Flavio Torba's Blog, page 4
September 16, 2018
Margaret Atwood – Il racconto dell’ancella [Recensione]
“Se sei un uomo in un qualsiasi tempo futuro, e ce l’hai fatta sin qui, ti prego ricorda: non sarai mai soggetto alla tentazione del perdono, tu uomo, come lo sarà una donna. È difficile resistere, credimi. Ricorda, però, che anche il perdono è un potere. Chiederlo è un potere, e negarlo o concederlo è un potere, forse il più grande.
Non si tratta del controllo di una persona sull’altra. Forse non si tratta di chi può stare seduto e di chi deve invece inginocchiarsi, alzarsi o sdraiarsi, a gambe divaricate. Forse si tratta del potere di fare qualcosa e poi essere perdonato.”
Nel 1986, quando Margaret Atwood pubblicò “Il racconto dell’ancella”, negli Stati Uniti si stava assistendo alla svolta conservatrice di Reagan e della destra cristiana e, anche se Chernobyl è accaduto poco dopo la pubblicazione del libro, altri disastri simili erano ancora freschi sulla carta dei giornali. Non mi stupisce quindi ciò che ho pensato mentre leggevo: “Ma questo è un horror!”
Difred è una serva nella Repubblica di Galaad, una porzione di quello che una volta erano gli Stati Uniti. Può lasciare la casa del Comandante e di sua moglie una volta al giorno per andare ai mercati del cibo, le cui insegne ora sono immagini (un uovo, un pesce,…) anziché parole perché le donne non sono più autorizzate a leggere. Deve stare sdraiata sulla schiena una volta al mese a pregare che il Comandante riesca a metterla incinta perché, in un’epoca di nascite in declino, le Ancelle hanno motivo di esistere solo se le loro ovaie sono efficienti.
Difred era una normale donna con una carriera, un nome, una vita e tante altre cose che si davano per scontate. Il ricordo del mondo “di prima” è ancora vivo in lei, insieme all’amore per il marito e la figlia da cui è stata separata e di cui non conosce la sorte. Cosa ci può essere di più orrendo?
[image error]Un fotogramma da “The Handmaid’s Tale”, serie TV distribuita da Hulu negli USA e tratto dal romanzo di Margaret Atwood
La storia non è quella che viene semplicemente letta: è un lamento che chiede di essere ascoltato. Le Ancelle, e la donna in generale, non hanno libero arbitrio o personalità. Sono trattate come semplici macchine per la produzione di bambini e deviare dallo standard, imposto da un regime oppressivo e inflessibile, porta a una morte lenta e dolorosa. Non c’è speranza o gioia per loro, solo la sottomissione perpetua.
Non hanno diritto neanche a un nome: Difred deve essere infatti letto come “Di Fred”, ossia “Appartenente a Fred”. Il nuovo nome non ha neanche la consolazione di essere definitivo, perché cambia a seconda del padrone di turno. Ricorda L’Olocausto, in cui l’annientamento dell’identità avveniva innanzitutto con l’imposizione di un numero.
Ritraendo una situazione così squallida, Margaret Atwood dipinge la vita per come potrebbe essere se all’improvviso prendessero il sopravvento la tendenza alla misoginia, allo svilimento culturale e alla degradazione di qualsiasi forma di autoespressione, che oggi striscia anche all’ombra della società occidentale.
E’ stato fatto notare come questo romanzo sia l’attualizzazione delle regole del Vecchio Testamento, ma la chiave di lettura è forse più profonda: non a caso tutte le religioni, comprese quelle di derivazione ebraica e cristiana, vengono dichiarate fuorilegge da un nuovo e non meglio specificato culto che impone e modifica le Scritture a suo uso e consumo, in un’ottica di dominio completo e negazione del pensiero individuale.
Questa distopia è un incubo. La costruzione del mondo della Atwood può anche essere scarna e costruita lentamente man mano che la storia si sviluppa, ma dipinge per gradi un ritratto di ingiustizia e oppressione soffocante che tiene sospesi a ogni singola parola, complice anche uno stile di prosa sorprendentemente poetico e profondo. Il finale è ambiguo ma funziona al 100%, rendendo la storia ancora più potente e consacrando Difred al rango di icona.
September 13, 2018
Alchimie di sangue [Racconto]
di Flavio Torba
Racconto (8000 parole circa) – In un futuro non troppo lontano, le creature della notte hanno combattuto, vinto e soggiogato l’umanità, costringendo i sopravvissuti a una vita di prigionia o di clandestinità. I nuovi dominatori hanno fatto della loro superiorità morale ed evolutiva il collante per arrivare alla vittoria, ma adesso le loro certezze sono messe in gioco da un nuovo antagonista: l’Alchimista. Stokorn, capitano del Distretto di Florenzia, dovrà investigare e debellare la minaccia, ma quello che scoprirà potrebbe mettere a dura prova il nuovo ordine.
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September 3, 2018
Quante revisioni per un romanzo? [Blog]
Quando stai per iniziare a scrivere un romanzo, quello che nessuno ti dice (e tu probabilmente non ti sei preso la briga di cercare qualcosina su internet) è che non si scrive l’opera definitiva al primo colpo. E’ un concetto basilare, eppure sembra sfuggire alla maggior parte degli autori self che pubblicano su Amazon. Roba illeggibile per chiunque abbia anche solo una licenza elementare. Non oso immaginare che cosa arrivi sulle scrivanie (una volta, magari, ora ci sono le mail) degli editori.
L’aveva già detto Hemingway che “la prima bozza di qualsiasi cosa è merda“, ma il concetto può essere ulteriormente argomentato con questa citazione di Shannon Hale (chiedete a Google chi sia, perché io non ne ho idea):
“Scrivo la prima bozza e ricordo a me stessa che sto solamente spalando sabbia in una scatola, così da poter costruire castelli più tardi”.
Ho appena finito la seconda stesura de “La giostra di carne” (titolo provvisorio, anche perché sembra più un porno che un horror) e con mio grande sconforto ho scoperto di essere soltanto ai piedi della salita. Il manoscritto originale è lievitato dalle circa 45.000 parole iniziali fino a 80.000! Ma perché? Mi sono forse messo a fare filosofici voli pindarici o ad aggiungere avverbi e perifrastiche come gli scrittori pulp degli anni ’30 (pagati un tot a parola)?
