Irene Colabianchi's Blog
December 28, 2022
CAPITOLO DIECI
La sveglia suona all’una della notte.
Mi strofino gli occhi e premo ripetutamente il dito sul tastino della sveglia, prima che il rumore fastidioso cessi. Sono andata a letto alle sette della sera, per dormire abbastanza, eppure mi sembra d’essermi addormentata da nemmeno cinque minuti.
Sbuffo e già immagino che Remo sia nel garage, ad aspettarmi e scaldare il motore. Figurati, non sarà nemmeno andato a dormire, abituato ai suoi ritmi serrati da imperturbabile sicario.
Mi giro e rigiro tra le coperte: devo presentarmi alle due nel garage, ho ancora qualche minuto per riposare gli occhi ed essere più carica. Forte di questo pensiero, mi rannicchio contro il cuscino e sorrido nel pensarmi più furba di Remo.
Devo essermi appisolata, però, più di qualche minuto, perché quando apro gli occhi la sveglia indica che mancano dieci minuti alle due. Impreco sottovoce e mi alzo di scatto, ritrovandomi stordita dal movimento brusco, mentre la testa inizia a girare come una trottola.
Sono proprio una stupida, contando sull’idea di non dovermi vestire in chissà quale modo particolare, o quanto meno elegante, ho creduto d’essere più intelligente.
Stupida, Tati, tuo padre non si perderebbe mai in queste sciocchezze…
“Fai con comodo, figurati”.
Sono così rimbambita che mi sembra perfino di sentire la voce di Remo.
Mi passo una mano sul viso e rimango ferma, per bloccare il mondo che gira nella stanza. Quando riapro gli occhi, una figura sfumata si delinea velocemente sulla poltrona davanti alla finestra e la luce del cielo, unita a quella della lampadina a parete, mi restituisce la figura di Remo, seduto a osservarmi con aria truce.
Sobbalzo e arretro di qualche passo, facendo scricchiolare le doghe di legno del pavimento sotto i piedi. “Cosa… come ti permetti?”
Che ci fa nella mia camera e con che faccia tosta è entrato senza nemmeno bussare. E, soprattutto, perché mi stava osservando e… da quanto tempo poi?
Remo si alza, sfiorando con i capelli il tetto a mansarda e per poco non picchia la testa sulle travi. Lascia scivolare sulla poltrona il cuscino che teneva sulle gambe e rimane lì, fermo, ad osservarmi. “Posso permettermi qualsiasi cosa, Tatiana. Ora preparati, la mia pazienza è capace di esaurirsi in pochi secondi”.
Lo guardo male. “Sono ancora in tempo per l’appuntamento delle due” ribatto indicando la sveglia sul comodino. “Se tu non fossi qui, adesso non avrei perso tutto questo tempo”.
Lui solleva il braccio e guarda l’orologio con tutta calma, quindi solleva un sopracciglio. “Allora sarebbe meglio non perdere un altro minuto, non trovi?”
Annuisco, però poi scuoto la testa rendendomi conto del suo tono. Vorrei rispondere allo stesso modo, almeno, ma non lo faccio o gliela darei vinta, sprecando solo del tempo prezioso e non voglio di certo deludere papà. Già so che Remo riferirà tutto, ovviamente.
Tanto vale cercare di recuperare agli errori.
Siccome immagino non sarà una prova facile, quella nella foresta, volevo almeno organizzarmi bene, indossare qualcosa di caldo e impiegare del tempo per evitare di stare male dopo, ma in fin dei conti nemmeno i cadetti di mio padre hanno tutto questo lusso, quindi perché io dovrei essere l’eccezione? Mi riduco ad affondare con tutto il corpo nell’armadio, mandandolo all’aria.
Non sono mai uscita di notte, o almeno non nella foresta. E immagino perfettamente quanta umidità e quanto gelo impregnerà l’aria.
Lancio un’occhiata a Remo per fargli capire che è meglio che si giri, visto che devo cambiarmi, ma lui rimane lì. Anzi, si accomoda nuovamente sulla poltrona, facendo cadere con assoluta calma e maleducata disinvoltura il cuscino sul pavimento, per poi sistemarsi comodo, stendendo addirittura le gambe avanti a sé.
“Potresti… uscire per favore?”
Lui mi fissa senza dire niente.
“Così che io possa cambiarmi?”
Remo sogghigna. “Credi che mi possa interessare il corpo della figlia del mio capo?”
La sua domanda mi lascia sospesa. Non capisco come reagire alle sue parole: sono indecisa se rimanere offesa o se lasciarmele scivolare di dosso. Non ci sarebbe motivo per offendersi, in fondo lui non è nessuno per me, eppure, una parte di me, reagisce a questo commento, sentendosi insicura, mediocre, invisibile.
“Sto tentando di insegnarti a spingerti oltre i tuoi limiti” aggiunge con voce serafica, come se fosse un rimprovero.
Deglutisco e lo fisso per qualche secondo: io non sono un sicario come lui, non ho bisogno degli stessi trattamenti che hanno riservato a lui. Non mi importa se è stato spogliato o meno di fronte a un teatro di persone per superare l’imbarazzo, a me non spetta il futuro da esecutrice. Ma quello di condottiero…
Però… ripensandoci… Sbuffo. Mio padre ha sicuramente ragione: devo essere forgiata e tutto questo fa parte della “recita”.
Remo si alza e viene verso di me. “Se non riesci a spogliarti di fronte a un uomo, cosa farai in una situazione in cui dovrai superare l’imbarazzo per salvarti?”
Arretro di qualche passo e gli lancio un’occhiataccia. “Non credo mi troverò mai in una situazione simile”.
Lui dà uno sguardo alla mia sveglia e sorride. “Stai perdendo tempo”. Sbuffa e si appoggia al muro, ficcando le mani nelle tasche dei pantaloni cargo. “Non credo che tuo padre sarà molto soddisfatto, quando domani gli dirò della tua mancanza di disciplina”.
Ha appena toccato un tasto dolente.
Sa benissimo che il mio rispetto nei confronti di papà è totale e che il suo onore per me è più importante di qualsiasi altra cosa. Lo sa perché vale lo stesso per lui. Glielo leggo negli occhi ogni volta che lo vedo eseguire un ordine di mio padre, o addestrare gli uomini al campo e nel capanno. Sono un ordine, quindi? Un compito da eseguire… non una persona capace di provare imbarazzo o emozioni.
Prima me lo metto in testa, meglio sarà per me.
Bene, a lui non interessa niente di me, quindi non gli interesserà niente del mio corpo, l’ha detto proprio poco fa.
Non ho mai provocato un uomo che non fosse il mio ragazzo. Non siamo cresciute per diventare delle dee fatali. Ma Remo ha ragione: perché non spingermi oltre il limite?
Faccio per levarmi la canottiera, quando mi blocco d’improvviso nel ricordarmi che alle mie spalle c’è Remo e che non indosso il reggiseno per dormire. Lo guardo di sottecchi da dietro la spalla e lui sbuffa, impaziente.
Quando mi sfilo la canottiera, ho i brividi sulla pelle. Socchiudo la bocca e fisso lo sguardo sul pavimento, mentre sento Remo alle mie spalle sistemarsi comodo. I miei capezzoli, per il freddo, si inturgidiscono e iniziano a tirare, consapevoli dell’imbarazzo che mi imporpora le guance.
Non so cosa voglio ottenere, forse voglio solo tentare di provocarlo.
Ma in ogni caso, tutto questo è tremendamente nuovo per me. Deglutisco, terrorizzata e sconvolta allo stesso tempo dalla mia audacia: sentire il suo sguardo nelle docce mi ha umiliata, poiché non gli avevo dato il permesso di guardarmi, ma ora sto quasi decidendo io.
Voglio procedere con questo mio gioco e allo stesso tempo fuggire via. Sia per la sensazione di freddo che per l’imbarazzo, mi tremano le mani mentre mi scosto i capelli e li lascio cadere in lunghi boccoli sui miei seni, fino a coprirli. Avverto il mio respiro incastrarsi nella gola, il gelo è caduto nella stanza e ora ha preso le sembianze di un mostro che mi strizza la gola.
Le mani non riescono a smettere di tremare e il cuore a battere, e impazzisce quando lascio cadere a terra anche i pantaloni del pigiama. I miei glutei, esposti a lui e coperti dal sottile strato delle mutandine, si contraggono quando percepisco lo sguardo di Remo su di me. Il gelo serra i suoi artigli intorno alle mie ossa e sussulto quando sento le doghe del pavimento scricchiolare.
Dei passi alle mie spalle… una presenza calda e massiccia sempre più vicina… il mio cuore accelera con la stessa potenza con cui continuano a scricchiolare le doghe di legno.
Il sangue mi pulsa nelle orecchie, corre nelle vene e una sensazione estrema, carnale, serpeggia tra le mie cosce e mi fa irrigidire. Non faccio in tempo a voltarmi, che le mani calde di Remo mi sfiorano la pelle della schiena, facendomi trasalire. Sgrano gli occhi nell’avvertirlo così vicino e presente, così caldo e umano contro di me. Le sue dita toccano la mia pelle mentre il mio respiro stride in un suono strozzato.
Non emetto una parola, sono completamente ammutolita dalla trappola che pensavo di riservargli, ma che mi si è ritorta contro. Rapita dal suo calore e dalla durezza delle sue mani, così tanto grandi e forti da potermi afferrare e ribaltare, mi sembra surreale quando i suoi palmi si aprono sulle mie braccia e le sue dita mi sfiorano la parte laterale dei seni.
“Madre Siberia”. Una preghiera sussurrata scivola dalle mie labbra e chiudo gli occhi, scongiurando silenziosamente Remo di lasciarmi andare. Aveva detto che non gli importa della figlia del capo clan, che il mio corpo non gli interessa.
E ora sono confusa dall’idea che la mia provocazione abbia sortito effetto…
Deglutisco e socchiudo le labbra, mentre curiosa, da sopra la spalla, lo osservo carezzarmi le braccia con tocco deciso. Le sue dita scivolano fino ai miei polsi e passa i polpastrelli sulle mie vene pulsanti, deliziandosi nel riconoscere che non sono affatto insensibile. Un respiro strozzato mi fa tremare il petto nel sentire che, con una mano, invece, risale fino a sfiorare di nuovo il seno e si ferma alla base del mio collo.
In un gesto repentino, mi fa voltare verso lo specchio sopra la cassettiera. I nostri corpi urtano il mobile e le matrioske sul ripiano tremano insieme a me, minacciando quasi di cadere. Un vortice di stelle e delirio mi gira intorno quando Remo serra la mano intorno al mio collo e mi obbliga a guardarci nel riflesso, mentre un sorrisetto scaltro si stampa sul suo volto.
“Sono capace di resistere a qualsiasi provocazione”. Le sue labbra si avvicinano al mio orecchio, ma il suo sguardo è incatenato al mio nello specchio. “Anche di fronte al corpo nudo di una bella donna”.
Inspiro profondamente ed emetto un lieve singulto. Il suo addome preme contro la mia schiena, le sue ginocchia sono piegate e mi obbligano quasi ad inginocchiarmi sul pavimento. È pronto a farmi il lavaggio del cervello.
Mi afferra il polso e lo posiziona bene sul mobile, spazzando via da un lato le matrioske a cui tanto tengo. Lo fa con cattiveria e per un attimo vorrei infuriarmi per la paura che si rompano, ma un’altra sensazione sopraggiunge, quella d’essere stata bloccata del tutto. Con il palmo premuto ancora contro la trachea, le dita mi afferrano il mento e mi tengono ferma.
