Ettore Fieramosca
Come sapete, sono un uomo dai gusti semplici: per anni, ero convinto che in fondo la Disfida di Barletta fosse combattuta come nel film Il soldato di Ventura e che Ettore Fieramosca, in fondo somigliasse tanto a Bud Spencer.
Poi, con il tempo, anche per colpa di un amico inglese, stupito che la trama fosse liberamente ispirata da un evento storico, ho cominciato ad approfondire le vicende, scoprendo storie e personaggi degni di un romanzo.
A cominciare proprio da Ettore Fieramosca, di nobile famiglia, che nacque a Capua nel 1476 da Raynaldo , barone di Rocca d’Evandro, e da una nobildonna non meglio identificata, e che secondo alcuni studiosi era appartenente alla casa dei Cariolato. Il fratello Guidone, nato nel 1479 sposò Isabella Castriota, figlia di Scandeberg, l’eroe albanese che cercò di arginare l’avanzata dei Turchi nei Balcani.
Per tradizione di famiglia, suo padre e suo nonno Rossetto, erano stati capitano di ventura, al servizio dei sovrani aragonesi di Napoli, nonostante la sua educazione umanistica, si dedicò al mestiere delle armi.
Ettore fu allevato infatti nella corte di Ferrante I d’Aragona; la sua presenza è documentata sin dal 1492, anno al quale risale il primo pagamento in suo favore di 10 ducati mensili. Se ne può dedurre che egli prestasse servizio come paggio, secondo un costume diffuso fra i rampolli delle nobili famiglie.
La morte di Ferrante e il deteriorarsi della situazione politica e militare del Regno non valsero a rompere i legami fra i Fieramosca e la dinastia aragonese. Infatti alla discesa di Carlo VIII ne condivise le sorti, mentre altri uomini d’arme, fra cui Pompeo e Fabrizio Colonna, mutarono bandiera. Dopo la morte del padre all’assedio di Gaeta, nel 1493 a diciassette anni, si trovò a capo di una compagnia di balestrieri.
Al loro comando, Ettore dovette coprirsi d’onore, poiché alla cacciata di Carlo VIII, ricevette come premio da Ferdinando II i feudi di Roccadevandro e Camino, già appartenenti a Federico di Monforte, che si era schierato a favore dei Francesi.
Alla morte di Ferrandino, Ettore passò al servizio del nuovo sovrano Federico IV che seguì all’assedio di Gaeta nel novembre del 1496. Dopo la riconquista della città, Ettore fu spedito dal re aragonese nelle Marche, per svolgere una missione sia politica, sia militare. Da una parte, doveva saggiare le intenzioni di Cesare Borgia e di Alessandro VI, impegnati nel loro scontro con gli Orsini, dall’altra sedare una ribellione.
Combatté a Fermo dove, con il fratello Guido, difese eroicamente il castello di Offida minacciato da Oliverotto da Fermo. Era il 1498 quando riceve in feudo, dal re di Napoli, il castello di Caspoli. Nello stesso anno ritorna a combattere i fermani per conto del signore di Ascoli Piceno Astolfo Guiderocchi. Nell’occasione viene accolto con tutti gli onori a Ripatransone.
La contesa politico-militare per la corona di Napoli attraversava intanto una fase di stallo: gli Aragonesi erano, almeno in teoria, padroni del Regno, ma i Francesi restavano saldamente attestati a Sora, Isola e Roccadevandro. Tuttavia i Francesi si accordarono l’11 maggio 1500 a Granada con gli Spagnoli, per spartirsi i domini di Federico IV. Campania ed Abruzzo, Napoli compresa, erano destinati ai Francesi; Apulia e Calabria agli Spagnoli.
A seguito di tale trattato, i Francesi mossero alla conquista della capitale; una parte delle truppe fedeli al sovrano, al comando di Fabrizio Colonna, si asserragliò in Capua; fra gli altri, anche il Ettore con il fratello Guidone. Presa Calvi dagli invasori, Ettore assaltò il castello e ne scacciò gli occupanti (13 luglio 1501). Nonostante questo successo, Capua fu presa (24 luglio 1501).