No. Semplicemente c’era un sacco di lavoro che avevo lasciato indietro. Innanzitutto, avevo delle scene che si riducevano a poche frasi descrittive seguite dalla nota “da scrivere”, perché in quel momento non ero particolarmente ispirato o non facevano parte della trama principale. Poi c’erano i buchi nello svolgersi logico della storia e quindi anche lì ho dovuto tagliare, cucire e aggiungere nuovi capitoli per spiegare il tutto.
La cosa positiva è che c’è qualche scena di sangue in più, che non guasta mai. Non si è trattato quindi soltanto di “riempitivi”.
Nel frattempo ho anche sistemato un po’ di grammatica e di eleganza delle frasi, ma tutta questa mole di lavoro mi ha portato a pensare che quella che io chiamavo “Prima bozza” fosse in realtà la “Bozza Zero”, quella che qualche anglosassone chiama la “Vomit Draft”, scritta per fissare le idee su carta e decidere se andare avanti a raccontare la storia. Fondamentalmente, è la descrizione di che cosa accade, una scena dopo l’altra, l’ossatura del romanzo che mi ha permesso di vedere se la storia scorre.
In cosa differisce, invece, la vera “Prima Bozza”? La ragione per cui il volume di parole è aumentato così tanto è che sono stati aggiunti interi capitoli che riguardavano trame secondarie, utili a descrivere meglio le motivazioni di alcuni personaggi secondari e a costruire tensione per il finale, dove le storie dei singoli vanno a confluire.
Essendo interi brani costruiti da zero, ovviamente avranno bisogno di essere rivisti a mente fresca. Il che mi porta a chiedermi quanto ci vorrà finché questo benedetto romanzo veda la luce. Molto tempo…
Innanzitutto ho bisogno di staccare la spina per qualche settimana, perché il solo pensiero di rimetterci mano mi disgusta. Credo che passerò il prossimo mese a editare e poi pubblicare un racconto lungo a tema vampiresco, “L’alchimia del sangue”, e a finirne altri più brevi da mandare ad alcune riviste letterarie (già, voglio provare anche questa ambiziosa strada).
Poi ci sarà la rilettura da capo del romanzo, con interventi sulla trama (se dovessero essere necessari) e sullo stile di scrittura. Taglierò qualcosa, aggiungerò qualcos’altro? Onestamente non lo so. Sono nuovo del gioco, ma già mi vengono i brividi se ci penso.
Successivamente, invierò il manoscritto a dei beta readers. Costoro, fidi alleati che devo ancora trovare (presumibilmente nell’ambiente degli scribacchini), mi diranno se tutto il mio lavoro è la già citata “montagna di cacca monumentale” o se può diventare qualcosa di buono con qualche aggiustamento. Nel frattempo, articolerò meglio le idee per un secondo romanzo, che ha già un suo titolo provvisorio: “La casa delle candele” (troppo classico, ma tanto è provvisorio). Seguirò anche il questo caso il metodo del fiocco di neve, facendo magari maggiore attenzione allo sviluppo dei personaggi.
Con i consigli dei beta, se non saranno totalmente disgustati, provvederò alle ultime correzioni. E poi? Ovviamente un altro giro di beta-readers, questa volta gente assoldata tra gli iscritti alla mia newsletter. Lettori fidati che hanno già un’idea del mio stile e che hanno dimostrato apprezzamento e stima per i miei racconti, ma anche uno spiccato spirito critico.
Nuovo giro di correzioni e poi la tanto sospirata parola FINE. Tempo stimato totale? 6-7 mesi.
Rimarrà soltanto un dubbio a quel punto, se nel frattempo non avrò cestinato il tutto. Editoria tradizionale o self-publishing?
August 26, 2018
Victor LaValle – The Changeling [Recensione]
“The Changeling” è un romanzo del 2017 a opera di Victor Lavalle, già autore della novella “La Ballata di Black Tom“. Ho letto di questo scrittore su qualche blog anglofono e mi sono fiondato alla ricerca del suo ultimo romanzo che, purtroppo, non è stato ancora tradotto e pubblicato in italiano. Fortunatamente, l’inglese è mio amico e mi sono potuto godere questa bella storia nera senza troppi drammi.
È difficile parlare di The Changeling senza rovinare i colpi di scena e i segreti celati nelle pieghe di questa storia. La differenza tra capire ciò che si vede e vedere ciò che la propria comprensione consente è centrale per il realismo psicologico nella finzione, centrale nell’opera di LaValle. “The Changeling” è la storia di Apollo Kagwa, commerciante di libri rari, figlio di un’immigrata ugandese e cresciuto senza un padre, e di sua moglie Emma Valentine, bibliotecaria. Dio li fa e poi li accoppia.
Quando lui stesso diventa genitore, per non commettere gli stessi errori del padre, Apollo è determinato a essere presente in ogni secondo della vita di suo figlio, che viene documentato e condiviso in tempo reale con gli amici virtuali di Apollo. Questo finché il libraio non si sveglia nella cucina del suo appartamento con un lucchetto da bicicletta al collo che lo imprigiona a una tubazione, mentre sui fornelli la teiera fischia come impazzita. Nell’altra stanza c’è suo figlio che riposa nella sua culla ed Emma, con quella teiera bollente, sta per commettere un crimine inimmaginabile. Ci sono state delle avvisaglie nelle settimane passate, ma lui ha sempre pensato fossero dovute alla mancanza di sonno e alle responsabilità soverchianti che stavano intaccando le forze di Emma.
Apollo ne esce devastato e il suo dolore diventa quasi palpabile mentre si procede con la lettura. Ma il viaggio per trovare sua moglie e per scoprire la verità sulle sue azioni lo porta a una straordinaria svolta di eventi che altera la comprensione del mondo in cui vive e lo getta in una terrificante fiaba urbana, costellata di isole segrete, foreste infestate e antica mitologia.
[image error]Victor LaValle, autore di “The Changeling”
Bisogna dire che il primo terzo del libro è davvero lento. Vi incontriamo i personaggi, in particolare la coppia di sposi Apollo ed Emma, con le loro vite e i demoni personali, e cresciamo con loro allo stesso passo del figlio Brian. C’è un po’ di inquietudine in sordina e gli incubi sono in agguato sullo sfondo, fino all’esplosione della violenza. Dal nulla abbiamo una teiera d’acqua bollente versata sopra le nostre teste per svegliarci.
