ottenendo dalle autorità locale lo status di «nazione» riconosciuta, con autonomia giudiziaria, ossia il diritto di essere giudicati, in caso di controversie giudiziarie, secondo le proprie consuetudini.





Nel 1474 due capitribù si sposano con donne di Messina e diventano anche loro cittadini messinesi, assieme ai loro parenti ottengono il privilegio di «discorrere», cioè viaggiare per il Regno. Le cose cambiano nel 1492, a seguito della cacciata degli ebrei dalla Sicilia: i rom locali li sostituiscono in alcune attività economiche.





Di fatto, ottengono il monopolio delle attività di fabbro e calderario: il loro successo in tale campo è tale che le loro botteghe sono riconosciute e integrate nei regolamenti delle corporazione cittadine. Questo impatta notevolmente sulle abitudini dei rom siciliani. Da una parte, li costringe a una parziale sedentarizzazione: gran parte dell’anno la trascorrono lavorando in bottega, mentre l’estate si trasformano in fabbri itineranti per le varie fiere siciliane.





Dall’altra, il loro inurbamento a Palermo, dove addirittura fondano una loro contrada nell’Albergheria, coincidente l’area attualmente compresa tra vicolo Mercurio, vicolo degli Zingari, Largo Michele Gerbasi e via dei Benedettini





Sappiamo da Gioacchino Di Marzo, storico ottocentesco, avessero l’abitudine di lavorare per i vicoli di quell’area, posta dinanzi San Mercuzio, con un’incudine poco elevata da terra. Cosa che costrinse le autorità palermitane a emettere, nei secoli, una serie di leggi, che, con la sensibilità di oggi, chiameremmo antinfortunistiche.





L’ultimo di questi decreti fu emanato il 24 luglio 1849, specificando





i così dette (sic) zingari non possono situarsi a lavorare nelle strade e nei luoghi pubblici ma nei piani designati con licenza del Senatore, con dover apporre innanzi la forgia il parafuoco, onde non recar danno al Pubblico, ciò che deve espressarsi nella licenza





Essendo quindi una delle tante componenti della società, come abitudine locale, dovettero organizzarsi nella loro associazione di categoria, che svolgeva il ruolo sia di sindacato, sia di confraternita religiosa: per volontà del padre gesuita Luigi Lanuza che si prendeva cura di essi ed era divenuto il loro predicatore, nei primi anni del Seicento i rom palermitani costituiscono la “Congregazione di Gesù e Maria dè Cingari”.





A partire dal 7 aprile 1680, ottenuta la concessione di un terreno da Pietro Diez, costruirono poi la chiesa della “Madonna che va in Egitto”, come a rappresentare la loro situazione di immigrati. Alla posa della prima pietra presenziò lo stesso D. Pietro Diez al suono di tamburi e spari di mortaretti. Chiesa che esiste ancora oggi, dalla facciata molto semplice, al cui interno si conserva una tela settecentesca, raffigurante Gesù e Maria, copia dell’omonimo dipinto di Borremans nella chiesa di Sant’Isidoro, e un gruppo ligneo policromo con la Fuga in Egitto (secolo XVIII).





Grazie poi al solito Mongitore veniamo a sapere che in un angolo, a sinistra della spaziosa piazza della Cattedrale di Palermo si trova, dipinta sul muro, una immagine, opera del famoso pittore palermitano Giuseppe Albina detto il Sozzo, raffigurante la Vergine con il Bambino nell’atto di allattarlo. L’immagine, risalente al 1604 e restaurata rozzamente nel 1685, era molto venerata, oltre che dagli zingari, dai palermitani, che passando da lì le rivolgevano sempre qualche preghiera, incominciò a dispensare grazie nel 1697.