Nel frattempo, Federico, nulla sapendo del trattato di Granada, aprì le fortezze calabresi agli spagnoli affinché lo soccorressero; conosciuto il tradimento del congiunto prese accordi con i Francesi, per cui cedette il regno a Luigi XII di Francia ottenendo in compenso la contea del Maine, da tramandare ai propri eredi, con una pensione vitalizia.
Secondo quanto racconta il Galateo, Ettore fu tra i pochi nobili che accompagnò Federico in Francia; di conseguenza, in patria fu considerato “ribelle” dalla fazione angioina vittoriosa e, in quanto tale, gli furono sequestrati la rendita della gabella nuova (20 gennaio 1502) e i feudi di Roccadevandro e Camino, che ritornarono a Federico di Monforte. Senonché, caduti in mano spagnola gli ultimi caposaldi aragonesi, molti dei condottieri dello spodestato Federico, giudicando ormai vana ogni speranza di riscossa, passarono al servizio di Consalvo di Cordoba, comandante dell’esercito del Cattolico, anche perchè non passò molto tempo prima che i due alleati cominciassero a scannarsi di nuovo.
I capitoli dell’accordo fra il “gran capitano” e i Colonna, Pompeo e Fabrizio, furono conclusi il 7 settembre 1502 e l’inizio della milizia spagnola di Ettore non dovrebbe essere di molto posteriore. Risale allo stesso periodo di tempo il suo ingresso nella corte napoletana di sua maestà cattolica; la posizione di cortigiano valse ad Ettore la provvisione di 650 ducati annui. Rimane traccia di un pagamento a suo favore (maggio 1503) di 120 ducati “per suo nutrimento”, corrisposto, secondo un uso all’epoca diffuso, sotto forma di tessuti pregiati: “velluto nigro”, “damasco” e sete colorate.
Ettore partecipò così alla spedizione in Puglia di Consalvo di Cordoba, prima con l’espugnazione di Taranto e successivamente con l’occupazione di Andria, Canosa, Manfredonia e Barletta. Tuttavia, la reazione francese non tardò ad arrivare, costringendo gli Spagnoli ad asserragliarsi a Barletta.
Obiettivo dei Francesi era non già di assalire la città – nonostante essa avesse una debole difesa muraria – ma piuttosto di attirare Consalvo in campo aperto, ciò che avrebbe permesso di sfruttare al meglio la propria superiorità numerica. Invano, giacché gli Spagnoli ben compresero la manovra: ai Francesi non restò allora che disseminarsi su di un territorio amplissimo, da Cerignola a Terlizzi, e tentare con continue scorrerie di intralciare il flusso di viveri al caposaldo nemico. Gli uomini del gran capitano, dal canto loro, contrastarono l’azione dell’avversario mediante improvvise sortite di piccoli manipoli di cavalleria leggera.
Tra i tanti scontri, a Canosa, le truppe di Diego de Mendoza catturarono e tradussero a Barletta vari soldati francesi, fra cui il nobile Charles de Torgues, soprannominato Monsieur Guy de la Motte.
Il 15 gennaio 1503, i prigionieri furono invitati ad un banchetto indetto da Consalvo da Cordova in una cantina locale (oggi chiamata Cantina della Sfida). Durante l’incontro, la Motte contestò il valore dei combattenti italiani, accusandoli di codardia. Lo spagnolo Íñigo López de Ayala difese invece con forza gli italiani, affermando che i soldati che ebbe sotto il suo comando potevano essere comparati ai francesi quanto a valore.
Si decise così di risolvere la disputa con uno scontro: la Motte chiese che si sfidassero tredici (in origine dieci) cavalieri per parte il 13 febbraio nella piana tra Andria e Corato.Lo scontro venne programmato nei minimi dettagli: cavalli ed armi degli sconfitti sarebbero stati concessi ai vincitori come premio, il riscatto di ogni sconfitto fu posto a cento ducati e furono nominati quattro giudici e due ostaggi per parte.