Ho particolarmente apprezzato i dialoghi dei personaggi e per la maggior parte mi è piaciuta anche la prosa di LaValle, a tratti forse un po’ troppo prolisso. Ma la bontà centrale del romanzo è il lavoro di fusione di conflitti e tensioni personali con gli orribili mostri della fantasia e delle fiabe. Victor LaValle è infatti in grado di intrecciare miti e leggende, ambientandoli in una New York che diventa a tutti gli effetti un personaggio di questa storia, con il suo carico di storia, sogni e morte.
“The Changeling” è infine un ammonimento sui pericoli legati alla pubblicazione di foto di famiglia (soprattutto di bambini) e informazioni personali sui social network. Si ringrazia il signor LaValle per il suggerimento, visto che c’è ancora chi non si pone il problema.
Ora sembra che il romanzo sarà adattato da FX per farne una serie tv. La sceneggiatura è stata affidata a Kelly Marcel che, udite udite, è colpevole di aver scritto quella di 50 sfumature di grigio. Peccato.
July 24, 2018
Ecatombe [Racconto]
Se preferisci leggere sul tuo dispositvo, scarica gratuitamente il racconto! (PDF, Epub, Mobi)
ECATOMBE (di Flavio Torba)
Non penso che riuscirò a raggiungere le case. La ferita pulsa e mi sta svuotando piano piano. Il mio pensiero va a Laura, che a quest’ora si sarà già riaddormentata, ignara del mondo, e a Teresa che la regge in braccio cullandola. Sto strisciando in mezzo alle foglie cadute dai castagni da circa mezz’ora – o forse sono solo cinque minuti, difficile dirlo – ma il bosco sembra troppo grande. Non credevo che sarebbe finita così.
Quando stanotte ho sentito il primo grido, non ho neanche provato ad aprire gli occhi: credevo fosse solo l’eco di un incubo che stavo facendo. In quel sogno, continuavo a combattere armato solo di una piccola falce contro l’erba che cresceva a vista d’occhio e soffocava uno dopo l’altro i peri: gli alberi poi diventavano scuri e si accartocciavano su se stessi come vittime di un olocausto, raggrinziti scheletri carbonizzati.
Al secondo urlo, quasi della stessa tonalità del primo e allo stesso tempo diverso in un modo che non sono riuscito a cogliere, mi sono drizzato a sedere sul letto. La luna illuminava la stanza: l’alba e il lavoro erano ancora lontani, ma la schiena a pezzi mi ricordava che sarebbero comunque ritornati nel giro di qualche ora. La notte non mi avrebbe difeso per sempre dai calli e dal dolore. Teresa dormiva come un sasso in posizione fetale. Si è svegliata solo quando mi ha sentito scendere dal letto e armeggiare con la serratura dell’armadio dei fucili.
«Enzo, che fai?» mi ha chiesto, con la bocca impastata dal sonno. Una spallina della camicia da notte le era scivolata giù e la pelle sembrava di perla, mentre la mia si era accapponata.
«Ho sentito gridare dalla fattoria degli Zotici» ho risposto.
È così che noi, gente di città, chiamiamo gli Strema quando nessuno di loro può sentirci. C’è Papà Zotico, ovvero il signor Antonio, perennemente con la zappa in spalla, la sigaretta in bocca e lo sguardo torvo, Mamma Zotica, l’acida consorte con l’onnipresente fazzoletto in testa, e gli Zoticini, Giuseppe e Giovanni, di anni dodici e otto, bambini guardinghi che sembrano cresciuti come gatti in mezzo ai rovi.
«Credi sia per via di quell’animale?»
«Non lo so, ma di sicuro c’è qualche casino. Vado a vedere.»
Ho inserito due colpi nella doppietta e mi sono allacciato in vita la cartuccera. Ero già alla porta, ma Teresa mi ha bloccato con una mitragliata di domande.
«Ma sei scemo? Che ne sai di cosa è successo? Non possiamo chiamare i carabinieri, invece?»
«Quassù arriverebbero come minimo tra due ore. Non ti preoccupare. Sta venendo anche Saverio: vedo accesa la luce sul portico. Hanno sentito anche loro.»
«Stai attento.»
Avevo ragione: Saverio stava correndo verso la nostra casa, imbracciando quel fucile che mi ha umiliato con regolarità ogni anno durante la stagione delle beccacce.
«Hai sentito?» Il mio vicino sembrava già trafelato e ancora mezzo intontito dal sonno.
«Certo.»
«Gli Zotici?» mi ha chiesto, sottovoce. Poi si è risposto da solo: «Per forza. Chissà che cazzo hanno combinato i lupi questa volta.»
«Forse mi sbaglio, ma urlare di notte per delle pecore morte mi sembra un poco esagerato.»
I nostri casolari distano non più di trecento metri dalla proprietà degli Strema: una costruzione di mattoni, pietra e legno, molto più antica delle nostre, circondata da un centinaio di ulivi e da una vigna stentata. Ci siamo arrivati con le ali ai piedi.
Ho iniziato a tempestare di colpi la porta. Avrei potuto sfondarla con facilità ma era meglio capire, prima. La possibilità che Antonio accogliesse gli intrusi a fucilate era tutt’altro che remota. Dopo un’eternità, Papà Zotico si è presentato all’uscio. Aveva lo sguardo vuoto, come se avesse aperto la porta di casa per guardare la notte e i nostri corpi fossero trasparenti. Tremava e boccheggiava. Dall’interno venivano i singhiozzi di Rita, la moglie.
Lo abbiamo spinto da parte e siamo entrati. I lamenti ci hanno condotti a quella che doveva essere la camera da letto degli Zoticini, o almeno quello che ne era rimasto.
Rita era a terra e piangeva, raggomitolata su se stessa, con i vestiti lordi del sangue che aveva invaso la stanza. Era dappertutto: pareti, soffitto, mobili. Il pavimento di legno era ricoperto da un piccolo lago. Quello che doveva essere Giovanni, il più piccolo, era sparpagliato in giro. Di Giuseppe nessuna traccia, ma la finestra era aperta.