La prima che se ne sappia fu in beneficio d’una povera Zingana, che un giorno portatasi dinnanzi a questa Sacratissima Immagine, cominciò a dirottamente piangere; accompagnando le lagrime con lamenti, e singhiozzi; onde movea la compassione all’udirla: e stimavan tutti inconsolabile il suo dolore. Richiesta da colui, che costumava accendere la lampana [votiva] alla Vergine della cagione del suo largo pianto, con voce interrotta dalle lagrime ne rese la ragione con dire: Eh, come non volete ch’io pianga, e mi lamenti, se alcuni buoni Cristiani han condannato mio marito alla galea, ed io so di certo, che vi sta ingiustamente». […] Vi furono alcuni, che commossi alle lagrime dell’infelice Zingana tentaron l’impresa di far riveder la causa del misero marito già condennato […]. Ciò che non poteron però uomini di qualità, potè agevolmente la stessa Zingana, avvalorata dalla protezion di Maria […].





Andò dunque un giorno a gettarsi a’ piedi del Generale delle galee, a cui espose le ragioni del condennato marito: e tanto disse, e allegò con lagrime copiose a favor di esso, con le parole postele in bocca dalla Gran Madre, che il Generale, commosso al suo pianto, e intenerito a pietà per li stimoli interni, co’ quali punse il suo cuore la Vergine, le promise la grazia. […] Quindi amendue [la zingana con il marito, n.d.r.] riconoscendo dalla Vergine la liberazione, andarono a rendere le dovute grazie davanti alla Sacrosanta Immagine. Anzi il Zingano in testimonio dell’ottenuta libertà, lasciò ivi appesa una catena di ferro, insieme con un pajo di ceppi, somiglianti a quelli, che il tenean ristretto sulla galea.





Le voci di giubilo, che levaron alto i due Zingani in ringraziamento dell’ottenuto favore, e le lagrime, che per soprabbondare allegrezza versarono a’ piedi di Maria, tirarono un gran concorso di gente d’ogni condizione […]





Ora agli inizi del 1700 a Palermo, per la crisi economica, c’è una sorta di boom della prostituzione. Per contrastarlo, le autorità inizialmente decisero di emanare una serie di regolamenti repressivi: alle “malefemmine” era vietato circolare dopo il tramonto del sole. Non era permesso sedere davanti alle chiese o ripararsi sotto i tendoni dei mercati neppure per chiedere l’elemosina. In caso di violazione di tale regole, la punizione prevista era severissima: otto frustate e rasatura dei capelli alla prima trasgressione; venti frustate e rasatura delle ciglia alle recidive.





Questo norme, ovviamente, ebbero uno scarsissimo impatto: per cui, per risolvere il problema, si decise di ricorrere allo strumento del welfare. Intorno al 1749, Monsignor Isidoro del Castillo, un aristocratico che aveva preso i voti ed era parroco della chiesa san Nicolò all’Albergheria, decide di fondare un ospizio in cui le prostitute, potessero trovare ed un luogo dove potere redimersi imparando un mestiere, tra vicolo degli Zingari e Largo Gerbasi





Fallito il sodalizio con notabili ed ecclesiastici del tempo, Isidoro Castillo non si arrende, si spoglia di molti dei suoi beni e raccoglie elemosine al fine di costruire un Istituto che raccolga queste donne, chiamandolo: Casa di Maria Santissima delle Abbandonate o Casa di Istruzione ed Emenda, benché nel corso degli anni l’Istituto abbia cambiato più volte il nome, diventando ad esempio Casa di Nostra Signora Derelitta o Reclusorio di Cozzo, quest’ultimo dal nome di don Giuseppe Cozzo, canonico della Cattedrale che prendendo a cuore l’Istituto e contribuito al suo ampliamento ed alla fabbrica della nuova Chiesa, poi inglobata e destinata ad altri usi.





Tuttavia, per la contrada in cui era stato costruito, è noto soprattutto come Ritiro delle Zingare, anche se le donne rom, anche se non era destinato a loro. Nel 1774 il parroco Isidoro muore, ma l’Istituto aveva cominciato a funzionare così l’opera pia viene continuata dal Governo sotto la custodia di quattro deputati.