Fa male. Ho dolore ovunque.
“Presto diventerai brava e obbediente, e presto non verrai più considerata un inutile oggetto per il diletto dell’uomo, ma una figlia onorevole e meritevole di questo posto nel clan”.
Corrugo la fronte: le sue parole mi squarciano il petto.
“E ora sbrigati, non ho più tempo da perdere”.
Addestramento siberiano
Mi strofino gli occhi e premo ripetutamente il dito sul tastino della sveglia, prima che il rumore fastidioso cessi. Sono andata a letto alle sette della sera, per dormire abbastanza, eppure mi sembra d’essermi addormentata da nemmeno cinque minuti.
Sbuffo e già immagino che Remo sia nel garage, ad aspettarmi e scaldare il motore. Figurati, non sarà nemmeno andato a dormire, abituato ai suoi ritmi serrati da imperturbabile sicario.
Mi giro e rigiro tra le coperte: devo presentarmi alle due nel garage, ho ancora qualche minuto per riposare gli occhi ed essere più carica. Forte di questo pensiero, mi rannicchio contro il cuscino e sorrido nel pensarmi più furba di Remo.
Devo essermi appisolata, però, più di qualche minuto, perché quando apro gli occhi la sveglia indica che mancano dieci minuti alle due. Impreco sottovoce e mi alzo di scatto, ritrovandomi stordita dal movimento brusco, mentre la testa inizia a girare come una trottola.
Sono proprio una stupida, contando sull’idea di non dovermi vestire in chissà quale modo particolare, o quanto meno elegante, ho creduto d’essere più intelligente.
Stupida, Tati, tuo padre non si perderebbe mai in queste sciocchezze…
“Fai con comodo, figurati”.
Sono così rimbambita che mi sembra perfino di sentire la voce di Remo.
Mi passo una mano sul viso e rimango ferma, per bloccare il mondo che gira nella stanza. Quando riapro gli occhi, una figura sfumata si delinea velocemente sulla poltrona davanti alla finestra e la luce del cielo, unita a quella della lampadina a parete, mi restituisce la figura di Remo, seduto a osservarmi con aria truce.
Sobbalzo e arretro di qualche passo, facendo scricchiolare le doghe di legno del pavimento sotto i piedi. “Cosa… come ti permetti?”
Che ci fa nella mia camera e con che faccia tosta è entrato senza nemmeno bussare. E, soprattutto, perché mi stava osservando e… da quanto tempo poi?
Remo si alza, sfiorando con i capelli il tetto a mansarda e per poco non picchia la testa sulle travi. Lascia scivolare sulla poltrona il cuscino che teneva sulle gambe e rimane lì, fermo, ad osservarmi. “Posso permettermi qualsiasi cosa, Tatiana. Ora preparati, la mia pazienza è capace di esaurirsi in pochi secondi”.
Lo guardo male. “Sono ancora in tempo per l’appuntamento delle due” ribatto indicando la sveglia sul comodino. “Se tu non fossi qui, adesso non avrei perso tutto questo tempo”.
Lui solleva il braccio e guarda l’orologio con tutta calma, quindi solleva un sopracciglio. “Allora sarebbe meglio non perdere un altro minuto, non trovi?”
Annuisco, però poi scuoto la testa rendendomi conto del suo tono. Vorrei rispondere allo stesso modo, almeno, ma non lo faccio o gliela darei vinta, sprecando solo del tempo prezioso e non voglio di certo deludere papà. Già so che Remo riferirà tutto, ovviamente.
Tanto vale cercare di recuperare agli errori.
Siccome immagino non sarà una prova facile, quella nella foresta, volevo almeno organizzarmi bene, indossare qualcosa di caldo e impiegare del tempo per evitare di stare male dopo, ma in fin dei conti nemmeno i cadetti di mio padre hanno tutto questo lusso, quindi perché io dovrei essere l’eccezione? Mi riduco ad affondare con tutto il corpo nell’armadio, mandandolo all’aria.
Non sono mai uscita di notte, o almeno non nella foresta. E immagino perfettamente quanta umidità e quanto gelo impregnerà l’aria.
Lancio un’occhiata a Remo per fargli capire che è meglio che si giri, visto che devo cambiarmi, ma lui rimane lì. Anzi, si accomoda nuovamente sulla poltrona, facendo cadere con assoluta calma e maleducata disinvoltura il cuscino sul pavimento, per poi sistemarsi comodo, stendendo addirittura le gambe avanti a sé.
“Potresti… uscire per favore?”
Lui mi fissa senza dire niente.
“Così che io possa cambiarmi?”
Remo sogghigna. “Credi che mi possa interessare il corpo della figlia del mio capo?”
La sua domanda mi lascia sospesa. Non capisco come reagire alle sue parole: sono indecisa se rimanere offesa o se lasciarmele scivolare di dosso. Non ci sarebbe motivo per offendersi, in fondo lui non è nessuno per me, eppure, una parte di me, reagisce a questo commento, sentendosi insicura, mediocre, invisibile.
“Sto tentando di insegnarti a spingerti oltre i tuoi limiti” aggiunge con voce serafica, come se fosse un rimprovero.
Deglutisco e lo fisso per qualche secondo: io non sono un sicario come lui, non ho bisogno degli stessi trattamenti che hanno riservato a lui. Non mi importa se è stato spogliato o meno di fronte a un teatro di persone per superare l’imbarazzo, a me non spetta il futuro da esecutrice. Ma quello di condottiero…
Però… ripensandoci… Sbuffo. Mio padre ha sicuramente ragione: devo essere forgiata e tutto questo fa parte della “recita”.
Remo si alza e viene verso di me. “Se non riesci a spogliarti di fronte a un uomo, cosa farai in una situazione in cui dovrai superare l’imbarazzo per salvarti?”
Arretro di qualche passo e gli lancio un’occhiataccia. “Non credo mi troverò mai in una situazione simile”.
Lui dà uno sguardo alla mia sveglia e sorride. “Stai perdendo tempo”. Sbuffa e si appoggia al muro, ficcando le mani nelle tasche dei pantaloni cargo. “Non credo che tuo padre sarà molto soddisfatto, quando domani gli dirò della tua mancanza di disciplina”.
Ha appena toccato un tasto dolente.
Sa benissimo che il mio rispetto nei confronti di papà è totale e che il suo onore per me è più importante di qualsiasi altra cosa. Lo sa perché vale lo stesso per lui. Glielo leggo negli occhi ogni volta che lo vedo eseguire un ordine di mio padre, o addestrare gli uomini al campo e nel capanno. Sono un ordine, quindi? Un compito da eseguire… non una persona capace di provare imbarazzo o emozioni.
Prima me lo metto in testa, meglio sarà per me.
Bene, a lui non interessa niente di me, quindi non gli interesserà niente del mio corpo, l’ha detto proprio poco fa.
Non ho mai provocato un uomo che non fosse il mio ragazzo. Non siamo cresciute per diventare delle dee fatali. Ma Remo ha ragione: perché non spingermi oltre il limite?
Faccio per levarmi la canottiera, quando mi blocco d’improvviso nel ricordarmi che alle mie spalle c’è Remo e che non indosso il reggiseno per dormire. Lo guardo di sottecchi da dietro la spalla e lui sbuffa, impaziente.
Quando mi sfilo la canottiera, ho i brividi sulla pelle. Socchiudo la bocca e fisso lo sguardo sul pavimento, mentre sento Remo alle mie spalle sistemarsi comodo. I miei capezzoli, per il freddo, si inturgidiscono e iniziano a tirare, consapevoli dell’imbarazzo che mi imporpora le guance.
Non so cosa voglio ottenere, forse voglio solo tentare di provocarlo.
Ma in ogni caso, tutto questo è tremendamente nuovo per me. Deglutisco, terrorizzata e sconvolta allo stesso tempo dalla mia audacia: sentire il suo sguardo nelle docce mi ha umiliata, poiché non gli avevo dato il permesso di guardarmi, ma ora sto quasi decidendo io.
Voglio procedere con questo mio gioco e allo stesso tempo fuggire via. Sia per la sensazione di freddo che per l’imbarazzo, mi tremano le mani mentre mi scosto i capelli e li lascio cadere in lunghi boccoli sui miei seni, fino a coprirli. Avverto il mio respiro incastrarsi nella gola, il gelo è caduto nella stanza e ora ha preso le sembianze di un mostro che mi strizza la gola.
Le mani non riescono a smettere di tremare e il cuore a battere, e impazzisce quando lascio cadere a terra anche i pantaloni del pigiama. I miei glutei, esposti a lui e coperti dal sottile strato delle mutandine, si contraggono quando percepisco lo sguardo di Remo su di me. Il gelo serra i suoi artigli intorno alle mie ossa e sussulto quando sento le doghe del pavimento scricchiolare.
Dei passi alle mie spalle… una presenza calda e massiccia sempre più vicina… il mio cuore accelera con la stessa potenza con cui continuano a scricchiolare le doghe di legno.
Il sangue mi pulsa nelle orecchie, corre nelle vene e una sensazione estrema, carnale, serpeggia tra le mie cosce e mi fa irrigidire. Non faccio in tempo a voltarmi, che le mani calde di Remo mi sfiorano la pelle della schiena, facendomi trasalire. Sgrano gli occhi nell’avvertirlo così vicino e presente, così caldo e umano contro di me. Le sue dita toccano la mia pelle mentre il mio respiro stride in un suono strozzato.
Non emetto una parola, sono completamente ammutolita dalla trappola che pensavo di riservargli, ma che mi si è ritorta contro. Rapita dal suo calore e dalla durezza delle sue mani, così tanto grandi e forti da potermi afferrare e ribaltare, mi sembra surreale quando i suoi palmi si aprono sulle mie braccia e le sue dita mi sfiorano la parte laterale dei seni.
“Madre Siberia”. Una preghiera sussurrata scivola dalle mie labbra e chiudo gli occhi, scongiurando silenziosamente Remo di lasciarmi andare. Aveva detto che non gli importa della figlia del capo clan, che il mio corpo non gli interessa.
E ora sono confusa dall’idea che la mia provocazione abbia sortito effetto…
Deglutisco e socchiudo le labbra, mentre curiosa, da sopra la spalla, lo osservo carezzarmi le braccia con tocco deciso. Le sue dita scivolano fino ai miei polsi e passa i polpastrelli sulle mie vene pulsanti, deliziandosi nel riconoscere che non sono affatto insensibile. Un respiro strozzato mi fa tremare il petto nel sentire che, con una mano, invece, risale fino a sfiorare di nuovo il seno e si ferma alla base del mio collo.
In un gesto repentino, mi fa voltare verso lo specchio sopra la cassettiera. I nostri corpi urtano il mobile e le matrioske sul ripiano tremano insieme a me, minacciando quasi di cadere. Un vortice di stelle e delirio mi gira intorno quando Remo serra la mano intorno al mio collo e mi obbliga a guardarci nel riflesso, mentre un sorrisetto scaltro si stampa sul suo volto.
“Sono capace di resistere a qualsiasi provocazione”. Le sue labbra si avvicinano al mio orecchio, ma il suo sguardo è incatenato al mio nello specchio. “Anche di fronte al corpo nudo di una bella donna”.
Inspiro profondamente ed emetto un lieve singulto. Il suo addome preme contro la mia schiena, le sue ginocchia sono piegate e mi obbligano quasi ad inginocchiarmi sul pavimento. È pronto a farmi il lavaggio del cervello.