Saverio si è messo a piangere con una mano sulla bocca, invocando la Beata Vergine. Da un’altra stanza venivano i rumori di Antonio, che si armava dopo essersi ripreso dallo shock.
«È stato quell’animale?» gli ho chiesto quando è ricomparso nel corridoio.
«I lupi non fanno nulla del genere». Sembrava che ogni parola gli costasse un anno di vita.
«Non rapiscono neanche i bambini, se è per questo. Signora, chiami i carabinieri. Noi andiamo a cercare Giuseppe, non si preoccupi.»
«Tornatevene a casa.»
Ho lasciato stare Rita e mi sono girato verso Antonio: il viso dello Strema era imperscrutabile. Mi sono parato davanti a lui, più per capire cosa gli passasse per la testa che in un vero atteggiamento di sfida.
«Lei sta delirando. Se ci mettiamo tutti e tre abbiamo buone probabilità di ritrovare Giuseppe.»
«Ho detto che non sono affari vostri.»
Sapevo che Papà Zotico era burbero e scontroso – un vero orso – ma non credevo che potesse essere anche stupido. Per fortuna Saverio si era ripreso dal suo momento di debolezza e mi si era messo a fianco.
«Lei può anche cercare suo figlio da solo, se le piace. Ma se c’è in giro una bestia – o qualcuno – capace di fare questo macello e che non si limita più alle pecore, dobbiamo toglierla di mezzo. Comprendo il suo dolore e so che non ci sopporta, ma anche noi abbiamo dei bambini. Faccia strada.»
Antonio non si è mosso. Continuava a guardarci con quegli occhi che, oltre all’ostilità, non lasciavano trasparire nient’altro. Alla fine è stata Rita a convincerlo.
«Ninni, falli venire con te. Ti prego.»
***
Non avrei mai creduto che il crepitare delle foglie secche potesse ispirarmi tanto orrore. Mentre ci striscio in mezzo non riesco a non pensare a quante migliaia – milioni – ne ho ancora davanti prima di arrivare alle case. Non vedo quasi nulla, ma non credo sia per via della notte. Sento freddo.
«Ma cos’ha nella testa, un radar?»
Antonio si muoveva nel fitto sottobosco come seguendo una mappa mentale con ogni depressione del terreno o roccia della zona. Sembrava un treno in corsa che al suo passaggio devastava i rami degli arbusti più bassi.
«È nato e cresciuto nella stessa casa dove abita ora,» ho risposto a Saverio, «girava qua intorno quando ancora io e te eravamo alle elementari.»
Saverio aveva il fiato pesante e ogni tanto esplodeva un colpo di tosse per la fatica, ma anche io ho avuto il mio da fare per rimanere dietro Antonio. Prima di trasferirci in campagna, due volte a settimana uscivo di casa portando con me il borsone da calcetto e, dopo nove interminabili ore di noia e cartelle esattoriali, andavo a correre come un dodicenne sul campo da gioco. Ma lo Zotico sembrava avere il pepe al culo. Lo capivo, c’era in ballo la vita di suo figlio, ma un genitore disperato di solito dovrebbe essere grato di tutto l’aiuto che gli viene offerto. Invece “Ninni” sembrava tenere quel ritmo da corsa campestre con il preciso intento di seminarci.
In realtà non c’era la minima possibilità di poter perdere le tracce della bestia: sembrava che in mezzo al bosco fosse passato un tir coperto di peli, rossicci come quelli che ogni tanto trovavamo impigliati nei cespugli. Se ci fosse stato ancora qualche dubbio, quella devastazione floreale metteva in chiaro che non avevamo a che fare con un lupo, ma con qualcosa di molto più grosso. Di Giuseppe ancora nessuna traccia.
«Ma chi cazzo me l’ha fatto fare?» ha esclamato Saverio, dopo aver rischiato di finire lungo disteso a causa di un infido sasso nascosto dal tappeto di foglie.
In realtà sapevamo tutti e due il motivo che ci spingeva in quella caccia all’ignoto. Nonostante la strage di pecore degli ultimi mesi, non potevamo lasciare perdere e trasferirci ancora. In città avevamo venduto tutto e le terre, i casolari e gli animali avevano prosciugato i nostri risparmi. La fuga dallo stress e il ritorno alla natura si pagano.
Dopo i primi episodi, avevamo chiamato i Rangers, ma questi si sono limitati a posizionare dei bocconi avvelenati nei dintorni e nulla di più. Dovevamo vedercela da soli e, dopo il destino orribile toccato a Giovanni, la posta in gioco era ancora più alta.
A un certo punto, abbiamo trovato qualcosa. La traccia si era allargata in corrispondenza di una radura e Antonio si era fermato a osservare qualcosa sul terreno. Da lontano pregavo che non fosse il bambino, poi mi sono accorto che era una massa troppo grande, coperta di peli laddove la carne non faceva mostra di sé.
Si trattava di un cervo, un maschio bello grosso. Secondo il mio personale parere, la necessità di alimentarsi era l’ultima delle motivazioni che potevano aver portato a quello scempio. Antonio ammirava pensieroso il Pollock di intestini e sangue sparpagliati ovunque, ma l’espressione che gli leggevo sul volto mi faceva prudere di sospetto un lato del cervello. Un’altra preda smembrata e di Giuseppe ancora nessuna traccia. Un campanello di allarme aveva iniziato a suonare, ma mi sono sempre considerato una persona equilibrata. Mi sono detto che quello che stavo immaginando era un brutto scherzo della luna piena che ci spiava attraverso le fronde degli alberi.
«Madre di Dio!» ha esclamato Saverio quando ci ha raggiunti, e sono state le sue ultime parole su questa terra. Si è girato verso i cespugli per vomitare, ma nel buio è saettato qualcosa di enorme.
Ho visto gli artigli, la trachea esposta di Saverio, il mio vicino di scrivania di un tempo che cadeva a terra al rallentatore con un rantolo liquido e poi più nulla. Penso di essere rimasto immobile e con la mascella penzolante per qualche secondo. La visione dell’osso nudo mi è sembrato uno spettacolo osceno, fuori luogo come le scenette volgari che Saverio orchestrava nello spogliatoio, nell’ilarità generale della squadra. Strana associazione di idee.