Il complesso è nel tempo ingrandito, a forma di trapezio irregolare, assumendo il suo aspetto massiccio a due elevazioni e nessun fregio o decoro architettonico. Tuttavia con i numerosi locali, il cortile interno ed un giardino nel retro, accoglie le donne che scegliendo di cambiare vita, erano occupate con lavori manuali di cucito, tessitura e ricamo.





Come ricorda Gaspare Palermo nella sua “Guida Istruttiva…”:





durante le feste solenni o durante la Settimana Santa, le derelitte prostitute si ritiravano in questo luogo a spese dei benefattori. Tempo di preghiera, esercizi spirituali e penitenza, dopo tre giorni erano libere di andarsene, benché molte, desiderose di ravvedersi, rimanevano nell’Istituto.





La Rivista Europea, nel dare notizia del decesso della nobildonna Eleonora Statella, duchessa di Sammartino, avvenuta, per colera, il 2 luglio 1837, informa i lettori che gran parte del suo patrimonio fu devoluto a





elemosine dei poveri ed al Reclusorio delle zingare, per soccorrere alcune ragazze da lei tolte dalla vita povera e vagante e raccolte a sue spese in quell’asilo





Il primo decreto, n° 9949 datato Napoli 29 gennaio 1846, autorizza:





il Ritiro di donne sotto il titolo degli zingari in Palermo ad accettare la donazione tra vivi disposta in suo favore da D. Gabriele Raibandi con atto de’ 28 di agosto 1845 pel notajo Giuseppe Maria Terranova; salvo i diritti de’ terzi e l’esecuzione de’ pesi imposti, che saranno notati nella platea del Ritiro





Il secondo, n. 3165 con data Gaeta 5 luglio 1852, recita:





Decreto che accorda il sovrano beneplacito al ritiro delle zingare in Palermo per accettare il
disposto in pro del medesimo da D. Giuseppe Carabotta con testamento de’ 28 di aprile 1851 presso il notajo Francesco Anelli, dovendosi adempiere agli obblighi impositivi, de’ quali sarà preso notamento nella chiesa del ritiro, e ciò salvo i diritti de’ terzi





Nel 1878 la gestione viene affidata alle suore del Buon Pastore che avevano il ministero di occuparsi di giovani donne in difficoltà, come recita una lapide di marmo posta all’ingresso:





Casa di Istruzione ed Emenda diretta dalle Suore del Buon Pastore”





Successivamente e per alcuni anni, l’uso dei locali è condiviso ed un’ala è destinata a carcere minorile finché non divenne definitivamente penitenziario femminile col nome popolare di “Carcere delle Benedettine” come la maggior parte dei palermitani lo conosce, perché l’edificio insiste proprio sulla via dei Benedettini.





Nel 1982 il Carcere è chiuso per le precarie condizioni statiche e funzionali e le recluse sono trasferite a Termini Imerese; nel 1984 è aperto nel parlatorio un negozio di oggetti di artigianato siciliano, ma soltanto per due anni. Intorno al 2000 è occupato da militanti del PCL (Partito Comunista dei lavoratori) per trasformarlo in Centro Sociale, denominato “Ex Carcere“.





Nel frattempo Il 10 Ottobre 2008 l’IPAB Opera Pia Reclusori Femminili vende l’Immobile alla Fondazione CEUR, nata a Bologna nel 1990, finalizzata alla formazione e alla cultura. Dopo uno sgombero forzato l’ex carcere è riconsegnato all’ Opera Pia, per essere nuovamente occupato il 20 Febbraio del 2009.





Il 21 febbraio 2014 la fondazione CEUR comincia i lavori di ristrutturazione che terminano nel 2016, trasformando il tutto nel collegio universitario Camplus con aule di studio, sale multimediali, palestra e diversi spazi di socializzazione tra cui un auditorium, cucina, mensa e 110 posti letto situati nei due piani superiori.

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Published on July 18, 2020 05:39
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Alessio Brugnoli
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