Mi afferra il polso e lo posiziona bene sul mobile, spazzando via da un lato le matrioske a cui tanto tengo. Lo fa con cattiveria e per un attimo vorrei infuriarmi per la paura che si rompano, ma un’altra sensazione sopraggiunge, quella d’essere stata bloccata del tutto. Con il palmo premuto ancora contro la trachea, le dita mi afferrano il mento e mi tengono ferma.
Fa male. Ho dolore ovunque.
“Presto diventerai brava e obbediente, e presto non verrai più considerata un inutile oggetto per il diletto dell’uomo, ma una figlia onorevole e meritevole di questo posto nel clan”.
Corrugo la fronte: le sue parole mi squarciano il petto.
“E ora sbrigati, non ho più tempo da perdere”.
Addestramento siberiano
Published on December 28, 2022 09:35
October 27, 2022
CAPITOLO DUE
L’odore di pancakes e formaggio contadino impregna l’aria. Scendo le scale in legno di corsa, perché ho una fame da lupi, e mi precipito in sala da pranzo, dove immagino già che mamma stia preparando la tavola per la colazione. È il momento più importante della giornata, ci ritroviamo tutti a mangiare ciò che ci ha preparato nostra madre con amore, le mie sorelle ed io ridiamo e scherziamo, mamma stringe la mano di papà, consapevole che tornerà la sera tardi e che, ogni singolo minuto della mattina, è prezioso.
Sto per svoltare a destra, per entrare nella sala pranzo, quando mi scontro con qualcosa di solido e caldo, che assomiglia ad una persona. Quando sollevo lo sguardo, per capire chi è, intercetto gli occhi di una persona che non ho mai visto in questa casa e non mi ricorda nessuno degli uomini di papà che io conosco.
Malgrado questo, distinguo l’intensità del suo sguardo, lo sento bruciare sulla pelle. Non indossa il passamontagna e nemmeno il cappello, i capelli color biondo cenere sono folti e le sopracciglia corrugate, come se mi stesse studiando. Tutta questa sua attenzione, questo sondarmi, mi mette a disagio.
È Remo. Lo so.
Faccio un passo indietro e anche lui lo fa, portandosi una mano al petto. “Ti chiedo scusa”.
Batto le palpebre: non mi aspettavo certo che mi chiedesse scusa con così tanta eleganza e rispetto. Non accenna ad un sorriso, niente, la sua voce si confonde nella mia testa in un eco spaventoso e così cupo, che sento il cuore avere un sussulto. Il suo tono è forte e roco, ruvido, così caldo che l’aria si riscalda all’istante.
Deglutisco e gli angoli delle mie labbra si sollevano in un sorriso timido, poiché la sua stazza e voce mi intimidiscono. A vederlo così alto e grosso, come un orso pronto ad azzannarti, mi fa uno strano effetto. “Non ti scusare” farfuglio scrollando le spalle. “Avevo la testa tra le nuvole”.
Con un tempismo perfetto, il mio stomaco emette un brontolio basso e mi sento arrossire dall’imbarazzo.
Lui non sorride, ma dal tono di voce sembra divertito. “Oppure era l’appetito…”
Sollevo le sopracciglia e faccio una smorfia, sentendomi sprofondare nella vergogna mentre la mia pancia continua a borbottare con sempre più insistenza. Mi porto una mano al ventre e sfoggio un debole sorriso di circostanza, quindi lo supero rapidamente ed entro in sala da pranzo, dove mamma sta apparecchiando con tovaglioli e posate.
“Buongiorno!” esclama con un sorriso casto vedendomi arrivare.
Le tolgo dolcemente i tovaglioli dalle mani e le poso un bacio sulla guancia. “Buongiorno” le sussurro facendola sogghignare.
Lei si scosta e si dirige rapidamente verso la credenza, per tirare giù le tazze dai ripiani. “Vedo che hai fatto la conoscenza di Remo”.
Sobbalzo e sento il cuore fare una capriola. Solitamente non è così curiosa. Perché proprio oggi deve mettermi in imbarazzo così?
“Direi di averla piuttosto spaventata, non conosciuta”. Remo entra in sala da pranzo e, malgrado sia voltata di spalle, avverto i suoi occhi su di me.
Nelle parole riconosco un accento molto marcato: non è siberiano, è russo. Strano che mio padre abbia deciso di prendere sotto la sua ala e far diventare il suo braccio destro un uomo russo. Tutti i suoi cadetti provengono dalla Jacuzia o dall’entroterra, ma Remo sembra un’eccezione sotto tutti i punti di vista.
Il suo tono è di scherno, mi sta visibilmente prendendo in giro, ma è anche freddo, distaccato, non divertito.
Nel mettere i tovaglioli sulla tavola, mi soffermo a contare quanti posti mamma abbia calcolato: di solito siamo sei con le mie sorelle, ma oggi siamo sette. E, nell’intercettare con la coda dell’occhio gli anfibi pesanti e sporchi di Remo, intuisco chi sarà l’altro ospite a colazione… e la cosa mi fa venire i brividi.
Sbuffo e gli rivolgo un’occhiata scontrosa, ma non aggiungo altro.
Lui ricambia con un’alzata di sopracciglia e afferra lo schienale della sedia, scaricando tutto il suo peso sulla povera seduta di legno. Questa scricchiola, attirando la mia attenzione, e osservo per un secondo i muscoli delle sue braccia: non sono scolpiti, ma comunque mi mettono a disagio. So perfettamente che ogni uomo, in questo clan, ha ucciso o ucciderà, sono dei sicari addestrati. L’idea non mi ha mai toccato del tutto, sono cresciuta in un clan autoritario, non ho gli strumenti per compiangere una vittima, soprattutto se questa è nemica del nostro clan.
Ma per la prima volta, vedere così da vicino una delle armi principali che Remo usa come sicario, mi fa venire i brividi freddi.
Distolgo lo sguardo e riprendo ad aiutare mamma, mentre lui è lì, con il suo maglione a collo alto pesante e i pantaloni neri cargo, appoggiato ad una sedia che potrebbe afferrare con disinvoltura e distruggere senza il minimo sforzo.
Il suo sguardo su me e mia madre, mentre ci diamo da fare ad apparecchiare anche per lui, mi fa letteralmente perdere la testa. E di certo non in senso positivo.
Vorrei rivolgergli una battuta serafica, ricordandogli che non siamo le sue serve e che un solo uomo possiamo servire: mio padre. Lui è appena entrato in sala, seguito dalle mie tre sorelle, come ninfe greche tra i boschi.
Mando giù tutto il mio risentimento e mi stampo un sorriso allegro sul viso, giusto per dissimulare ed evitare che papà faccia domande. Dasha, più grande di me di un anno, passa vicino a Remo squadrandolo dalla testa ai piedi e puntandolo come un’aquila pronta ad azzannare la sua preda. Le lancio un’occhiataccia e lei mi guarda male, come se l’avessi appena offesa.
Remo, nel frattempo, con una riverenza dignitosa saluta mio padre, e lo fa anche mantenendo un certo distacco e la freddezza educata e composta, di chi sa stare al suo posto di fronte al capo.
“Ho riposto le casse nel garage, siamo pronti a portarle nel rifugio”. Quel sussurro di Remo rivolto a mio padre, tuttavia, giunge anche alle mie orecchie e sollevo lo sguardo su di loro, attratta da quelle parole sibilate. Remo dovrebbe sapere che le figlie del suo capo sanno tutto, allora perché sussurrare come se fosse un segreto inconfessabile?
Mio padre annuisce, ma poi intercetta il mio sguardo incuriosito e liquida la questione con un semplice gesto della mano, quindi mi si avvicina e strofina la mano sul mio braccio, in un gesto composto, che non si sbilancia alla tenerezza. Ed io sono grata delle sue attenzioni, questa mattina.
“Papà” lo saluto abbassando il capo, in segno di rispetto.
“Sei raggiante oggi!” esclama guardandomi attentamente. “Segui anche tu quelle teorie salutari di tua sorella?”
Dasha smette di bere l’acqua e posa il bicchiere sulla tavola, quindi alza un dito come a voler precisare qualcosa. “Quelle mie teorie che tanto schernite, rendono più luminosa la pelle”.
Ridacchio e ripenso a Dasha che, una settimana fa, cercava in modo febbrile delle ricette di bellezza, per poi ridursi a creare degli intrugli di frutta e cereali strani, verdi e maleodoranti. Io e lei abbiamo un rapporto bellissimo, siamo nate a dieci mesi di distanza, io di febbraio lei di maggio: l’inverno e la primavera, capelli biondissimi e ciocche scure… Dasha ed io siamo come il giorno e la notte, eppure ci confidiamo qualsiasi cosa e non siamo mai state in disaccordo.
Faccio per sedermi, quando Remo prende posto accanto a me, facendomi arrestare. Con i suoi movimenti, mi si avvicina ed io mi irrigidisco d’istinto. Lo osservo di sottecchi, mentre le sue dita afferrano la sedia e la scostano con sicurezza, come se non dovesse nemmeno chiedere il permesso di accomodarsi a tavola con noi. Dà per scontato che il posto in più sia per lui. Nessun sicario di papà si è mai permesso di sedere alla nostra tavola, come nessuno si è mai preso così tante libertà e in assoluto silenzio.
Remo è speciale…
Questo tavolo è sacro, è simbolo di famiglia e raduno.
I suoi movimenti, però, così sciolti e disinvolti sono una perfetta provocazione e non ha il timore di darmi noia, poiché lui sa esattamente cosa sto provando in questo momento. E lo sguardo che mi lancia, prima di sedersi del tutto, mi conferma che sa benissimo cosa penso.
Solleva un sopracciglio e poi si avvicina al tavolo con un movimento di bacino, per sottolineare la sua completa sicurezza.
Sono tentata di cambiare sedia, ma le mie sorelle hanno già preso posto e non vorrei privare mia madre dell’opportunità di stare vicino a papà. Deglutisco il senso di disagio e mi accomodo riluttante vicino a Remo. Le sue mani sono ferme ai lati del piatto e guarda avanti a sé, come se fosse un soldato a riposo e stesse aspettando il prossimo ordine dal suo generale.
Parlando la sua stessa lingua, ossia il silenzio, studio i suoi lineamenti rigidi e quella mandibola squadrata, che getta un’ombra altrettanto dura sul suo collo lungo. Non ha grossi segni di vecchiaia sul volto, non ha rughe, ma qualcosa mi dice che almeno trent’anni li ha, a giudicare anche dalla sua posizione sociale in questo clan. Un filo di barba corre lungo le guance, mentre i capelli, così folti, gli coprono in parte le orecchie.
È indubbiamente un bell’uomo e la mia curiosità nei suoi riguardi sorprende perfino me stessa.
Emana… calore e freddezza allo stesso tempo. È caldo perché il suo corpo è massiccio e imponente, mentre la sua postura è così rigida e lineare, il suo viso è totalmente privo di emozioni da farmi rabbrividire dal freddo. Quelle mani, poi, grandi e visibilmente segnate dal duro lavoro, poggiano ferme e pesanti sul tavolo, quei polpastrelli sporchi del sangue di tanti nemici impregnano metaforicamente la tovaglia candida. Non merita di essere qui e sporcare la purezza di questo momento.
Si volta piano ed io non faccio in tempo a reagire: mi scopre ad osservarlo. Nell’istante in cui i suoi occhi scuri incontrano i miei, sobbalzo sulla sedia, più che altro per lo spavento, e mi giro a guardare mamma e Lena, l’altra mia sorella, che stanno portando a tavola la colazione.