Prospero Colonna e Fabrizio Colonna si occuparono di costruire la “squadra” italiana, contattando i più forti combattenti del tempo. Capitano dei tredici cavalieri italiani sarebbe stato Ettore Fieramosca, che si occupò dello scambio di missive con la controparte francese, Guy la Motte.
I cavalieri italiani e spagnoli pernottarono ad Andria, nella cui Cattedrale Fieramosca e gli altri seguirono la messa d’augurio il giorno dello scontro,e fecero giuramento di vittoria o di morte. I francesi invece rimasero a Ruvo di Puglia, dove erano attestati con le truppe,partecipando alla messa nella Chiesa di San Rocco.
Lo scontro avvenne in un’area recintata dai giudici delle due parti. Gli italiani furono i primi a giungere sul posto,seguiti di lì a poco dai francesi, che ebbero il diritto di entrare per primi nel campo.Le due formazioni di cavalieri si disposero su due file ordinate, contrapposte l’una all’altra, per poi caricarsi vicendevolmente lancia in resta.
Jean d’Auton, tuttavia, afferma che gli italiani si avvalsero di uno stratagemma: anziché caricare, arretrarono fino ai limiti del campo di battaglia e aprirono dei varchi nelle proprie file per far fuoriuscire dall’area alcuni cavalieri francesi, riuscendo con alcuni di loro nel tentativo. Il vescovo Paolo Giovio riporta che i cavalieri italiani rimasero fermi sulle loro posizioni con le lance abbassate, in attesa della carica francese.
Il primo scontro non causò gravi danni alle parti, ma mentre gli italiani mantennero sostanzialmente salda la posizione, i francesi sembrarono leggermente disorganizzati.Due italiani finirono disarcionati,ma una volta rialzatisi cominciarono ad uccidere i cavalli dei francesi, costringendoli a piedi.
Lo scontro continuò con spade e scuri,finché tutti i francesi vennero catturati o feriti uno dopo l’altro dagli italiani, che conseguirono una netta vittoria. Sicuri della vittoria, i francesi non avevano portato con loro i soldi del riscatto e furono così condotti in custodia a Barletta, dove fu Consalvo in persona a pagare di tasca propria il dovuto per poterli rimettere in libertà.La vittoria degli italiani fu salutata con lunghi festeggiamenti dalla popolazione di Barletta e con una messa di ringraziamento alla Madonna, tenutasi nella Cattedrale di Barletta.
Può sembrare strano, ma nel gruppo francese, vi erano almeno due piemontesi: tale Pierre de Chals e , Grajan d’Aste, Graiano d’Asti. Ettore, diventato famoso dopo questa impresa, partecipò con i Colonna, il duca di Termoli e altri condottieri napoletani al consiglio di guerra che si tenne dopo l’uscita da Barletta per decidere se assalire i Francesi o proseguire alla volta di Cerignola. Decisa per questa seconda opzione, Ettore prese parte alla battaglia di Cerignola, militando nella cavalleria pesante agli ordini di Prospero Colonna e mettendo in rotta i transalpini; al seguito di tale vittoria, il 13 maggio Consalvo occupò Napoli.
Ettore non era con lui, perché impegnato nell’inseguimento di nell’inseguimento del principe di Salerno, Antonello da San Severino che, dopo aver sostato in Aversa l’8 maggio, si era diretto verso Capua assieme a Ivo di Allègre e l’aveva occupata. Al comando di 500 cavalieri e 100 fanti, vi entrò a sua volta il 10, cacciandone i Francesi. La guerra continuò nelle valli del Garigliano, dove Ettore colse l’occasione per rifarsi con Federico di Monforte, a cui riprese le terre di Roccadevandro e Camino.
