L’oratorio dei Sette Dormienti


Su via di Porta San Sebastiano, al numero civico 7, vi è un oratorio dedicato ai Sette Dormienti, i protagonisti di una leggende cristiana tanto diffusa nell’alto Medioevo, da essere persino citata, o meglio parafrasata, dalla Sura XVIII del Corano.


Questa narra come, durante la persecuzione dell’Imperatore Decio, alcuni giovani cristiani di Efeso decidessero di fuggire dalla città e di nascondersi in una grotta sulle pendici del monte Pion. Ogni sera, uno di loro, di nome Malco, travestito da mendicante, scendeva in città, sia per capire che aria tirasse, sia per rimediare acqua e cibo.


Per loro sfortuna, un oste di Efeso, allettato dalla promessa di una ricompensa, fece la spia all’Imperatore, il quale, visto che i giovani non volevano uscire dalla grotta, decise di murarne l’ingresso, convinto che così morissero di fame.


Ma i giovani tanto pregarono, da cadere rapidamente preda di un sonno miracoloso: i loro confratelli, non avendo più notizie, li considerarono morti e cominciarono a venerarli come martiri. Quasi 200 anni dopo a Costantinopoli regnò l’Imperatore Teodosio II, di fede cristiana, ma attraversato da atroci dubbi: non riusciva a credere nella resurrezione dei corpi. Proprio allora un umile pastore di Efeso, per divina ispirazione, condusse il suo Vescovo davanti alla grotta e fece abbattere, col suo permesso, il muro che la chiudeva; i dormienti si risvegliarono, credendo di aver dormito una sola notte. Il prelato allora avverti Teodosio e come racconta la Leggende Aurea


sì tosto come i sette ebbero veduto lo Imperatore, risplendettero le facce come sole, ed entrato lo Imperatore, gittossi dinanzi ai piedi loro, glorificando Iddio… Allora disse uno de’ Santi:


“Credi a noi che a le tue cagioni ci ha risuscitato il Signore, innanzi al gran dì de la resurrezione, acciò che tu creda senza verun dubbio”


E dette queste cose, veggendo tutti quanti, inchinarono i capi in terra e dormirono in pace, e renderono gli spiriti loro secondo il comandamento di Dio


L’oratorio, in verità, come tanti luoghi sull’Appia Antica, ha una lunga storia di ristrutturazione e cambi di destinazione d’uso. Alla prima fase, l’epoca tardo repubblicana, risalgono due tombe monumentali, costruite in blocchi squadrati di peperino, poggianti su un basamento in travertino. Tombe che appartengono alla tipologia “sepolcri a dado”, il cui aspetto poteva essere simile a un mausoleo presente proprio all’Esquilino, a Piazza di Porta Maggiore, simile per dimensioni e materiali.


E possiamo ipotizzare come fosse simile anche la decorazione, consistente in un fregio dorico con teste bovine, rosette e margherite a bassorilievo, sormontato forse da un altro coronamento. In entrambi i casi, doveva essere presente un’iscrizione che lodava le virtù del defunto e forse anche una statua, per eternarne l’aspetto.


Ora, il rapporto tra le tombe e il paesaggio circostante va inquadrato nell’ambito della ricostruzione del tracciato originario dell’Appia repubblicana, tuttora sconosciuto. Nel tratto occupato dalle sepolture la via probabilmente correva più ad est dell’attuale via di Porta San Sebastiano, coerentemente con altre testimonianze coeve, come il complesso degli Scipioni o il sepolcro repubblicano di Vigna Codini.


In epoca giulio – claudia davanti alle due tombe fu costruito un piccolo colombario, che nascose le tombe più antiche e al quale si accedeva probabilmente da un diverticolo del nuovo tracciato dell’Appia, voluto da Tiberio.


Piccola divagazione, prima di continuare: per chi non lo sapesse, il colombario era un tipo di costruzione funeraria molto diffusa fra i romani come forma di tumulazione collettiva, l’equivalente antico della nostra tomba a fornetti.


Il colombario è costruito in mattoni lasciati a vista all’esterno e intonacati all’interno; è andata distrutta la copertura a volta, in conglomerato cementizio, di cui rimangono alcune tracce dell’attacco sulle pareti, e la parte di muratura sovrastante la porta.


Al colombario si accedeva da una apertura piuttosto stretta con una soglia in marmo ancora in situ; all’interno l’edificio era diviso in due ambienti da un muro trasversale, che oggi si conserva fino all’altezza di cm 65 dal piano di calpestio, ma che originariamente doveva arrivare fino al soffitto, come indica l’assenza di intonaco sulla parete di appoggio per tutta l’altezza dell’ambiente.


Lungo le pareti maggiori e per un tratto della parete di ingresso corrono dei banconi in muratura di laterizi intonacati, mentre al centro della parete di fondo è addossato un podio a due ripiani. Il pavimento è realizzato in mosaico a tessere bianche e nere con una decorazione a tappeti geometrici.