Quando quel momento di ipnosi si è deciso ad abbandonare il corpo, ho sollevato il fucile. L’ho puntato alla testa, o quello che era, della cosa e ho premuto il grilletto. La spallata di Papà Zotico mi ha fatto mancare il bersaglio e cadere su una coscia. Ho visto le stelle molto più vicine e, quando la vista mi si è snebbiata, la creatura aveva ormai afferrato il corpo di Saverio e si era immersa di nuovo nella vegetazione, con Antonio alle calcagna.
***
Ho gli occhi aperti, sento le palpebre sollevate, ma la mia vista non funziona più. Forse è per la perdita di sangue o magari lo shock. Affondo le dita nel terriccio e vado avanti. Tremo in maniera incontrollabile. Sono solo al buio e ho freddo, anche se l’alba è arrivata e ne sento il debole calore sulla pelle. Ho fallito.
Mi sono rimesso in piedi in qualche modo e ho iniziato a caracollare nella direzione presa dai due. La gamba destra urlava, ma facevano più rumore i pensieri che mi affollavano la mente, illogici e contrari al mio buon senso di ragazzo di città. Era chiaro che lo Zotico mi aveva deliberatamente fatto sbagliare il colpo. Altrettanto palese era che non avremmo trovato il corpo di Giuseppe. Mi restava da scoprire se Antonio fosse al corrente della situazione dal principio. Di certo, questo avrebbe giustificato il suo comportamento quando eravamo ancora al casolare: voleva mantenere la questione in famiglia, da bravo tradizionalista.
Ho superato uno stentato torrente, dopo aver rischiato di finirci dentro due volte, e ho attaccato la salita di un pendio fangoso quando già Antonio ne aveva superato la cima. È stato su quella collinetta che ho iniziato a scorgere i primi pezzi di Saverio. Prima un piede. Poi il resto della stessa gamba, con un vistoso brano strappato in corrispondenza del quadricipite. La bestia se li era lasciati dietro come le molliche di Pollicino. Mi stavo chiedendo come avrei fatto a raccontare tutto questo a sua moglie Claudia, quando mi accorsi che stavamo girando in tondo. Una volta arrivato in cima, la posizione sopraelevata mi ha fatto capire che per tutto quel tempo non avevamo fatto altro: a non più di cinque chilometri di distanza, il bosco si apriva e il gruppo delle nostre case si distingueva nel chiarore lunare.
Antonio era fermo sul fondo della scarpata. Voltava la testa da una parte e dall’altra, urlando con durezza il nome del figlio, come se lo stesse cercando per punirlo. Il mostro aveva fatto perdere le sue tracce. Ho raggiunto lo Zotico ai piedi del rilievo con l’intenzione di spaccargli quella testa pelata con il calcio del fucile, ma lui deve avermi sentito arrivare. Si è voltato e mi ha puntato contro il fucile. Mi sono maledetto per essermi fatto tanti scrupoli a sparargli. Lui non sembrava averne.
«Abbassa il fucile, Antonio. Non ci risolviamo niente con quello.»
«Te l’avevo detto di non venire. L’avevo detto anche all’amico tuo. E ora guarda che casino.»
Ha iniziato a piangere, tirando rumorosamente con il naso tra una frase e l’altra.
«Da quanto tempo lo sai?» gli ho chiesto.
«Maledizione!»
In un momento di stanchezza ha abbassato l’arma, ma è stato svelto a rialzare la canna quando ho fatto segno di volermi avvicinare. Con una mano si è tolto qualche lacrima dal cuoio che aveva per faccia.
«Avevo notato che era cambiato. Usciva di notte. Saliva sul tetto. Era diventato molto più forte: ha rotto i manici di non so quante zappe.»
Intorno a noi avevano iniziato a sentirsi dei fruscii. C’era qualcosa in movimento nel bosco, ma era molto più piccolo rispetto alla bestia che avevamo inseguito.
«Pensavo fosse solo un po’…» Antonio cercava la parola giusta, ma alla fine si è dovuto arrendere. «Non lo so. Poi ho trovato la pecora dietro casa… il sangue… le budella… la testa era sotto il suo letto… Io e Rita siamo stati anche dal prete, giù in paese, ma non ci ha creduto. L’abbiamo chiuso nel capanno, ma non è servito. E ora Giovannino…»
Antonio ha buttato il fucile a terra e si è abbandonato in ginocchio, come in attesa della punizione. E quella, in un certo senso, è arrivata. Dai cespugli è uscito il ragazzino, Giuseppe, nudo come un verme, sporco di terra e con foglie secche attaccate al torace. Aveva sangue sulle braccia e sul volto.
«Papà?»
Antonio è scattato in piedi e si è precipitato a circondarlo con le sue braccia forti, singhiozzando come un agnello.
«Papà, perché non me l’hai detto?» ha chiesto Giuseppe. Abbracciava il padre e singhiozzavano insieme all’unisono, come un duetto affiatato. Papà Zotico ai bassi e lo Zoticino tenore.
«Ho avuto paura,» ha continuato il ragazzo.
Non ho potuto fare a meno di notare quanto fosse peloso, troppo per un adolescente, ma ormai la cosa non mi stupiva. Poi il pianto di Giuseppe si è spento in un sorriso e ho visto che anche i denti erano strani. Appuntiti, sporchi. Mi è sembrato ci fosse qualcosa di rosso incastrato in mezzo. Quando li ha affondati nel collo di Antonio era già troppo tardi, ma ho alzato lo stesso il fucile. Avrei voluto fare fuoco, ma Giuseppe era già scomparso.
C’era solo lo Zotico che strisciava verso il fucile, tenendosi una mano premuta sul collo. Il sangue gli colava tra le dita, indifferente ai suoi tentativi di sopravvivere.
«Aiutami!» ha rantolato. Era rivolto a me, ma non mi sarei avvicinato di un passo a quel bastardo per tutto l’oro del mondo.
«Stai zitto!» gli ho sibilato. Scrutavo la vegetazione intorno con l’occhio fisso sul mirino, ma c’erano solo foglie e rami. Ero stato troppo ottimista e l’alba mi era sembrata più vicina di quanto non fosse in realtà. Solo poche ore prima desideravo che questa notte non finisse mai. Ora pregavo per un po’ di chiarore che mi facesse capire su cosa puntavo il fucile.