Contro il castello di Roccadevandro, ben munito, mosse Fabrizio Colonna il 23 ottobre con 1.500 fanti e sei pezzi di artiglieria; il Monforte, molto più debole e privo di aiuti, fu costretto ad arrendersi. Il 3 gennaio 1504, con la resa di Gaeta, la conquista del Regno si poteva considerare compiuta. In quelle circostanze Ettore toccò i vertici della sua fortuna. Il Cattolico, oltre ad infeudarlo delle terre di Miglionico, con il titolo di conte, e di Aquara, gli conferì il possesso di Mignano, Roccadevandro, Camino e Camigliano e della gabella nuova di Capua. Fu poi designato ad accompagnare Prospero Colonna nella spedizione che conduceva prigioniero in Spagna Cesare Borgia. L’università di Capua colse l’occasione per conferirgli l’incarico di intercedere a suo favore presso il sovrano, perché le confermasse alcuni privilegi.
Secondo la tradizione, durante il viaggio Fieramosca soggiornò anche a Roma,in una casa-torre medioevale di Trastevere, situata ad angolo tra piazza di Santa Cecilia e piazza dei Mercanti, che risale alla seconda metà del XIII secolo.
Tornato in Italia nel 1505, la iella si accanì su Ettore: a seguito della pace di Blois dello stesso anno, fu privato da Consalvo di Roccadevandro e Camino, già feudi del Monforte, e a Miglionico, che ritornò sotto il dominio del principe di Bisignano, in cambio dell’indennizzo ridicolo di 600 ducati sui fiscali di Civitella d’Abruzzo. Di fronte alla sua ferma opposizione, il sovrano lo avrebbe fatto rinchiudere agli arresti domiciliari in un castello.
Alla fine, tenuto a pane e acqua, Ettore dovette cedere: non gli sarebbero state risparmiate, di conseguenza, difficoltà economiche, in seguito alle quali vendette il feudo di Camigliano e poi quello Aquara a Giulio de Scortiatis (1512). Dice la leggenda che fosse caduto in disgrazia per aver amato la figlia del re e che, imprigionato, fosse stato poi liberato per intercessione di lei e mandato in esilio.
In ogni caso, Ettore entrò in sciopero, rifiutandosi di combattere per le armi spagnole e cercando un altro ingaggio come capitano di ventura. Ci provò nel 1506 con il marchese di Mantova; dell’aprile 1510 è invece una sua analoga offerta alla Repubblica di Venezia, a sostegno della quale, in una lettera alle autorità veneziane, Ettore ricordava le benemerenze proprie – in particolare la partecipazione alla disfida – e quelle dell’avo Rossetto, che era stato al soldo della Serenissima durante la guerra di Ferrara. Chiedeva per sé una condotta di 100 uomini d’arme, altrettanti cavalieri leggeri e il comando dell’artiglieria con 400 fanti e una compagnia di 150 cavalieri per ciascuno dei fratelli Guidone e Cesare.
Richiesta rifiutata sia per motivi economici, era alquanto esosa e per motivi diplomatici: in rotta con Venezia, il 20 maggio 1509 era stato emesso un bando con cui il re Cattolico vietava a tutti i sudditi di andare al servizio dei Veneziani, pena la morte.
Nel 1512, Ettore, nel tentativo di trovare un accomodamento con gli Spagnoli, passò al servizio di Fabrizio Colonna e partecipò alla battaglia di Ravenna dove fu gravemente ferito. Dopo la guarigione il Fieramosca raggiunse Ancona per mettersi al servizio del viceré di Napoli, Raimondo de Cardona.
Il quale gli consigliò di perorare la sua causa presso la corte spagnola, dato che la restituzione dei feudi “Angioini” era stata concepita, in origine, come accomodamento provvisorio, in attesa di poter procedere ad un “equivalente excambio in stato con vaxalli”
Per cui, Ettore si recò a Valladolid, sede della corte del re di Spagna, dove morì di malattia il 20 gennaio 1515 all’età di 39 anni.
Alessio Brugnoli's Blog