Nella parete di fondo, in posizione centrale, si apre una grande nicchia contenente un’olla e fiancheggiata da due lesene leggermente strombate; questa edicola costituisce il fulcro dell’organizzazione architettonico – decorativa del piccolo ambiente ed è infatti sottolineata da una decorazione dipinta di colore rosso.


La decorazione è completata anche dalla presenza di un un riquadro con un paesaggio sacrale, in stucco in cui spiccano un recinto disposto su due livelli, una colonna, un albero e probabilmente una fiaccola: si tratta di un motivo ispirato alla pittura di paesaggi miniaturistici tipica del secondo, ma soprattutto del terzo stile e che si rifà a sua volta ai ben noti paesaggi di grandi dimensioni rappresentati nella casa di Augusto o nel triclinio della casa di Livia.


In ambito funerario le attestazioni più significative si riscontrano nelle pitture e negli stucchi del colombario di Villa Doria Pamphili o nei ben noti stucchi della basilica funeraria ipogea sotto Porta Maggiore. Ora il colombario dei Sette Dormienti per le sue caratteristiche architettoniche e le sue ridotte dimensioni sembra configurarsi come un colombario di una famiglia alto borghese dell’epoca.


Ad un periodo successivo, da collocarsi nella media età imperiale, sembrano potersi ricondurre un insieme di tracce, che vediamo sparse all’interno del complesso: due soglie in pietra molto vicine tra loro prospicienti il basolato della strada, lacerti di alcune pavimentazioni musive non in situ ed una vasca, ancora in posto, pavimentata a mosaico, nonché un piccolo e variegato gruppo di iscrizioni funerarie.


Il mosaico citato rappresenta, con tessere bianche e nere, atleti che lottano tra di loro, contraddistinti da nomi ancora in parte leggibili. E’ ben distinguibile, nella parte alta, un personaggio nell’atto di consegnare il premio al vincitore,


Il tutto farebbe pensare un insieme di ambienti probabilmente a carattere residenziale e/o termale in stretta connessione con il tracciato della strada, cosa che potrebbe anche testimoniata anche dalle fonti: la Notitia attesta nella Regio I un balneum Bolani, ossia delle terme private fatte costruire da un membro della famiglia dei Vettii Bolani, ascesa agli onori del consolato una prima volta in età neroniana (66 d.C.),con il console M. Vettius Bolanus, e una seconda volta durante il regno di Traiano (111 d.C.), con il figlio omonimo.


Intorno al VI secolo, parti dei resti del presunto balneum Bolani furono trasformate nell’oratorio, che fu decorato da affreschi. La più antica fonte scritta che ne attesta l’esistenza è il Catalogo di Torino del 1313, nel quale è indicato come ecclesia Sancti Archangeli ed è elencato in ordine topografico tra le chiese di S. Cesareo in Turri e S. Giovanni a porta Latina, poste rispettivamente a nord e a sud.  La dedica dell’edificio ai Santi orientali è attestata invece per la prima volta nel 1757, quando Alberto Cassio attribuisce al pontefice Clemente XI nel 1710 la decisione di restaurarlo.


In una fase successiva, l’oratorio fu sconsacrato e trasformato in un deposito di formaggi per un vicino casale della vigna Pallavicini; nel 1875, Mariano Armellini, il grande studioso di archeologia cristiana, autore de Le Chiese di Roma, lo riscoprì per pura cosa. Così Mariano commentò il ritrovamento


È un oratorio che fu dedicato all’Arcangelo s. Gabriele, del quale rimane nella nicchia di fondo l’imagine in figura d’orante colle braccia aperte, e sotto alla imagine v’è il suo nome: Gabriel. È veramente deplorevole che un monumento così insigne per la storia del culto e per le pitture che ne adornano tuttora le pareti, giaccia abbandonato e ridotto ad uso di cellaio campestre e deposito d’immondizie


Della decorazione originaria dell’oratorio è ancora leggibile quella dell’abside, in cui è rappresentato un Cristo Pantocrator, all’interno della lunetta superiore, nell’atto di benedire; alla sua sinistra e alla sua destra vi sono due schiere di Angeli con le ali distese e in atto di ossequio; al lato degli angeli vi sono due figure, a sinistra un uomo con barba e un nome scritto, quello di Beno, a destra una figura femminile, quasi sicuramente i committenti dell’opera. Più in basso, sulla sinistra compaiono le figure di tre Santi mentre sulla destra s’intravedono quelle di tre Sante. L’arcangelo Gabriele è invece rappresentato al centro di una nicchia semisferica, con le braccia aperte in posizione orante. Infine sulla parete di destra, rispetto all’ingresso s’intravedono varie figure tra cui: un monaco, due Angeli e vari Santi non ben distinguibili.

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Published on February 26, 2020 13:36
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Alessio Brugnoli
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