Qualcosa si è mosso alla mia destra. Ho ruotato sui tacchi e ho fatto fuoco in quella direzione. Ho mantenuto abbastanza sangue freddo da non premere entrambi i grilletti contemporaneamente e non trovarmi così senza cartuccia pronta. Niente. Il colpo era andato a vuoto.
«No!» urlava Antonio.
«Zitto!»
Il bosco intorno sembrava vibrare come se fosse un impaziente organismo famelico. Trattenevo il fiato per non fare il minimo rumore e restare in ascolto, ma poi iniziavo a sentire il cuore martellare sui timpani. Ho lasciato perdere. Mi sono chiesto se mi convenisse ricaricare, ma nel tempo che mi sarebbe occorso sarebbe potuto succedere di tutto. Ho preferito tenere quell’unico colpo.
Poi un ruggito alle mie spalle, terrificante. Mentre mi voltavo sono quasi caduto, ma ho mantenuto l’equilibrio con la forza della disperazione. Davanti a me c’era Giuseppe, solo che non era affatto Giuseppe. Credo che la mia mente non sia riuscita ad accettare ciò che vedevo. Di certo mi ricordo quei denti sporchi, enormi come se non esistesse nient’altro, incastonati come lapidi storte in quelle gengive nere.
Le mani si sono mosse indipendentemente dalla mia volontà. Ho sollevato ancora una volta il fucile e sarei anche riuscito a sparare – il bersaglio era enorme e a non più di qualche metro di distanza – se non fosse stato per l’ultimo stupido gesto dello Zotico.
Ho sentito lo sparo e subito decine di aghi che mi trapassavano i vestiti, la pelle, e mi riempivano il fianco, lì dove si è accumulato un po’ di grasso dopo anni di ufficio. Sono caduto a terra e l’ultima cosa che ho visto è stata la bestia che incombeva su di me e mi fissava. Questa volta sono riuscito a registrare anche gli occhi. Facevano la spola tra me e Antonio e, nonostante avessero poco di umano, riuscivo a leggervi un odio sconfinato nei confronti di entrambi. Forse era rivolto al mondo intero.
C’era qualcos’altro, in fondo a quei pozzi neri, che in un primo momento non sono riuscito ad afferrare. Ma quando ha rinunciato a sventrarmi e mi ha invece lasciato moribondo in questo bosco, dirigendosi verso le case – verso le nostre famiglie e quello che rimaneva della sua – allora ho capito. Voleva che io sapessi. L’ecatombe non era ancora terminata.
Ho aperto il giubbotto e ho sollevato i brandelli di camicia impiastricciati. La ferita era davvero brutta. Ho stretto i denti fino a pensare che me li sarei rotti, ma non sono riuscito a rimettermi in piedi. Dovevo sbrigarmi, o la bestia sarebbe arrivata alle case. Ho guardato Antonio, ma lui aveva già rinunciato. Aveva perso la sua lotta contro l’emorragia e ora giaceva immobile con la faccia di cuoio verso il cielo. Ho iniziato a strisciare.
FINE
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July 9, 2018
Joe R. Lansdale – Trilogia del drive-in [Recensione]
Prendiamo carta e penna e appuntiamo sul foglio bianco cosa sappiamo dei drive-in. Per esperienza diretta? Assolutamente nulla, a parte l’omonimo programma che ha lanciato la carriera di personaggi come Giorgio Faletti (a proposito, mi è tornata voglia di leggere Io uccido). Se invece consideriamo l’immaginario collettivo, proveniente dallo tsunami di cultura americana che ci ha travolti e sommersi, riusciamo a costruirci un’immagine molto chiara di una distesa di centinaia di auto parcheggiate davanti a uno schermo gigante. È una scena da film che narra di gente che a sua volta guarda film, in un circolo che non si è interrotto con il passaggio degli anni ’80, ma ha continuato a sopravvivere nei nostalgici ricordi di noi italiani teledipendenti.
Ovviamente, un pezzo così importante del mosaico americano non poteva sottrarsi al mostro della fiction horrorifica e l’esempio maggiore è la trilogia di Joe R. Lansdale “La notte del drive-in”, pubblicata a partire dal 1983 e arrivata in Italia sotto vari titoli. Se qualcuno mi chiedesse di esprimere un parere sull’opera di Lansdale, non potrei articolarlo meglio di questo commento trovato su Goodreads:
It’s like if Lewis Carroll and a psychopath dropped acid, then had a baby and that baby took shrooms and wrote a book.
Già, proprio così. La trilogia è un’auto truccata spinta oltre il limite del buonsenso, una distesa di violenza disumana narrata attraverso gli occhi di un ragazzo texano e filtrata poco e male, il che la rende largamente accettabile. Dopo che Jack (il narratore) e i suoi amici Bob e Randy, una volta arrivati all’Orbit per una maratona di film horror vi rimangono imprigionati a causa di una non meglio identificata cometa rossa, le uccisioni, gli stupri, gli episodi di cannibalismo e le crocifissioni si susseguono come in un sanguinoso b-movie sfuggito alle maglie della censura.
Man mano che si avanza nella narrazione, le atrocità vengono raccontate sempre con maggiore naturalezza e per i protagonisti la lotta per la sopravvivenza diventa la quotidianità. Certo, qualche perplessità può anche sorgere quando due uomini vengono fusi insieme da un fulmine che li trasforma in una specie di semidio, ma queste sono sottigliezze. Non ci siamo forse abituati anche noi alla violenza di tutti i giorni? Non dovremmo sentirci un po’ più colpevoli e meno indifferenti?
Il primo episodio, La notte del drive-in, è diventato negli anni un cult della letteratura horror ma i suoi seguiti non sono, a mio avviso, della stessa caratura. Il secondo capitolo, dal terrificante titolo italiano de Il giorno dei dinosauri, ricalca il predecessore ma risulta più debole, forse per il fatto di non avere un villain all’altezza del Re del Popcorn (il semidio di cui si parlava prima). Popalong Cassidy ne è solo una pallida imitazione, un bamboccione sadico che si atteggia a nuovo Messia del tubo catodico. Nel romanzo conclusivo, La gita per turisti, più articolato e riflessivo, si cerca di dare al tutto una giustificazione metafisica, ma pesa il fatto di essere stato scritto ventidue anni dopo il primo, la cui freschezza è solo un miraggio. Le voci dei personaggi iniziano ad assomigliarsi tutte ed è difficile in certi punti distinguere i personaggi secondari. E vi prego: qualcuno mi dica che fine ha fatto Bob, perso tra il secondo e il terzo libro.