“Ma Cajkovskij dov’è?” domanda Mina, la gemella di Lena.
Sorrido nel sentirla nominare il mio cane e faccio un cenno con il pollice in direzione della porta sul retro, alle mie spalle. “Sta facendo i suoi bisogni in giardino”.
Papà sorride appena, ma quando si rivolge a Remo intuisco che non era rivolto a me. “Cajkovskij è il cane di Tiana”.
Perché mai dare questa informazione? In ogni caso, mio padre è il capo e se ritiene necessario spiegare qualcosa a Remo, non posso obiettare.
Comunque, mi ritrovo nervosamente a bere la tazza di tè nero. Non voglio che Remo abbia qualsivoglia informazione su di me, mi dà fastidio addirittura che sappia il nome del mio Laika dal pelo scuro.
Ringrazio Lena per avermi passato i pancakes con formaggio contadino e me ne servo due, facendo poi per posare il piatto sulla tovaglia, lì dove stava prima. Mamma mi richiama con tono fermo e rigido che mi fa sobbalzare. “Tiana, offri qualcosa al tuo vicino Remo”.
Mi volto di scatto verso di lui, che solleva le sopracciglia e si rivolge a mia madre con una tale educazione, che mi si accappona la pelle. “Ho piacere a mangiare con tutti voi, ma non voglio disturbare nessuno”.
Le sue parole si ripetono nella mia testa e, quando mi rivolge un’occhiata, capisco benissimo il motivo per cui ha sottolineato le ultime parole. Si stava rivolgendo a me con un’altra delle sue provocazioni. Mamma, ovviamente, sgrana gli occhi e scuote la testa. “Mangia tutto ciò che vuoi, non farti scrupoli”.
Remo scuote la testa e insiste nel rifiutare. “Mi vedo costretto a declinare” ribatte e la sua mano si posa sulla mia, in un gesto controllato, come a invitarmi a posare il piatto. “Accetterò solo del tè: oggi mi aspetta una lunga giornata e non vorrei appesantire il carico”.
Quale carico?
Mi volto a guardare papà, che annuisce al suo sicario. Deglutisco e lancio un’occhiata a mamma, anche lei in visibile indecisione quanto me. Nel frattempo, la mano calda e grande di Remo è immobile sulla mia e il suo peso mi obbliga a cedere, facendomi sentire quasi debole. La sensazione della sua pelle sulla mia è strana, ha un tocco ruvido e garbato, avverto dei calli sulle sue dita e mi domando quante pistole abbia maneggiato e quanto duro lavoro abbia dovuto fare, per averli. E a giudicare dalla sua sicurezza, dal suo ruolo, deduco in un istante che deve essere un pilastro portante del clan.
Poso il piatto sulla tovaglia e mi libero subito del suo tocco, nascondendo la mano sotto al tavolo.
Dasha subito gli versa del tè nella tazza, che Remo accetta con un sorriso accennato nei confronti di mia sorella. Lei ridacchia e si porta una mano alla bocca per non farsi sorprendere da nostro padre: siamo state educate a non avere atteggiamenti interessati e lascivi nei confronti dei sicari, a non tentarli, e una risatina del genere desterebbe sicuramente il rimprovero del capo.
Ma Dasha è diversa, lo è sempre stata. Remo non sembra farci caso, o se lo fa ce lo comunica con la sua lingua preferita: il mutismo. So che l’addestramento di nostro padre è duro quanto l’inverno siberiano, ma evidentemente si premura di tagliare la lingua a tutti i suoi cadetti.
Rabbrividisco all’idea, ma poi riprendo a mangiare.
“Remo” lo chiama mia madre.
Lui, che si stava portando alla bocca la tazza, riposa all’istante il tè sul tavolo e si volta piano a guardare la moglie del suo capo. Nella freddezza del suo sguardo e nella mascella serrata forte, intuisco che non gradisce proprio l’interesse severo di mia madre. “Signora Gorkaja”.
“Dove sei nato?”
Remo lancia una breve occhiata a mio padre, che annuisce. E ora capisco: l’approvazione di mio padre, a parlare, è fondamentale. “Lukovetskiy, nell’O’blast dell’Arcangelo”.
È russo, ho riconosciuto il suo accento da subito.
“E che ne pensi di Ojmjakon?” Dasha si intromette.
Lui si alza con movimenti controllati dal tavolo, con la tazza in mano, e si porta una mano al cuore, in segno di ringraziamento. È così alto, che nemmeno riesco a guardarlo in faccia e se volessi davvero dovrei appoggiarmi a Mina, seduta accanto a me, e spingere gli occhi lì, oltre il suo petto. “Vi ringrazio per il tè: davvero squisito”.
Non l’ha nemmeno bevuto, penso.
“Ma ho del lavoro da sbrigare e gli altri uomini mi aspettano”.
Mi volto a guardare l’orologio appeso al muro: sono le sette e mezza del mattino. Per noi che viviamo in Siberia l’ora è relativa, non riusciamo mai del tutto a distinguere il mattino dalla sera; Ekaterina, la mia amica, ed io chiamiamo crepuscolo solare, un sole così fioco da sembrare un vespro al contrario.
La luce è solitamente oscurata dal gelo.
Il colore del cielo sembra carta di zucchero cristallizzata.
Remo porta la sua tazza nel lavello della cucina e la posa insieme a qualche piatto sporco. Osservo i suoi movimenti intrigata dalla sua estrema silenziosità e da questo compassato distacco, che per noi è davvero strano, perché la colazione è il momento in cui possiamo stare insieme e riempire la stanza di parole.
L’unico momento…
Un ultimo crudo saluto e abbandona la stanza, muovendosi veloce verso l’ingresso di casa. Mentre le mie sorelle commentano la scena e si fanno domande sulla stranezza di Remo, io rimango a fissarlo: recupera il suo piumino nero dall’appendiabiti vicino la porta e lo indossa, allacciandoselo fino al collo. Le sue mani si muovono a tastare le tasche, alla ricerca di qualcosa, e quando lo trova riconosco le dita digitare qualcosa sullo schermo. Mi chiedo a chi stia scrivendo, se ha una fidanzata lontana, nell’O’blast dell’Arcangelo, o se sta parlando con un amico, magari.
Come prima, mi sorprende l’idea di studiarlo, ma stavolta non distolgo lo sguardo. Una scintilla mi fa tremare e mi stringo nelle spalle, guardandolo con insistenza. Lui corruga la fronte e rimette il telefono nella tasca, ma non fa trasparire alcuna emozione. Rimane lì, sulla porta, ad infilarsi il cappello sul capo e a calcarselo per bene, mentre con l’altra mano solleva il passamontagna fino alla bocca, comprendo anche una parte del naso.
Non ho mai osservato così uno degli uomini di mio padre.
Con così tanta… indiscrezione.
Sbatto le palpebre e distolgo lo sguardo, sentendomi una maleducata. Do un morso al pancake, evitando di pensarci, ma ho come la sensazione d’avere i suoi occhi, stavolta, puntati addosso. Ed è una sensazione di calore quella che provo, quella di un fuoco che mi sta facendo arrossire le guance. Penso a quanto sia buono questo formaggio, alla decorazione floreale bellissima della tovaglia, alla risata melodica di Dasha… a qualsiasi altra cosa che non sia Remo.
Sposto l’attenzione su di lui e lo trovo ancora lì, sulla porta, che mi osserva.
Forse sta aspettando mio padre o un messaggio, non saprei proprio.
Mi schiarisco la voce e mi volto verso Lena. “Come procede il corso all’università di Yakutsk?”
Onestamente, le ho fatto questa domanda solo per distrarmi. Lena inizia a parlare, annuisco ascoltando i suoi progressi con il tirocinio all’ospedale nel reparto infantile, quindi, facendo finta di voltarmi per prendere il piatto con il porridge, i miei occhi fuggono verso il salone.
Remo è andato via.
Silenzioso e gelido…
Sto per svoltare a destra, per entrare nella sala pranzo, quando mi scontro con qualcosa di solido e caldo, che assomiglia ad una persona. Quando sollevo lo sguardo, per capire chi è, intercetto gli occhi di una persona che non ho mai visto in questa casa e non mi ricorda nessuno degli uomini di papà che io conosco.
Malgrado questo, distinguo l’intensità del suo sguardo, lo sento bruciare sulla pelle. Non indossa il passamontagna e nemmeno il cappello, i capelli color biondo cenere sono folti e le sopracciglia corrugate, come se mi stesse studiando. Tutta questa sua attenzione, questo sondarmi, mi mette a disagio.
È Remo. Lo so.
Faccio un passo indietro e anche lui lo fa, portandosi una mano al petto. “Ti chiedo scusa”.
Batto le palpebre: non mi aspettavo certo che mi chiedesse scusa con così tanta eleganza e rispetto. Non accenna ad un sorriso, niente, la sua voce si confonde nella mia testa in un eco spaventoso e così cupo, che sento il cuore avere un sussulto. Il suo tono è forte e roco, ruvido, così caldo che l’aria si riscalda all’istante.
Deglutisco e gli angoli delle mie labbra si sollevano in un sorriso timido, poiché la sua stazza e voce mi intimidiscono. A vederlo così alto e grosso, come un orso pronto ad azzannarti, mi fa uno strano effetto. “Non ti scusare” farfuglio scrollando le spalle. “Avevo la testa tra le nuvole”.
Con un tempismo perfetto, il mio stomaco emette un brontolio basso e mi sento arrossire dall’imbarazzo.
Lui non sorride, ma dal tono di voce sembra divertito. “Oppure era l’appetito…”
Sollevo le sopracciglia e faccio una smorfia, sentendomi sprofondare nella vergogna mentre la mia pancia continua a borbottare con sempre più insistenza. Mi porto una mano al ventre e sfoggio un debole sorriso di circostanza, quindi lo supero rapidamente ed entro in sala da pranzo, dove mamma sta apparecchiando con tovaglioli e posate.
“Buongiorno!” esclama con un sorriso casto vedendomi arrivare.
Le tolgo dolcemente i tovaglioli dalle mani e le poso un bacio sulla guancia. “Buongiorno” le sussurro facendola sogghignare.
Lei si scosta e si dirige rapidamente verso la credenza, per tirare giù le tazze dai ripiani. “Vedo che hai fatto la conoscenza di Remo”.
Sobbalzo e sento il cuore fare una capriola. Solitamente non è così curiosa. Perché proprio oggi deve mettermi in imbarazzo così?
“Direi di averla piuttosto spaventata, non conosciuta”. Remo entra in sala da pranzo e, malgrado sia voltata di spalle, avverto i suoi occhi su di me.
Nelle parole riconosco un accento molto marcato: non è siberiano, è russo. Strano che mio padre abbia deciso di prendere sotto la sua ala e far diventare il suo braccio destro un uomo russo. Tutti i suoi cadetti provengono dalla Jacuzia o dall’entroterra, ma Remo sembra un’eccezione sotto tutti i punti di vista.
Il suo tono è di scherno, mi sta visibilmente prendendo in giro, ma è anche freddo, distaccato, non divertito.
Nel mettere i tovaglioli sulla tavola, mi soffermo a contare quanti posti mamma abbia calcolato: di solito siamo sei con le mie sorelle, ma oggi siamo sette. E, nell’intercettare con la coda dell’occhio gli anfibi pesanti e sporchi di Remo, intuisco chi sarà l’altro ospite a colazione… e la cosa mi fa venire i brividi.
Sbuffo e gli rivolgo un’occhiata scontrosa, ma non aggiungo altro.
