Tornando a parlare della Pietra di Palermo

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Poco tempo fa, ho parlato della Pietra di Palermo: da pochi giorni, però, grazie a un progetto di ricerca dell’università Carlo IV di Praga, guidato dall’egittologo italiano Massimiliano Nuzzolo, assieme ai colleghi Kathryn Piquette, della University College di Londra, e Mohamed Osman, della Free University di Berlino, ha ampliato la ricerca non solo al frammento conservato al Museo Salinas, ma anche su altri, più piccoli, che sono custoditi al museo del Cairo (5 frammenti, molto piccoli, tranne uno, il cosiddetto “Cairo Fragment 1”, che ha pressappoco le stesse dimensioni della Pietra di Palermo) e al Petrie Museum di Londra (1 frammento).


In pratica, questo gruppo di lavoro ha analizzando il tutto tramite le più moderne tecniche di documentazione fotografica, in particolar modo la fotogrammetria combinata con la “Reflectance Transformation Imaginig” (RTI), che ha permesso di ampliare esponenzialmente la leggibilità dei manifatti.


Come per la Pietra di Palermo, anche nel caso dei frammenti del Cairo non sappiamo praticamente nulla della loro provenienza dal momento che i frammenti furono acquistati sul mercato antiquario del Cairo in un arco di tempo che va dal 1910 al 1963.


Di almeno 3 di essi, i trafficanti di antichità riferirono agli archeologi del Museo Cairota che la provenienza era dal Medio Egitto, e precisamente dalla zona dell’odierna città di Minya, situata non lontano dal famosissimo sito di Tell el-Amarna, la città del faraone eretico Akhenaton, informazione, per ovvi motivi, da prendere con le molle.


Solo di uno di essi, il cosiddetto “Cairo Fragment 4”, si sa che fu trovato durante degli scavi effettuati nel 1912 in uno dei cortili, di epoca Ramesside, del tempio di Ptah a Memphis, l’odierna Mit Rahina. Si tratta, però, di un contesto non primario: il pezzo si trovava infatti in un grosso butto insieme a materiale eterogeneo quanto a contenuto e datazione


La RTI ha mostrato una serie di dati molto interessanti: l’analisi paleografica e della composizione del testo, facilitata enormemente da questa tecnologica, che solo 3 frammenti del Cairo, incluso il “Cairo Fragment 1”, appartengono alle stessa stele di origine della Pietra di Palermo. I rimanenti, pur essendo realizzate nello stesso materiale, ossia basalto olivinico, però sono stati incisi da mani differenti.


Per cui si possono formulare delle ipotesi: un faraone della V dinastia, magari Niuserra o Menkauhor, la cui successione pare essere stata alquanto contrastata, per legittimare la sua ascesa al trono, fa scrivere dalla sua cancelleria di corte una sorta di storia sacra, che culmina nel suo regno.


In una fase successiva, da ordine di replicarlo su pietra, più per mantenerne memoria e consacrarla agli dei, che per motivi di propaganda, dato che il geroglifico delle steli è di dimensioni minuscole, dell’ordine di un centimetro o poco più, tanto da sembrare una trasposizione, in scala 1:1, di un testo papiraceo, cosa che ne renderebbe difficile la lettura anche da media distanza.


Il fatto che la trasposizione si stata realizza in una medesima officina, ma da due mani differenti, sembrerebbe implicare la necessità di parallelizzare il lavoro, per fare fretta e creare più copie possibili: per cui, per il committente, l’essere legittimato dinanzi agli dei doveva essere un’esigenza assai pressante.


E dato che ne sono state fatte più copie, non è detto che con il tempo non saltino fuori altri frammenti di steli analoghe. Ho ipotizzato Niuserra o Menkauhor, come possibili committenti, perché, grazie alla RTI abbiamo identificato un punto fermo della cronologia.


Infatti, tra gli ultimi faraoni citati nella stele appare il nome Sahura, successore di Userkaf, di cui abbiamo scoperto qualche notizia in più, come la fabbricazione (tecnicamente chiamata nel testo “nascita e apertura della bocca”) di 7 statue del faraone in rame asiatico, o la realizzazione di una spedizione commerciale nella Terra del Turchese, (probabilmente le cave dello Uadi Maghara nella penisola del Sinai).


La citazione del rame asiatico, sotto molto aspetti, è assai interessante: i sovrani egizi, anche prima dell’unificazione forse compiuta da Namer, mandavano spedizione nel Sinai, la terra dei minatori, per ottenere il rame; l’iscrizione più antica in tal senso, risale ai tempi del famigerato e discusso Iry-Hor.


Per cui, l’attributo asiatico, come forma di vanteria, doveva indicare una provenienza assai più esotica e lontana: le grandi miniere di rame dell’area chiamata Wadi Feynan, un territorio collocato a ridosso fra gli odierni stati di Israele e Giordania, che gli Egizi controlleranno nel Medio Regno, oppure dal porto di Byblos, ottenuto dalle rotte commerciali provenienti dall’isola di Cipro.


Che poi Sahura fosse amante delle grandi spedizioni commerciali, lo sappiamo dalla Pietra di Palermo: in questa viene riportata una spedizione alla misteriosa terra di Punt, ossia il nord della Somalia, per ottenere incenso, mirra e avorio.


Incenso che svolgeva un ruolo fondamentale nella celebrazione delle cerimonie in onore del dio Ra; in particolare la RTI ha permesso di leggere una citazione del tempio solare del faraone Sahura, chiamato “I Campi di Ra”.


I templi solari erano un monumento unico che i faraoni della V dinastia fecero costruire, ufficialmente, per il culto del dio sole ma, nella pratica, per il loro stesso culto, come incarnazioni viventi del dio sole, dal cui culto ricevevano, indirettamente, linfa e legittimazione costante. Ebbene, il tempio solare di Sahura non è mai stato trovato e alcuni studiosi in passato hanno persino ipotizzato che non sarebbe mai stato costruito, dal momento che il tempio è menzionato solo nei testi autobiografici di due funzionari della V dinastia.


Invece, sia la spedizione a Punt, per recuperare la materia prima per il culto, sia la citazione in documento ufficiale, sono indizi a favore della sua effettiva realizzazione. Insomma, un altro luogo che aspetta di essere scavato dagli archeologi.


Prossimi passi? Io, da profano, sarei curioso di vedere applicato a questo testo una versione evoluta del progetto Hieroglyphics Initiative, che sfruttando l’intelligenza artificiale come Pithya, aiuti gli archeologici a integrare parzialmente i frammenti mancanti.

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Published on October 29, 2019 15:13
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Alessio Brugnoli
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