Lecce
Potrei inaugurare il nuovo anno del blog con una delle solite polemiche con i grillini romani, l’imbecillità non è necessaria per fare carriera nei loro ranghi, ma di certo aiuta, oppure sparare ad alzo zero su Trenitalia e se lo meriterebbe tutto: ieri, quasi tre ore fermi, senza alcuna spiegazione, un’assistenza latitante e i bagni rotti, in una stazioncina dimenticata da Dio tra Benevento e Caserta…
Però, preferisco raccontare le mie impressioni su Lecce: da lontano, le cupole di Santa Croce e del Carmine, la colonna di Sant’Oronzo, i campanili che spiccano sulle altane dei palazzi e le facciate delle chiese, ricche di ornamenti, danno l’idea di un miraggio, di una delle tante città invisibili di Calvino. Forse Tamara dove
l’uomo cammina per giornate tra gli alberi e le pietre. Raramente l’occhio si ferma su una cosa, ed è quando l’ha riconosciuta per il segno d’un’altra cosa: un’impronta sulla sabbia indica il passaggio della tigre, un pantano annuncia una vena d’acqua, il fiore dell’ibisco la fine dell’inferno. Tutto il resto è muto e intercambiabile; alberi e pietre sono soltanto ciò che sono.
Finalmente il viaggio conduce alla città di Tamara. ci si addentra per vie fitte d’insegne che sporgono dai muri. L’occhio non vede cose ma figure di cose che significano altre cose: la tenaglia indica la casa del cavadenti, il boccale la taverna, le alabarde il corpo di guardia, la stadera l’erbivendola. Statue e scudi rappresentano leoni delfini torri stelle: segno che qualcosa – chissà cosa – ha per segno un leone o delfino o torre o stella. Altri segnali avvertono di ciò che in un luogo è proibito – entrare nel vicolo con i carretti, orinare dietro l’edicola, pescare con la canna dal ponte – e di ciò è lecito – abbeverare le zebre, giocare a bocce, bruciare i cadaveri dei parenti. Dalla porta dei templi si vedono le statue degli dei, raffigurati ognuno coi suoi attributi: la cornucopia, la clessidra, la medusa, per cui il fedele può riconoscerli e rivolgere loro le preghiere giuste.
Se un edificio non porta nessuna insegna o figura, la sua stessa forma e il posto che occupa nell’ordine della città bastano a indicarne la funzione: la reggia, la prigione, la zecca, la scuola pitagorica, il bordello. Anche le mercanzie che i venditori mettono in mostra sui banchi valgono non per se stesse ma come segni d’altre cose: la benda ricamata per la fronte vuol dire eleganza, la portantina dorata potere, i volumi di Averroè sapienza, il monile per la caviglia voluttà. Lo sguardo percorre le vie come pagine scritte: la città dice tutto quello che devi pensare, ti fa ripetere il suo discorso, e mentre credi di visitare Tamara non fai che registrare i nomi con cui essa definisce se stessa e tutte le sue parti.
Come veramente sia la città sotto questo fitto involucro di segni, cosa contenga o nasconda, l’uomo esce da Tamara senza averlo saputo. Fuori s’estende la terra vuota fino all’orizzonte, s’apre il cielo dove corrono le nuvole. Nella forma che il caso e il vento dànno alle nuvole l’uomo è già intento a riconoscere figure: un veliero, una mano, un elefante.
Ma appena ti avvicini, ti rendi conto della concretezza della pietra e della vita: così comincia il viaggio in un labirinto di forme e di domande, in cui si scoprono, sotto una maschera seicentesca, infinite storie.
Perché il Barocco a Lecce, con il suo selvaggio vitalismo, non nasconde le cose, ma le evidenzia, incrostandovi sopra infiniti simboli. E’ l’occhio, dopo essere stato abbagliato dagli intrecci e dalle volute, scopre un muro medievale, resto di una commenda templare o di una sinagoga, una colonna romana, un sepolcro messapico.
Una città in cui ne sono contenute in potenza infinite altre come insetti nella crisalide… Di cui non godi solo le meraviglie, ma le infinite domande che ti pone.
Alessio Brugnoli's Blog