Lui ricambia con un’alzata di sopracciglia e afferra lo schienale della sedia, scaricando tutto il suo peso sulla povera seduta di legno. Questa scricchiola, attirando la mia attenzione, e osservo per un secondo i muscoli delle sue braccia: non sono scolpiti, ma comunque mi mettono a disagio. So perfettamente che ogni uomo, in questo clan, ha ucciso o ucciderà, sono dei sicari addestrati. L’idea non mi ha mai toccato del tutto, sono cresciuta in un clan autoritario, non ho gli strumenti per compiangere una vittima, soprattutto se questa è nemica del nostro clan.
Ma per la prima volta, vedere così da vicino una delle armi principali che Remo usa come sicario, mi fa venire i brividi freddi.
Distolgo lo sguardo e riprendo ad aiutare mamma, mentre lui è lì, con il suo maglione a collo alto pesante e i pantaloni neri cargo, appoggiato ad una sedia che potrebbe afferrare con disinvoltura e distruggere senza il minimo sforzo.
Il suo sguardo su me e mia madre, mentre ci diamo da fare ad apparecchiare anche per lui, mi fa letteralmente perdere la testa. E di certo non in senso positivo.
Vorrei rivolgergli una battuta serafica, ricordandogli che non siamo le sue serve e che un solo uomo possiamo servire: mio padre. Lui è appena entrato in sala, seguito dalle mie tre sorelle, come ninfe greche tra i boschi.
Mando giù tutto il mio risentimento e mi stampo un sorriso allegro sul viso, giusto per dissimulare ed evitare che papà faccia domande. Dasha, più grande di me di un anno, passa vicino a Remo squadrandolo dalla testa ai piedi e puntandolo come un’aquila pronta ad azzannare la sua preda. Le lancio un’occhiataccia e lei mi guarda male, come se l’avessi appena offesa.
Remo, nel frattempo, con una riverenza dignitosa saluta mio padre, e lo fa anche mantenendo un certo distacco e la freddezza educata e composta, di chi sa stare al suo posto di fronte al capo.
“Ho riposto le casse nel garage, siamo pronti a portarle nel rifugio”. Quel sussurro di Remo rivolto a mio padre, tuttavia, giunge anche alle mie orecchie e sollevo lo sguardo su di loro, attratta da quelle parole sibilate. Remo dovrebbe sapere che le figlie del suo capo sanno tutto, allora perché sussurrare come se fosse un segreto inconfessabile?
Mio padre annuisce, ma poi intercetta il mio sguardo incuriosito e liquida la questione con un semplice gesto della mano, quindi mi si avvicina e strofina la mano sul mio braccio, in un gesto composto, che non si sbilancia alla tenerezza. Ed io sono grata delle sue attenzioni, questa mattina.
“Papà” lo saluto abbassando il capo, in segno di rispetto.
“Sei raggiante oggi!” esclama guardandomi attentamente. “Segui anche tu quelle teorie salutari di tua sorella?”
Dasha smette di bere l’acqua e posa il bicchiere sulla tavola, quindi alza un dito come a voler precisare qualcosa. “Quelle mie teorie che tanto schernite, rendono più luminosa la pelle”.
Ridacchio e ripenso a Dasha che, una settimana fa, cercava in modo febbrile delle ricette di bellezza, per poi ridursi a creare degli intrugli di frutta e cereali strani, verdi e maleodoranti. Io e lei abbiamo un rapporto bellissimo, siamo nate a dieci mesi di distanza, io di febbraio lei di maggio: l’inverno e la primavera, capelli biondissimi e ciocche scure… Dasha ed io siamo come il giorno e la notte, eppure ci confidiamo qualsiasi cosa e non siamo mai state in disaccordo.
Faccio per sedermi, quando Remo prende posto accanto a me, facendomi arrestare. Con i suoi movimenti, mi si avvicina ed io mi irrigidisco d’istinto. Lo osservo di sottecchi, mentre le sue dita afferrano la sedia e la scostano con sicurezza, come se non dovesse nemmeno chiedere il permesso di accomodarsi a tavola con noi. Dà per scontato che il posto in più sia per lui. Nessun sicario di papà si è mai permesso di sedere alla nostra tavola, come nessuno si è mai preso così tante libertà e in assoluto silenzio.
Remo è speciale…
Questo tavolo è sacro, è simbolo di famiglia e raduno.
I suoi movimenti, però, così sciolti e disinvolti sono una perfetta provocazione e non ha il timore di darmi noia, poiché lui sa esattamente cosa sto provando in questo momento. E lo sguardo che mi lancia, prima di sedersi del tutto, mi conferma che sa benissimo cosa penso.
Solleva un sopracciglio e poi si avvicina al tavolo con un movimento di bacino, per sottolineare la sua completa sicurezza.
Sono tentata di cambiare sedia, ma le mie sorelle hanno già preso posto e non vorrei privare mia madre dell’opportunità di stare vicino a papà. Deglutisco il senso di disagio e mi accomodo riluttante vicino a Remo. Le sue mani sono ferme ai lati del piatto e guarda avanti a sé, come se fosse un soldato a riposo e stesse aspettando il prossimo ordine dal suo generale.
Parlando la sua stessa lingua, ossia il silenzio, studio i suoi lineamenti rigidi e quella mandibola squadrata, che getta un’ombra altrettanto dura sul suo collo lungo. Non ha grossi segni di vecchiaia sul volto, non ha rughe, ma qualcosa mi dice che almeno trent’anni li ha, a giudicare anche dalla sua posizione sociale in questo clan. Un filo di barba corre lungo le guance, mentre i capelli, così folti, gli coprono in parte le orecchie.
È indubbiamente un bell’uomo e la mia curiosità nei suoi riguardi sorprende perfino me stessa.
Emana… calore e freddezza allo stesso tempo. È caldo perché il suo corpo è massiccio e imponente, mentre la sua postura è così rigida e lineare, il suo viso è totalmente privo di emozioni da farmi rabbrividire dal freddo. Quelle mani, poi, grandi e visibilmente segnate dal duro lavoro, poggiano ferme e pesanti sul tavolo, quei polpastrelli sporchi del sangue di tanti nemici impregnano metaforicamente la tovaglia candida. Non merita di essere qui e sporcare la purezza di questo momento.
Si volta piano ed io non faccio in tempo a reagire: mi scopre ad osservarlo. Nell’istante in cui i suoi occhi scuri incontrano i miei, sobbalzo sulla sedia, più che altro per lo spavento, e mi giro a guardare mamma e Lena, l’altra mia sorella, che stanno portando a tavola la colazione.
“Ma Cajkovskij dov’è?” domanda Mina, la gemella di Lena.
Sorrido nel sentirla nominare il mio cane e faccio un cenno con il pollice in direzione della porta sul retro, alle mie spalle. “Sta facendo i suoi bisogni in giardino”.
Papà sorride appena, ma quando si rivolge a Remo intuisco che non era rivolto a me. “Cajkovskij è il cane di Tiana”.
Perché mai dare questa informazione? In ogni caso, mio padre è il capo e se ritiene necessario spiegare qualcosa a Remo, non posso obiettare.
Comunque, mi ritrovo nervosamente a bere la tazza di tè nero. Non voglio che Remo abbia qualsivoglia informazione su di me, mi dà fastidio addirittura che sappia il nome del mio Laika dal pelo scuro.
Ringrazio Lena per avermi passato i pancakes con formaggio contadino e me ne servo due, facendo poi per posare il piatto sulla tovaglia, lì dove stava prima. Mamma mi richiama con tono fermo e rigido che mi fa sobbalzare. “Tiana, offri qualcosa al tuo vicino Remo”.
Mi volto di scatto verso di lui, che solleva le sopracciglia e si rivolge a mia madre con una tale educazione, che mi si accappona la pelle. “Ho piacere a mangiare con tutti voi, ma non voglio disturbare nessuno”.
Le sue parole si ripetono nella mia testa e, quando mi rivolge un’occhiata, capisco benissimo il motivo per cui ha sottolineato le ultime parole. Si stava rivolgendo a me con un’altra delle sue provocazioni. Mamma, ovviamente, sgrana gli occhi e scuote la testa. “Mangia tutto ciò che vuoi, non farti scrupoli”.
Remo scuote la testa e insiste nel rifiutare. “Mi vedo costretto a declinare” ribatte e la sua mano si posa sulla mia, in un gesto controllato, come a invitarmi a posare il piatto. “Accetterò solo del tè: oggi mi aspetta una lunga giornata e non vorrei appesantire il carico”.
Quale carico?
Mi volto a guardare papà, che annuisce al suo sicario. Deglutisco e lancio un’occhiata a mamma, anche lei in visibile indecisione quanto me. Nel frattempo, la mano calda e grande di Remo è immobile sulla mia e il suo peso mi obbliga a cedere, facendomi sentire quasi debole. La sensazione della sua pelle sulla mia è strana, ha un tocco ruvido e garbato, avverto dei calli sulle sue dita e mi domando quante pistole abbia maneggiato e quanto duro lavoro abbia dovuto fare, per averli. E a giudicare dalla sua sicurezza, dal suo ruolo, deduco in un istante che deve essere un pilastro portante del clan.
Poso il piatto sulla tovaglia e mi libero subito del suo tocco, nascondendo la mano sotto al tavolo.
Dasha subito gli versa del tè nella tazza, che Remo accetta con un sorriso accennato nei confronti di mia sorella. Lei ridacchia e si porta una mano alla bocca per non farsi sorprendere da nostro padre: siamo state educate a non avere atteggiamenti interessati e lascivi nei confronti dei sicari, a non tentarli, e una risatina del genere desterebbe sicuramente il rimprovero del capo.
Ma Dasha è diversa, lo è sempre stata. Remo non sembra farci caso, o se lo fa ce lo comunica con la sua lingua preferita: il mutismo. So che l’addestramento di nostro padre è duro quanto l’inverno siberiano, ma evidentemente si premura di tagliare la lingua a tutti i suoi cadetti.
Rabbrividisco all’idea, ma poi riprendo a mangiare.
“Remo” lo chiama mia madre.
Lui, che si stava portando alla bocca la tazza, riposa all’istante il tè sul tavolo e si volta piano a guardare la moglie del suo capo. Nella freddezza del suo sguardo e nella mascella serrata forte, intuisco che non gradisce proprio l’interesse severo di mia madre. “Signora Gorkaja”.
“Dove sei nato?”
Remo lancia una breve occhiata a mio padre, che annuisce. E ora capisco: l’approvazione di mio padre, a parlare, è fondamentale. “Lukovetskiy, nell’O’blast dell’Arcangelo”.
È russo, ho riconosciuto il suo accento da subito.
“E che ne pensi di Ojmjakon?” Dasha si intromette.
Lui si alza con movimenti controllati dal tavolo, con la tazza in mano, e si porta una mano al cuore, in segno di ringraziamento. È così alto, che nemmeno riesco a guardarlo in faccia e se volessi davvero dovrei appoggiarmi a Mina, seduta accanto a me, e spingere gli occhi lì, oltre il suo petto. “Vi ringrazio per il tè: davvero squisito”.
Non l’ha nemmeno bevuto, penso.
“Ma ho del lavoro da sbrigare e gli altri uomini mi aspettano”.
Mi volto a guardare l’orologio appeso al muro: sono le sette e mezza del mattino. Per noi che viviamo in Siberia l’ora è relativa, non riusciamo mai del tutto a distinguere il mattino dalla sera; Ekaterina, la mia amica, ed io chiamiamo crepuscolo solare, un sole così fioco da sembrare un vespro al contrario.
La luce è solitamente oscurata dal gelo.