Nel bene e nel male, la trilogia del Drive In è comunque un’esperienza difficilmente ripetibile e, in particolare per quanto riguarda La notte del drive-in, qualcosa di immancabile nella libreria del bravo lettore horror. Anche perché non è facile trovare in giro qualcuno capace di creare tali sboccate gemme come Lansdale.
June 11, 2018
Joe Hill – NOS4A2 – Ritorno a Christmasland [Recensione]
Le premesse da cui parte Hill non sono delle più originali: vi sono individui che riescono a piegare la realtà con la loro mente, creando passaggi e mondi che esistono solo a determinate condizioni, veicolati da oggetti di significato particolare (state pensando agli horcrux? Fate bene. Sono anche citati nel romanzo). Proprio come ci sono individui buoni o cattivi, queste produzioni dell’intelletto possono essere fantastiche o terribili.
La protagonista, Victoria McQueen, non ha vissuto una bella infanzia, complici un padre con la mano pesante nei confronti della madre, ansiosa e depressa oltre che iperprotettiva, e la capacità di evocare un ponte che può portarla ovunque desideri. Vic lo usa per ritrovare gli oggetti smarriti dai genitori o dagli amici, ma il viaggio ha delle conseguenze, dapprima impercettibili, che scalfiscono volta dopo volta la sua mente. Durante una delle sue peregrinazioni, incontra Maggie, che ha il dono della chiaroveggenza grazie alle tessere del domino, una capacità che però le provoca la balbuzie. Questa eccentrica bibliotecaria mette in guardia la protagonista da un uomo in particolare, Charles Talent Manx, che usa un dono del tutto simile al loro per portare i bambini nell’oscuro e misterioso Christmasland. Come Vic ha la sua bicicletta per materializzare il ponte, Manx vive in simbiosi con la sua Rolls Royce del ’38.
Dopo un primo scontro, la bambina riesce a sopravvivere all’orrore di Manx, che però si ripresenta dopo molti anni a chiedere vendetta: rapisce Wayne, il figlio di Vic, con l’intenzione di aumentare la popolazione di Christmasland.
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NOS4A2 (capito il giochino nel titolo?) è un romanzo più che godibile che però pecca di eccessiva lunghezza: la parte centrale risulta pesante e ripetitiva, svolgendosi soprattutto nell’abitacolo della Rolls Royce di Manx e a casa di Vic, dove lei viene ripetutamente interrogata dall’FBI dopo la scomparsa del figlio. Si tratta però di uno scoglio facilmente superabile che permette di approfondire il passato e la psicologia dei vari personaggi, primari e secondari, e che porta a un finale pirotecnico e soddisfacente. Forse eccessivo spazio viene dato alla protagonista principale, con i suoi dilemmi da madre e le crisi da ex abitué di case di cura, mentre ci sarebbe stata tutta una platea di personaggi che avrebbero meritato più attenzione.
Primo tra tutti Lou, compagno di Vic, motociclista obeso dal cuore d’oro che farà la felicità dei nerd: come si fa a non voler bene a qualcuno che chiama il proprio figlio Bruce Wayne? La sua sorte non potrà che procurare al lettore qualche palpitazione. Sul lato dei cattivi avrei voluto più spazio per il Gasmask Man, psicopatico armato di gas stordente con una passione per l’omicidio e lo stupro, spalla del luciferino Manx. Se ne sarebbe potuto fare un cattivo da annali dell’horror. Peccato.
Riallacciandoci con le premesse: siamo davanti al degno erede di King? Troppo presto per dirlo, per due motivi:
1) NOS4A2 è il terzo romanzo di Joe Hill. Avevo già letto “La scatola a forma di cuore”, suo primo lavoro lungo, e non mi era sembrato un capolavoro, soprattutto perché continuavo a vedere il protagonista come Tom Araya degli Slayer. Il miglioramento è stato esponenziale, ma nonostante Hill abbia saputo prendere un topos classico dell’horror e renderlo qualcosa di originale, gli manca ancora la capacità di creare personaggi memorabili, che sono il marchio di fabbrica del padre. Ho sul comodino “Horns” (detesto il titolo italiano “La vendetta del diavolo”) e vedrò se posso essere smentito.
2) Devo ancora leggere qualcosa di Owen King, l’altro figlio scrittore dello Zio, e dare una chance anche a lui. Bisogna fare le cose per bene: dopotutto, si parla del futuro della narrativa horror, o dite che esagero?
June 1, 2018
Lezioni di danza [Racconto]
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***
Ci sono diversi modi di essere cattive madri, pensò la dottoressa Sarto. Potrei essere un’alcolizzata che picchia la figlia una sera sì e l’altra pure, che si dimentica di lei in auto quando va a giocare alle slot. Oppure avrei potuto abbandonare Antonia appena nata.
Milena sospirò. L’ultima soluzione le sembrava la più facile: far sì che quel buono a nulla di Pietro ottenesse l’affidamento.
Invece ho scelto la via più lunga.
Fece entrare con cura la Mercedes nel posto a lei riservato. Il parcheggio era vuoto, a parte la disastrata monovolume di Paolo. Il solo pensare alla guardia con cui avrebbe dovuto condividere il laboratorio per tutta la notte le fece fare una smorfia nauseata. Vide nello specchietto retrovisore le rughe intorno alla bocca incresparsi. Erano le prime che iniziavano a farsi notare.
Nasciamo. Studiamo. Sperimentiamo. Se siamo fortunati scopriamo qualcosa di più. Invecchiamo e moriamo.
Il trillo del cellulare la fece sobbalzare. Rovistò per una paio di secondi nella borsa prima di trovare il dannato aggeggio, annaspando in mezzo a blocchi di appunti e cancelleria varia mentre il Bolero di Ravel continuava a chiamarla.
Rispose senza guardare il numero, temendo di non fare in tempo.
«Pronto, Milena?» disse una voce arrochita dall’altro capo.
La dottoressa Sarto sospirò.
«Sì mamma, che c’è?»
