Un’inglese a Palermo





Quando scendo a Palermo, ogni tanto mi capita di passeggiare per via Maqueda. Ogni volta, trovo differente lo straordinario mondo che la popola, in cui convivono fianco a fianco il ricco dandy con lo sfincionaro, il negozio di cannoli con l’indiano che vende sari e pietre dure. Arrivato al civico 26, all’altezza del maestoso palazzo Filangeri di Cutò, uno dei gioielli del rococò panormita, perfetta metafora della città, con la sua facciata imponente, ferita dai segni del tempo, il cui portale centrale, l’Arco di Cutò, non è l’accesso a un solenne atrio o un ricco cortile, ma al vivace e caotico mercato di Ballarò.


Perché Palermo è questa, miseria e nobiltà, un gioco di prestigio che mostra le cose diverse da ciò che sono, una lotta, dall’esito sempre incerto tra entropia e speranza. Qualche volta, proprio sotto l’Arco di Cutò, mi sembra di intravedere, persa nei suoi pensieri, Jenny Saville… Sarà forse un abbaglio; sono troppo discreto e il mio inglese è cosi impacciato, che evito di avvicinarmi, per chiederle conferma….







 


Jenny, per chi non la conoscesse, è una delle più importanti artiste della inglesi della mia generazione, l’erede spirituale di Lucian Freud. Nata , in Inghilterra nel 1970, femminista convinta, a 23 anni ha avuto la fortuna di incrociare Charles Saatchi, che oltre a farle da mecenate, la fa entrare in quel magma creativo che i posteri definiranno YBA, Young British Artists.


Una generazione di artisti a prima vista accomunati dall’amore per la provocazione, la capacità di vendersi, l’utilizzo dei materiali di recupero e una vita personale sregolata: in realtà, un filo rosso ben più robusto lega le loro esperienze artistiche: tutte le loro opere, nonostante le differenze di linguaggio, materia e forma, sono riflessioni sulla paura angosciosa della mortalità, sui tentativi di ingannare la propria solitudine esistenziale, sull’inutilità della creatività in un mondo in ogni immagine è replicabile a basso costo.


Jenny racconta tutto questo con una pittura carnale, in cui il corpo non viene nobilitato, plastificato e reso anonimo come nella pubblicità, ma lacerato e dilaniato da un colore violento e acido e da una pennellata caotica, che rendono la materia pittorica testimone delle paura e della rabbia che sopportiamo ogni giorno.


Le sue donne come Cyrano, non sono grottesche, ma eroici giganti, che nonostante spesso si ritrovino tra le mani solo stelle rotte e ombre perdute di rami spezzati, non rinunciano mai a lottare, perché in questo, non nella vittoria, trovano la loro grandezza, riscattandosi dalla mediocrità a cui il nostro quotidiano ci condanna.


In un’artista simile, non poteva che trovare casa a Palermo, città magnifica e decadente, carnale e innamorata della morte.


 

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Published on May 17, 2018 13:35
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Alessio Brugnoli
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