Il colore del cielo sembra carta di zucchero cristallizzata.
Remo porta la sua tazza nel lavello della cucina e la posa insieme a qualche piatto sporco. Osservo i suoi movimenti intrigata dalla sua estrema silenziosità e da questo compassato distacco, che per noi è davvero strano, perché la colazione è il momento in cui possiamo stare insieme e riempire la stanza di parole.
L’unico momento…
Un ultimo crudo saluto e abbandona la stanza, muovendosi veloce verso l’ingresso di casa. Mentre le mie sorelle commentano la scena e si fanno domande sulla stranezza di Remo, io rimango a fissarlo: recupera il suo piumino nero dall’appendiabiti vicino la porta e lo indossa, allacciandoselo fino al collo. Le sue mani si muovono a tastare le tasche, alla ricerca di qualcosa, e quando lo trova riconosco le dita digitare qualcosa sullo schermo. Mi chiedo a chi stia scrivendo, se ha una fidanzata lontana, nell’O’blast dell’Arcangelo, o se sta parlando con un amico, magari.
Come prima, mi sorprende l’idea di studiarlo, ma stavolta non distolgo lo sguardo. Una scintilla mi fa tremare e mi stringo nelle spalle, guardandolo con insistenza. Lui corruga la fronte e rimette il telefono nella tasca, ma non fa trasparire alcuna emozione. Rimane lì, sulla porta, ad infilarsi il cappello sul capo e a calcarselo per bene, mentre con l’altra mano solleva il passamontagna fino alla bocca, comprendo anche una parte del naso.
Non ho mai osservato così uno degli uomini di mio padre.
Con così tanta… indiscrezione.
Sbatto le palpebre e distolgo lo sguardo, sentendomi una maleducata. Do un morso al pancake, evitando di pensarci, ma ho come la sensazione d’avere i suoi occhi, stavolta, puntati addosso. Ed è una sensazione di calore quella che provo, quella di un fuoco che mi sta facendo arrossire le guance. Penso a quanto sia buono questo formaggio, alla decorazione floreale bellissima della tovaglia, alla risata melodica di Dasha… a qualsiasi altra cosa che non sia Remo.
Sposto l’attenzione su di lui e lo trovo ancora lì, sulla porta, che mi osserva.
Forse sta aspettando mio padre o un messaggio, non saprei proprio.
Mi schiarisco la voce e mi volto verso Lena. “Come procede il corso all’università di Yakutsk?”
Onestamente, le ho fatto questa domanda solo per distrarmi. Lena inizia a parlare, annuisco ascoltando i suoi progressi con il tirocinio all’ospedale nel reparto infantile, quindi, facendo finta di voltarmi per prendere il piatto con il porridge, i miei occhi fuggono verso il salone.
Remo è andato via.
Silenzioso e gelido…
Published on October 27, 2022 12:58
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October 21, 2022
CAPITOLO UNO
Una linea indistinta si apre all’orizzonte. Dalla mia stanza, a quest’ora della notte, le montagne sono un segmento spezzato, che non riesco a riconoscere ed il bosco, sotto di noi, appare come una fitta coltre di cuscini scuri. La nebbia siberiana è così: ingannevole e beffarda.
Quando ero più piccola, mi svegliavo spesso a quest’ora della notte per osservare lo strano gioco della natura. È particolare quanto spaventoso avere la sensazione di non giacere su niente di solido e di guardare davanti a sé, trovando un mare di niente. La casa si regge sul potere immenso di mio padre. Perfino la natura ne riconosce la forza e si fa indietro, come a vergognarsi perfino d’esistere.
Anche io, talvolta, mi sento così piccola, che potrei sparire come quelle montagne laggiù, avvolte dalla nebbia.
Non ho mai sperimentato l’ebrezza di dormire senza svegliarmi la notte: da piccola mi disturbavo sempre verso le quattro del mattino, per andare in bagno magari, poi mi fermavo davanti alla finestra ad osservare rapita lo spettacolo della natura. Mi riaddormentavo cullata dalla nebbia. Ad oggi, questo teatro, è diventato un’abitudine.
L’inverno della Jacuzia è così spettacolare da sentirmi quasi annientata, come se fossi io stessa nell’essenza di questa inconsistenza. Ojmjakon, poi, è uno dei villaggi più freddi della Russia, a stretto braccio con la città di Tomtor, a quaranta chilometri da qui. Siamo nel polo nord del freddo e ogni cosa, qui, si cristallizza. Mina, la maggiore di noi sorelle, quando avevo sette anni, chiamava Ojmjakon il villaggio di vetro, per le sue acque limpide gelide e le lastre levigate di ghiaccio che, sul marciapiede, la facevano scivolare.
Stanotte mi tiene sveglia un altro pensiero, però.
Malgrado lo spesso vetro della mia finestra, mi sembra quasi di sentire il motore delle Jeep nere di mio padre. Salto giù dal letto, uscendo dal tepore del piumone e della pelliccia, quindi mi muovo veloce verso la finestra. I lampioni lungo la strada illuminano le ombre dei SUV nella foschia, ma io le sento e mi sembra quasi di vederle.
Il pensiero che continua a tormentarmi si chiama Remo Romanov.
Non l’ho mai visto, ma ne ho spesso sentito parlare.
Le pareti di casa conoscono il suo nome a memoria, mentre mio padre ne tesse le lodi tutti i giorni, raccontandoci di come ormai sia diventato per lui una sorta di figliastro. Talvolta, sono anche gelosa: mio padre ed io abbiamo sempre avuto un rapporto equilibrato, io rispetto lui più di qualsiasi altra persona conosca, lui mi ha sempre aiutata, con il suo temperamento, a superare qualsiasi ostacolo, dandomi la forza di affrontare le situazioni difficili.
Sospiro e la condensa si forma sul vetro in una forma strana, appannando ancora di più la vista. La pulisco con il palmo della mano e faccio un passo indietro, per impedire al vetro di appannarsi ancora, e rimango lì, per un po’ di tempo, ad osservare la nebbia sotto di me che, con la sua coltre, copre tutto e non lascia neanche alla potente luce del lampione di penetrare.
Guardo all’orizzonte, lì dove dovrebbe essere il sole, e non lo trovo. Alle quattro del mattino è normale qui da noi, anche se in alcuni luoghi della terra sorge anche a quest’ora della notte. Ma qui a Ojmjakon non si è mai visto. Credo di non avere mai avuto occasione di ammirare il sole, forse quando ero piccola, in vacanza nella primaverile Mosca; qui è come vivere in un inferno freddo: buio, neve, ghiaccio e gelo.
Per una bambina occidentale potrebbe essere traumatizzante, probabilmente, ma per me non lo è mai stato. Sono cresciuta in questo luogo per ventidue anni, vedendo raramente altri posti. Non so se il sole potrebbe piacermi o se potrei provare paura, se i suoi raggi potrebbero scogliere la mia pelle di ghiaccio, ma dopo anni e anni di buio, vedere la luce è diventato quasi un tabù infinito.
Seduta sul letto vedo il cielo rischiararsi, mi volto a guardare l’orologio, che segna le sei del mattino. Sono rimasta a scrutare il nulla per due ore e nemmeno me ne sono resa conto, persa come sono nei miei pensieri. La nebbia si sposta in banchi e la visibilità migliora, mentre lentamente prendono forma il marciapiede della strada in salita e l’asfalto, bagnato e scivoloso, del nostro viale d’ingresso. Riconosco il nero movimento frenetico degli uomini di mio padre, mentre scaricano delle casse di legno con pesanti guantoni da neve e le braccia tese per lo sforzo, coperte da piumini caldi.
Intravedo un uomo muoversi insieme a loro, ma non trasporta casse. Sembra diverso, quasi importante, come se stesse dirigendo il trasporto delle casse. Non vedo la giacca blu grigia di mio padre e mi chiedo se sia ancora nella sua stanza, a dormire al fianco di mia madre, o se sia in garage a controllare le casse.
Riesco a riconoscere Alexander, poiché è quello più longilineo degli uomini e la giacca gli si affloscia sulle braccia magroline, mentre gli altri, per me, sono tutti uguali. Gli scagnozzi di mio padre sono sempre stati materia di pettegolezzi e fantasie: le mie sorelle sono sempre state attratte dai loro muscoli. Dasha, la terza più grande, disse perfino che un giorno avrebbe attirato Yaroslav in una “trappola”, portandolo nel rifugio oltre la foce del Nera, nella foresta di Indigirka. E inutile dire la natura del suo intento…
Rispetto alle mie sorelle, io non mi sono mai interessata agli uomini di papà, mi sono sempre sembrati tutti uguali, tutte “macchine” che dedicano la loro vita a servirlo; insomma non hanno mai suscitato il mio interesse. Hanno il volto imperscrutabile, rigido, l’espressione dura di chi svolge il suo compito da soldato.
Non sono mai stata una tipa curiosa dell’ambito lavorativo di mio padre, sono stata abituata a restare al posto mio; solo la musica mi interessa tanto, mi stimola tanto da diventare una vera e propria ficcanaso.
In realtà l’unico motivo che mi fa venir voglia di esplorare le dinamiche del mondo degli affari di mio padre è la presenza di Remo. E probabilmente è quella punta di gelosia nei suoi riguardi, questo saperlo così vicino a mio padre che mi fa venir voglia di capire dove lui “ficchi il naso”, quanto sia invischiato nei nostri affari.
Sento gli sportelli delle Jeep sbattere e sobbalzo per il rumore inaspettato. Un uomo, a sensazione diverso dagli altri, si muove sul viale tra la casa e il garage, e lo fa in modo così sicuro, scendendo le scale del portico come se gli fosse talmente familiare la mia casa, da far quasi parte di questa famiglia.
Rabbrividisco e mi lascio scivolare sulle spalle il maglioncino che prima era poggiato sulla poltrona nera. Il pavimento di legno scricchiola sotto l’incedere dei miei piedi e avverto la ruvidezza delle doghe anche oltre i calzini pesanti. Tutte le sensazioni sembrano amplificarsi.
So che è lui, che è Remo. Ed è qui per me.
Mio padre me l’ha detto, due sere fa, mentre lo accompagnavo a controllare delle casse nel rifugio oltre l’Indigirka. Ho accusato il freddo, ho ammesso di essere debole al gelo e all’umidità della foresta della Nera, lui si è fermato a guardarmi intensamente e poi mi ha dato una pacca sulla spalla, senza nemmeno accennare ad un abbraccio o una parola di conforto.
E le sue parole mi hanno fatto gelare il sangue: “Remo verrà presto qui, per te”.
Remo si ferma e vedo la sua testa, coperta da un capello di lana, scuotersi. Deglutisco e mi chiedo come sia, se è esattamente come gli altri uomini di mio padre, se sarà buono o crudele con me. Lo osservo in silenzio, ma il rumore del mio respiro mi rimbomba nelle orecchie, il vapore che esce dalle mie labbra crea nuvole di condensa sottili nella stanza.
La temperatura si è abbassata anche in casa, inizio a sentire freddo.
Mi stringo nel maglioncino e attendo, come se pensassi che lui possa voltarsi sentendo la mia paura e vedermi mentre lo osservo.
Ma lui davvero si volta e mi ritrovo a trattenere il fiato. Ha il cappello calcato fin sulla fronte, mentre un passamontagna gli copre le labbra, lasciando liberi solo gli occhi. Non riesco ad interpretarne il colore, ma sento che sono scuri e che mi stanno trafiggendo. Il passamontagna nasconde le sue emozioni, la sua espressione, ma se non l’avesse sarebbe la stessa cosa e riuscirebbe, comunque, a mettermi a disagio. Scosto le tendine della finestra in un movimento veloce e nervoso, a coprire i vetri appannati; quindi, mi stringo le braccia al petto ritraendomi.