«Antonia sta facendo il diavolo a quattro.»
«Ti ho già detto di non usare quell’espressione.»
«Sono sessantacinque anni che mi esprimo in questo modo, e non ti sei mai lamentata.»
Milena chiuse gli occhi, dominando l’impulso di spaccare il cellulare sul cruscotto. Ormai era quasi un pezzo grosso, ma due telefoni aziendali rotti in un mese avrebbero destato più di una perplessità.
«Te lo chiedo per piacere personale. Puoi?»
«Sei tutta stramba ultimamente. Comunque, Antonia fa i capricci. Ha avuto una crisi di pianto e adesso non vuole andare al saggio.»
«Fa continuamente i capricci, è una bambina. Preparala e portacela.»
«Ma tu non riesci proprio a venire?»
«No, mamma, ne abbiamo già parlato. Non mi fare innervosire di nuovo.»
«Aspetta, vuole parlarti.»
Fruscii e borbottii confusi. Milena si chiese se fosse troppo tardi per simulare un disturbo della linea.
«Mamma?»
«Amore, come stai?»
«Sono triste, quando arrivi? Nonna non mi sa fare lo chignon.»
«Amore, la mamma deve lavorare stasera. Vengo la prossima volta. Dai, passami la nonna.»
«Ma io non ci voglio andare.»
«Ma sì che ci devi andare. Così tutti potranno vedere quanto sei brava.»
«Tu eri brava? Nonna dice che eri bravissima e che hai vinto le medaglie.»
«Se lo dice la nonna…»
«E perché non fai più la ballerina?»
«Amore devo andare al lavoro. Non…»
«Ma io lo voglio sapere!»
La vocina da cartone animato era diventata un’unghia su una lavagna e Milena temeva che le avrebbe perforato il timpano se non avesse risposto.
«Perché mi sono fatta male. Frattura scomposta del malleolo tibiale destro. Contenta?»
«Anche io mi farò male?»
«No, tesoro. Non ti succederà nulla. C’è la nonna con te.»
«Sei cattiva.»
Milena rimase ad ascoltare il suono ritmico e severo della linea libera per qualche secondo, poi lanciò il cellulare nella borsa e scese dalla macchina.
Dio mio, certe volte avrebbe proprio bisogno di due ceffoni.
Si portò le mani alla bocca, come se il cielo notturno fosse in ascolto. Si incamminò verso l’edificio di acciaio e vetro che ospitava i laboratori. Era scesa un po’ di nebbia e tutto sembrava già abbastanza sinistro senza che lei si facesse prendere da pensieri strani.
Il campanello dell’ascensore suonò e le porte iniziarono ad aprirsi. Paolo interruppe a metà la linea che stava tracciando e si affrettò – per quanto glielo permettesse la sua maledetta goffaggine – a nascondere il blocco di fogli e il carboncino nel cassetto della scrivania. Chiunque fosse uscito dall’ascensore non avrebbe potuto fare a meno di notare che non stava facendo il suo dovere – vigilare, vigilare sempre, controllare – e se fosse stato quel cornuto di Stefano, il supervisore, questa volta Paolo avrebbe perso il posto. Era stato suo zio a trovarglielo e già immaginava le scenate se lo avessero licenziato.
Tirò un sospiro di sollievo quando vide il bel faccino della dottoressa Sarto. Come tutti i cervelloni che giravano in quel posto, aveva il naso immerso nelle scartoffie ancor prima di entrare in ufficio. In ogni caso, la guardia scattò in piedi e nascose le dita sporche di carboncino dietro la schiena. Petto in fuori, pancia in dentro.
«Buonasera, dottoressa» esclamò, forse un po’ più forte di quanto avesse voluto.
«Buonasera» rispose lei, alzando lo sguardo dagli appunti giusto per una frazione di secondo, prima di dirigersi verso il corridoio che portava alla sua stanza.
Certo che per avere la sua età la dottoressa ha proprio un bel cofano, pensò Paolo mentre si gustava la sfilata. Quando sapeva che non c’erano i suoi colleghi cervelloni, la Sarto indossava tuta, felpa e scarpe da ginnastica, ma era lo stesso uno spettacolo.
Mentre Paolo era così rapito, Milena si fermò di colpo, voltandosi verso di lui. Il sangue abbandonò il viso di Paolo per poi essere subito pompato con violenza nelle guance. Già pensava a come giustificarsi per quello sguardo insistente.
«Ha già mangiato?» chiese invece la Sarto.
«Veramente mi sono portato un panino» balbettò la guardia. «Se vuole facciamo a metà.»
«Non tu. Lei» sbuffò la dottoressa.
«Ah. Sì, le ho portato da mangiare. Nessun problema.»
«Le hai parlato?»
Anche se non si svenava per adempiere ai suoi compiti, Paolo aveva ben chiari quali erano i limiti da non superare in nessun caso.
«Ho l’ordine di non parlarle e di limitarmi al passaggio del vassoio attraverso la fessura. In ogni caso non c’è possibilità di comunicazione perché lo scompartimento si apre da un solo lato per volta» rispose.
«Bravo» disse infine lei. Si girò di nuovo e si avviò verso l’ufficio.
Paolo tirò un sospiro di sollievo e la sua pressione sanguigna tornò normale, ma non rinunciò agli ultimi istanti della passerella.
Quando Milena scomparve dalla sua visuale, Paolo si stravaccò di nuovo sulla sua sedia e tirò fuori dal cassetto i fogli di carta che aveva nascosto. Ricominciò a tracciare linee fuligginose su tutto quel bianco, cercando di riprendere i filo della sua immaginazione. Andava molto fiero della sua fantasia. Se le cose fossero andate meglio, con gli agganci giusti sarebbe potuto diventare un illustratore famoso. Ma quella sera era felice. Molto più sereno di quanto non fossero le sue notti. Sul foglio iniziava a prendere forma la figura di una bambina danzante. Faceva fluttuare un nastro che nel suo universo di carta era grigio, ma che nella testa di Paolo era di una tenue sfumatura di rosso, quasi rosa. Girava e girava. La bambina sembrava contenta e anche Paolo lo era. Da un paio di minuti sentiva nel cervello una musica… Anzi, un canto senza parole, e anche lui avrebbe voluto mettersi a danzare.
[…]
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