Le parole di mio padre mi terrorizzano quanto ritrovarmi da sola nella foresta, al freddo, senza scorte e senza un aiuto. Remo vuol dire addestramento. Addestramento vuol dire onore, coraggio e resistenza. È questo l’addestramento che papà ha da sempre destinato ai suoi uomini.
Onore, coraggio e resistenza.
Resistenza a qualsiasi cosa, perfino alle emozioni.
Se io dovessi aver a che fare con Remo, saprei già che non voglio diventare come lui: non sarò mai un guscio vuoto, come tutti gli uomini di mio padre, con il cuore freddo più del ghiaccio che congela l’Indigirka. Gli uomini di mio padre non hanno stagioni in cui fioriscono, sono come un fiume siberiano: gelato d’inverno e arido in primavera.
Questa è la Siberia.
Questo è il clan dei Gorkij.
Questo è addestramento siberiano.
Quando ero più piccola, mi svegliavo spesso a quest’ora della notte per osservare lo strano gioco della natura. È particolare quanto spaventoso avere la sensazione di non giacere su niente di solido e di guardare davanti a sé, trovando un mare di niente. La casa si regge sul potere immenso di mio padre. Perfino la natura ne riconosce la forza e si fa indietro, come a vergognarsi perfino d’esistere.
Anche io, talvolta, mi sento così piccola, che potrei sparire come quelle montagne laggiù, avvolte dalla nebbia.
Non ho mai sperimentato l’ebrezza di dormire senza svegliarmi la notte: da piccola mi disturbavo sempre verso le quattro del mattino, per andare in bagno magari, poi mi fermavo davanti alla finestra ad osservare rapita lo spettacolo della natura. Mi riaddormentavo cullata dalla nebbia. Ad oggi, questo teatro, è diventato un’abitudine.
L’inverno della Jacuzia è così spettacolare da sentirmi quasi annientata, come se fossi io stessa nell’essenza di questa inconsistenza. Ojmjakon, poi, è uno dei villaggi più freddi della Russia, a stretto braccio con la città di Tomtor, a quaranta chilometri da qui. Siamo nel polo nord del freddo e ogni cosa, qui, si cristallizza. Mina, la maggiore di noi sorelle, quando avevo sette anni, chiamava Ojmjakon il villaggio di vetro, per le sue acque limpide gelide e le lastre levigate di ghiaccio che, sul marciapiede, la facevano scivolare.
Stanotte mi tiene sveglia un altro pensiero, però.
Malgrado lo spesso vetro della mia finestra, mi sembra quasi di sentire il motore delle Jeep nere di mio padre. Salto giù dal letto, uscendo dal tepore del piumone e della pelliccia, quindi mi muovo veloce verso la finestra. I lampioni lungo la strada illuminano le ombre dei SUV nella foschia, ma io le sento e mi sembra quasi di vederle.
Il pensiero che continua a tormentarmi si chiama Remo Romanov.
Non l’ho mai visto, ma ne ho spesso sentito parlare.
Le pareti di casa conoscono il suo nome a memoria, mentre mio padre ne tesse le lodi tutti i giorni, raccontandoci di come ormai sia diventato per lui una sorta di figliastro. Talvolta, sono anche gelosa: mio padre ed io abbiamo sempre avuto un rapporto equilibrato, io rispetto lui più di qualsiasi altra persona conosca, lui mi ha sempre aiutata, con il suo temperamento, a superare qualsiasi ostacolo, dandomi la forza di affrontare le situazioni difficili.
Sospiro e la condensa si forma sul vetro in una forma strana, appannando ancora di più la vista. La pulisco con il palmo della mano e faccio un passo indietro, per impedire al vetro di appannarsi ancora, e rimango lì, per un po’ di tempo, ad osservare la nebbia sotto di me che, con la sua coltre, copre tutto e non lascia neanche alla potente luce del lampione di penetrare.
Guardo all’orizzonte, lì dove dovrebbe essere il sole, e non lo trovo. Alle quattro del mattino è normale qui da noi, anche se in alcuni luoghi della terra sorge anche a quest’ora della notte. Ma qui a Ojmjakon non si è mai visto. Credo di non avere mai avuto occasione di ammirare il sole, forse quando ero piccola, in vacanza nella primaverile Mosca; qui è come vivere in un inferno freddo: buio, neve, ghiaccio e gelo.
Per una bambina occidentale potrebbe essere traumatizzante, probabilmente, ma per me non lo è mai stato. Sono cresciuta in questo luogo per ventidue anni, vedendo raramente altri posti. Non so se il sole potrebbe piacermi o se potrei provare paura, se i suoi raggi potrebbero scogliere la mia pelle di ghiaccio, ma dopo anni e anni di buio, vedere la luce è diventato quasi un tabù infinito.
Seduta sul letto vedo il cielo rischiararsi, mi volto a guardare l’orologio, che segna le sei del mattino. Sono rimasta a scrutare il nulla per due ore e nemmeno me ne sono resa conto, persa come sono nei miei pensieri. La nebbia si sposta in banchi e la visibilità migliora, mentre lentamente prendono forma il marciapiede della strada in salita e l’asfalto, bagnato e scivoloso, del nostro viale d’ingresso. Riconosco il nero movimento frenetico degli uomini di mio padre, mentre scaricano delle casse di legno con pesanti guantoni da neve e le braccia tese per lo sforzo, coperte da piumini caldi.
Intravedo un uomo muoversi insieme a loro, ma non trasporta casse. Sembra diverso, quasi importante, come se stesse dirigendo il trasporto delle casse. Non vedo la giacca blu grigia di mio padre e mi chiedo se sia ancora nella sua stanza, a dormire al fianco di mia madre, o se sia in garage a controllare le casse.
Riesco a riconoscere Alexander, poiché è quello più longilineo degli uomini e la giacca gli si affloscia sulle braccia magroline, mentre gli altri, per me, sono tutti uguali. Gli scagnozzi di mio padre sono sempre stati materia di pettegolezzi e fantasie: le mie sorelle sono sempre state attratte dai loro muscoli. Dasha, la terza più grande, disse perfino che un giorno avrebbe attirato Yaroslav in una “trappola”, portandolo nel rifugio oltre la foce del Nera, nella foresta di Indigirka. E inutile dire la natura del suo intento…
Rispetto alle mie sorelle, io non mi sono mai interessata agli uomini di papà, mi sono sempre sembrati tutti uguali, tutte “macchine” che dedicano la loro vita a servirlo; insomma non hanno mai suscitato il mio interesse. Hanno il volto imperscrutabile, rigido, l’espressione dura di chi svolge il suo compito da soldato.
Non sono mai stata una tipa curiosa dell’ambito lavorativo di mio padre, sono stata abituata a restare al posto mio; solo la musica mi interessa tanto, mi stimola tanto da diventare una vera e propria ficcanaso.
In realtà l’unico motivo che mi fa venir voglia di esplorare le dinamiche del mondo degli affari di mio padre è la presenza di Remo. E probabilmente è quella punta di gelosia nei suoi riguardi, questo saperlo così vicino a mio padre che mi fa venir voglia di capire dove lui “ficchi il naso”, quanto sia invischiato nei nostri affari.
Sento gli sportelli delle Jeep sbattere e sobbalzo per il rumore inaspettato. Un uomo, a sensazione diverso dagli altri, si muove sul viale tra la casa e il garage, e lo fa in modo così sicuro, scendendo le scale del portico come se gli fosse talmente familiare la mia casa, da far quasi parte di questa famiglia.
Rabbrividisco e mi lascio scivolare sulle spalle il maglioncino che prima era poggiato sulla poltrona nera. Il pavimento di legno scricchiola sotto l’incedere dei miei piedi e avverto la ruvidezza delle doghe anche oltre i calzini pesanti. Tutte le sensazioni sembrano amplificarsi.
So che è lui, che è Remo. Ed è qui per me.
Mio padre me l’ha detto, due sere fa, mentre lo accompagnavo a controllare delle casse nel rifugio oltre l’Indigirka. Ho accusato il freddo, ho ammesso di essere debole al gelo e all’umidità della foresta della Nera, lui si è fermato a guardarmi intensamente e poi mi ha dato una pacca sulla spalla, senza nemmeno accennare ad un abbraccio o una parola di conforto.
E le sue parole mi hanno fatto gelare il sangue: “Remo verrà presto qui, per te”.
Remo si ferma e vedo la sua testa, coperta da un capello di lana, scuotersi. Deglutisco e mi chiedo come sia, se è esattamente come gli altri uomini di mio padre, se sarà buono o crudele con me. Lo osservo in silenzio, ma il rumore del mio respiro mi rimbomba nelle orecchie, il vapore che esce dalle mie labbra crea nuvole di condensa sottili nella stanza.
La temperatura si è abbassata anche in casa, inizio a sentire freddo.
Mi stringo nel maglioncino e attendo, come se pensassi che lui possa voltarsi sentendo la mia paura e vedermi mentre lo osservo.
Ma lui davvero si volta e mi ritrovo a trattenere il fiato. Ha il cappello calcato fin sulla fronte, mentre un passamontagna gli copre le labbra, lasciando liberi solo gli occhi. Non riesco ad interpretarne il colore, ma sento che sono scuri e che mi stanno trafiggendo. Il passamontagna nasconde le sue emozioni, la sua espressione, ma se non l’avesse sarebbe la stessa cosa e riuscirebbe, comunque, a mettermi a disagio. Scosto le tendine della finestra in un movimento veloce e nervoso, a coprire i vetri appannati; quindi, mi stringo le braccia al petto ritraendomi.
Le parole di mio padre mi terrorizzano quanto ritrovarmi da sola nella foresta, al freddo, senza scorte e senza un aiuto. Remo vuol dire addestramento. Addestramento vuol dire onore, coraggio e resistenza. È questo l’addestramento che papà ha da sempre destinato ai suoi uomini.
Onore, coraggio e resistenza.
Resistenza a qualsiasi cosa, perfino alle emozioni.
Se io dovessi aver a che fare con Remo, saprei già che non voglio diventare come lui: non sarò mai un guscio vuoto, come tutti gli uomini di mio padre, con il cuore freddo più del ghiaccio che congela l’Indigirka. Gli uomini di mio padre non hanno stagioni in cui fioriscono, sono come un fiume siberiano: gelato d’inverno e arido in primavera.
Questa è la Siberia.
Questo è il clan dei Gorkij.
Questo è addestramento siberiano.
Published on October 21, 2022 09:06
June 27, 2018
"Don't hurt me..."

I read passion in her eyes, but she doubts. “Don’t hurt me…” she whispers.
“I have no intention of hurting you”, I just want to make her feel good, give her pleasure.
“I mean… not only now, even tomorrow and after tomorrow, always… don’t hurt me, don’t hurt me.”
“I won’t. You’re all I’ve always wanted.”
Published on June 27, 2018 02:55
June 24, 2018
Teaser from Chapter 13
“What colours do you need?”
“Oh…” She checks something on her agenda and nods towards one of the aisles of the huge art store in the centre of Brisbane. “Grey and white. These are the colour codes” she points at the numbers on her agenda. “They’re predominant colours and I need them for mixing.”
I follow her while she walks at ease among the shelves looking to the right and left, up and down, studying every colour and can carefully. Something in my trousers shakes and gets really hard while I look at her soft and delicious curves. I could take her here, on the shelves, making them wobble dangerously, make her scream from surprise, pleasure and the fear of being discovered. It’s quite an isolated area of the shop, I could really do what I want and take her soul. But not now, not here, I’ll take my pleasure and agony in a more appropriate place and time.
She stops in front of a shelf full of light colours and smiles, satisfied. Her eyes shine, she’s in her “habitat” and feels good, at ease. “Found it!”
Eleonor stretches towards the upper shelf towards the cans of white paint. I’m behind her and my eyes fall on her legs as her grey dress crawls a bit up her thighs covered by black tights and I realize that she’s wearing stay-ups? Oh, damn, this is quite a cruel blow under the belt.
I clench my fists and my jaw, I should move away or something… surely, I should look elsewhere, but there’s no space and I’m blocked because I don’t want to leave her.
“Excuse me…” A shop assistant with a trolley full of who-knows-what nods to me to get out of his away.
Instinctively, with a fever and excitement that’s growing inside me, I move and put my hand on the shelf near Eleonor’s head. She immediately turns around and lets out a choked sound of surprise. The shop assistant passes by and Eleonor loses her balance, but I catch her by the hips before she and the cans fall. I pull her to me, now we’re alone again and the lights seem weaker and the noises muffled. She looks at my muscled arm around her hips. To provoke and surprise her more, I pull her even closer to my chest and grab the shelf impatiently.
Under my touch, her dress seems to burn and beg me to be torn away. Eleonor continues to look down, her cheeks blush delicately while her body stretches towards mine. It shakes from fear and the rush of adrenaline, the desire of discovering more.
Eleonor is frightened, I can feel it, but deep down I attract her, I’m sure, she’s curious, sensually curious.
Something hard hits my feet and rolls on the floor. I look at the fallen can of acrylic, it didn’t hurt, I didn’t feel anything, I only feel the magnetic power that pulls me towards her. Our eyes meet and for a moment there’s an uneven fight, because I know I’m stronger, I know I can dominate and trap her.
“Ouch” I say with my soothing and warm voice. A low tone that puzzles her, makes her shiver from head to toe.
I must continue to excite her, provoke her.
My hand moves, slowly going down from her hip moving on her dress. She stiffens and opens her eyes wide when my fingers touch her bottom and go back up to her hip, towards the hem of her skirt that slips through my fingers in a sexy and light caress. I close my eyes, I’m in a delightful pleasure bubble of pure need and I’m afraid I can’t stop myself easily, not if Eleonor continues to look at me with her big eyes, red cheeks, slightly half-closed lips, and her shivering body. I want to savour every moment of this game, every single look, every single pulsion of our lower parts that touch, desiring each other inexorably.
She lets out another chocked sigh while my fingers leave her body to pick up the can from the floor. I slowly get back up, looking at her body, lingering on her knees, her thighs, her flat belly and her rounded hips that turn up towards delicate, firm breasts. These would fit perfectly in my big rough hands while I lick her pink neck. I hold back my hands, my lips and my body, but it’s so difficult that soon I surrender. I get closer to her again and smile satisfied, because she’s here and she’s mine now.
I look her half-closed lips with desire and caress them with my breath. “Luckily, it’s made of plastic” I say in a low tone, putting the can on the shelf behind her, getting even closer. I hold on to the shelf, touch her hair with my arms and look at her while she bites her lower lip. I feel a sharp pain in my heart and a throb in my swollen dick.
I moan painfully because she’s here and her uncertainty stops me. Why am I stopping? Why am I not pushing her against the shelf, burning her lips with my kisses?
I can’t move away without taking something of hers, so I get closer and the perfume of her hair lures me where her jaw meets her neck and her earlobe calls to me. I’m a selfish bastard, I want her, I want to leave a mark.
My face and my lips touch her hair, I inhale eagerly, intoxicated by her perfume, I’m addicted. I slowly move away and let her soft hair caress me, then I hide my face in her neck. I don’t kiss her, I don’t touch her skin. No, I breathe with my eyes closed enjoying her smell and her reaction as she jumps and moans under her breath. A sound that hits me directly in my trousers and almost makes me lose control.
I’m done, this sweet torture is killing me, I run my hand through her hair delicately, I don’t want to hurt her, I just want to pull her face back and put my lips on her jaw. My lips touch her soft, smooth skin, I taste it: it tastes good, like something of the past, an old memory that I thought was lost, but that I re-discover. A perfume that tastes of home, a safe place, stuck in my mind and in my heart.
It’s a memory that beats with my heart, and it’s there, uncontrolled…
I’m condemned to hurt her.
And I realize how much I really want to do it.
I’m aware that from now on, any woman I will take to bed, I will imagine her to be Eleonor Meier.
Eleonor melts, grabs my shoulders and pushes, digs her fingers into my muscles and raises her head towards the sky, enjoying my lips and my tormenting touch. She can’t resist my charm and our desire, our adrenaline forces us to make extreme, imprudent, overwhelming gestures.
My thumb draws invisible forms on her cheek, then on her neck and on her breasts, that are there, pushed against my chest, I feel her nipples stiffen against the material, desiring to be touched.
“Asher, don’t…”
“What, Eleonor?”
She shakes her head but can’t speak.
My hands touch the skin of her neckline, her breasts and…
Something vibrates in my back pocket and I jump, like Eleonor, who pulls herself together and moves away putting a certain distance between us. “What the hell!” I say, taking my phone furiously and looking at the display: it’s my boss. “I have to get this.”
Eleonor nods, breathless. Before answering, I look at her and smile, satisfied in seeing her out of breath, disoriented.
I did it.
I will possess her soul….
“Oh…” She checks something on her agenda and nods towards one of the aisles of the huge art store in the centre of Brisbane. “Grey and white. These are the colour codes” she points at the numbers on her agenda. “They’re predominant colours and I need them for mixing.”
I follow her while she walks at ease among the shelves looking to the right and left, up and down, studying every colour and can carefully. Something in my trousers shakes and gets really hard while I look at her soft and delicious curves. I could take her here, on the shelves, making them wobble dangerously, make her scream from surprise, pleasure and the fear of being discovered. It’s quite an isolated area of the shop, I could really do what I want and take her soul. But not now, not here, I’ll take my pleasure and agony in a more appropriate place and time.
She stops in front of a shelf full of light colours and smiles, satisfied. Her eyes shine, she’s in her “habitat” and feels good, at ease. “Found it!”
Eleonor stretches towards the upper shelf towards the cans of white paint. I’m behind her and my eyes fall on her legs as her grey dress crawls a bit up her thighs covered by black tights and I realize that she’s wearing stay-ups? Oh, damn, this is quite a cruel blow under the belt.
I clench my fists and my jaw, I should move away or something… surely, I should look elsewhere, but there’s no space and I’m blocked because I don’t want to leave her.
“Excuse me…” A shop assistant with a trolley full of who-knows-what nods to me to get out of his away.
Instinctively, with a fever and excitement that’s growing inside me, I move and put my hand on the shelf near Eleonor’s head. She immediately turns around and lets out a choked sound of surprise. The shop assistant passes by and Eleonor loses her balance, but I catch her by the hips before she and the cans fall. I pull her to me, now we’re alone again and the lights seem weaker and the noises muffled. She looks at my muscled arm around her hips. To provoke and surprise her more, I pull her even closer to my chest and grab the shelf impatiently.
Under my touch, her dress seems to burn and beg me to be torn away. Eleonor continues to look down, her cheeks blush delicately while her body stretches towards mine. It shakes from fear and the rush of adrenaline, the desire of discovering more.
Eleonor is frightened, I can feel it, but deep down I attract her, I’m sure, she’s curious, sensually curious.
Something hard hits my feet and rolls on the floor. I look at the fallen can of acrylic, it didn’t hurt, I didn’t feel anything, I only feel the magnetic power that pulls me towards her. Our eyes meet and for a moment there’s an uneven fight, because I know I’m stronger, I know I can dominate and trap her.
“Ouch” I say with my soothing and warm voice. A low tone that puzzles her, makes her shiver from head to toe.
I must continue to excite her, provoke her.
My hand moves, slowly going down from her hip moving on her dress. She stiffens and opens her eyes wide when my fingers touch her bottom and go back up to her hip, towards the hem of her skirt that slips through my fingers in a sexy and light caress. I close my eyes, I’m in a delightful pleasure bubble of pure need and I’m afraid I can’t stop myself easily, not if Eleonor continues to look at me with her big eyes, red cheeks, slightly half-closed lips, and her shivering body. I want to savour every moment of this game, every single look, every single pulsion of our lower parts that touch, desiring each other inexorably.
She lets out another chocked sigh while my fingers leave her body to pick up the can from the floor. I slowly get back up, looking at her body, lingering on her knees, her thighs, her flat belly and her rounded hips that turn up towards delicate, firm breasts. These would fit perfectly in my big rough hands while I lick her pink neck. I hold back my hands, my lips and my body, but it’s so difficult that soon I surrender. I get closer to her again and smile satisfied, because she’s here and she’s mine now.
I look her half-closed lips with desire and caress them with my breath. “Luckily, it’s made of plastic” I say in a low tone, putting the can on the shelf behind her, getting even closer. I hold on to the shelf, touch her hair with my arms and look at her while she bites her lower lip. I feel a sharp pain in my heart and a throb in my swollen dick.
I moan painfully because she’s here and her uncertainty stops me. Why am I stopping? Why am I not pushing her against the shelf, burning her lips with my kisses?
I can’t move away without taking something of hers, so I get closer and the perfume of her hair lures me where her jaw meets her neck and her earlobe calls to me. I’m a selfish bastard, I want her, I want to leave a mark.
My face and my lips touch her hair, I inhale eagerly, intoxicated by her perfume, I’m addicted. I slowly move away and let her soft hair caress me, then I hide my face in her neck. I don’t kiss her, I don’t touch her skin. No, I breathe with my eyes closed enjoying her smell and her reaction as she jumps and moans under her breath. A sound that hits me directly in my trousers and almost makes me lose control.
I’m done, this sweet torture is killing me, I run my hand through her hair delicately, I don’t want to hurt her, I just want to pull her face back and put my lips on her jaw. My lips touch her soft, smooth skin, I taste it: it tastes good, like something of the past, an old memory that I thought was lost, but that I re-discover. A perfume that tastes of home, a safe place, stuck in my mind and in my heart.
It’s a memory that beats with my heart, and it’s there, uncontrolled…
I’m condemned to hurt her.
And I realize how much I really want to do it.
I’m aware that from now on, any woman I will take to bed, I will imagine her to be Eleonor Meier.
Eleonor melts, grabs my shoulders and pushes, digs her fingers into my muscles and raises her head towards the sky, enjoying my lips and my tormenting touch. She can’t resist my charm and our desire, our adrenaline forces us to make extreme, imprudent, overwhelming gestures.
My thumb draws invisible forms on her cheek, then on her neck and on her breasts, that are there, pushed against my chest, I feel her nipples stiffen against the material, desiring to be touched.
“Asher, don’t…”
“What, Eleonor?”
She shakes her head but can’t speak.
My hands touch the skin of her neckline, her breasts and…
Something vibrates in my back pocket and I jump, like Eleonor, who pulls herself together and moves away putting a certain distance between us. “What the hell!” I say, taking my phone furiously and looking at the display: it’s my boss. “I have to get this.”
Eleonor nods, breathless. Before answering, I look at her and smile, satisfied in seeing her out of breath, disoriented.
I did it.
I will possess her soul….

Published on June 24, 2018 08:14