Alessandro De Benedetti's Blog: La vanità delle stelle cadenti
November 12, 2015
Affrettatevi dolce fanciulla dalle labbra color del mogano
[...]
Un rumore sinistro riecheggia nell’aria umida, provenendo da chissà dove, da un punto impenetrabile dell’oscurità. È l’eco prolungata di un latrato, l’abbaiare di un cane o di un lupo.
È una notte d’estate profumata e tersa, decisamente calda per queste latitudini. Alzate gli occhi al cielo per contemplare la bella volta stellata: la via lattea è una sfumatura biancastra dietro puntini scintillanti. Tra i vicoli del paese s’insinua l’odore asciutto delle granaglie, che dai trattori vengono messe nei sacchi durante questo periodo dell’anno, per essere riposte nelle cantine e nei granai. E poi c’è l’inebriante odore di resina e del legno tagliato, dei grossi tronchi che provengono dai monti e dal bosco. E l’odore delle pelli conciate. Lo seguite: quell’odore viscerale e selvatico, di carne morta e sangue putrefatto, vi attira con la forza inesplicabile di un bisogno primitivo. Così svoltate l’angolo, ed ecco le pelli bianche e marroni appese a due pali di legno, due pertiche che sbucano dal muro di una vecchia casa. E questo? Prestate attenzione! Cos’è questo rumore, ora? Voci acute e soffocate che si alternano, gridolini che provengono dal vicolo che sale dietro la casa del pellicciaio.
Il chiasso garbato, la mescolanza di risolini eccitati e intimi, ha catturato la vostra attenzione e vi guida all’ingresso del vicolo. Tuttavia procedete con cautela, poiché non volete essere visti, né volete arrecare alcun disturbo in quest’ora inopportuna della notte. La vostra testa si affaccia appena oltre la casa del pellicciaio: intravedete una giovane coppia di amanti, la schiena di lei appoggiata al muro ruvido, le braccia che si cingono e le labbra che si accostano, per poi distaccarsi e scoppiare a ridere. I due si sorreggono a vicenda, aiutati dal muro, ebbri di alcol e d’amore.
Il ragazzo indossa pantaloni di tweed e un gilet di velluto sopra la camicia bianca; non sapete esattamente chi sia, ma di certo indovinate i suoi modi garbati e timidi, pur nell’esaltazione del vino bevuto. Indovinate la passione che prova per lei mentre le tiene la mano, supplicandola per un altro bacio. Conoscete anche il suo nome: egli è Jeremiah, uno dei figli più amati di Esterville. Il ragazzo ha gli occhi chiari e la pelle del viso particolarmente liscia: la sua pelle sembra quella di un bambino. Lei indossa un vestitino leggero, con ricami di fiori purpurei, e il suo nome è Miriam. La fanciulla è davvero giovane e sfacciatamente bella, con gli occhi grigi e la carnagione lattea, le labbra dense color del mogano, i capelli lunghi e mossi. I boccoli neri ricadono sullo scialle d’uncinetto, che le ripara la scollatura e ha il potere di scacciare i venti dell’oceano, anche se è traforato e questa sera non c’è un filo di vento.
Ora apprendete che l’abitazione dalle mura ruvide è quella di Jeremiah, e la ragazza è appoggiata proprio accanto al portone della casa, con i grossi anelli di ottone bronzato come battente. Sì, di certo provengono dall’osteria dove hanno bevuto molto, e lui certamente più di lei.
«Mi costringi a tornare a casa da sola, dolce e ingenuo Miah, sei così ubriaco da non reggerti in piedi! È già un miracolo se sei arrivato fin qui. Com’era il gioco? Mezzo bicchiere a me e due a te, perché le ragazze non reggono il vino mentre un uomo può berne quattro volte di più. Ora guardati! Ce la farai ad aprire questo portone e salire le scale?»
Le labbra sensuali di Miriam si dischiudono in un sorriso malizioso e vergine, che dentro le palpebre pesanti di Jeremiah certamente appare provocante, è il sorriso più bello e sfrontato che abbia mai visto nella sua giovane vita.
«Fatti accompagnare, ti prego, amore mio» le dice tirandola a sé.
«Non è cosa che tu possa pretendere questa sera: sono ancora adirata con te per via della tua gelosia, che dovrebbe adularmi e invece mi indispone, poiché è così sciocca. Geloso di un uomo del quale non ricordo nemmeno il volto, né il nome! Com’è possibile? Come si può provare un tale sentimento senza alcuna ragionevole causa?»
«Eppure indossi qualcosa di suo» replica Jeremiah indicando una sorta di protuberanza sotto lo scialle d’uncinetto: qualcosa che le sporge in mezzo al petto, sui seni morbidi, proprio all’altezza del cuore.
«Non è da te insistere così scioccamente. Te l’ho già spiegato: non ha alcun valore per me, se non fosse che mi piace il suo colore e la sua foggia, altrimenti non la indosserei. E le insensate storie che girano per il paese sono soltanto frutto di ingenue superstizioni. E ingenuo sei anche tu, dolce Miah, se credi a tutto quello che sentono le tue orecchie. Ti ripeto quanto ti ho già detto all’osteria: se la indosso è proprio per dimostrare che non ha alcun effetto su di me, come non può averne qualsiasi oggetto privo di vita. Sii ragionevole: che male può arrecare questa delicata pietra?»
«Potrebbe allontanarti da me» le risponde con una strana luce negli occhi. La spinge delicatamente verso il muro della vecchia casa, la bacia e la tocca un po’, sfiorandole i seni e la pancia.
Lei spegne l’ardore di Jeremiah, sussurrandogli nell’orecchio il suo rifiuto.
«Sei scattato in piedi come un matto, all’osteria, per questo non meriti che io resti con te questa sera. Dolce Miah, vai a sbollire la collera e il vino con una buona dormita.»
«Hai ragione, non mi reggo in piedi. Sono così traballante che non credo di poter aprire questo portone senza un aiuto, e di poter trovare da solo la via per le scale. Per questo ti chiedo di accompagnarmi dentro. Potremmo andare un attimo nella stalla, tanto mia madre dorme della grossa e non ci sentirà» le dice con l’ultimo barlume di speranza. Ma è così ubriaco da non convincere nemmeno se stesso.
La bacia di nuovo e le infila le mani tra la schiena e il muro, facendo scivolare le sue dita verso il basso, fino a quando i polpastrelli raggiungono l’incavo e schiacciano la seta del vestito contro la fossetta da cui nasce il solco delle natiche. Lei lo lascia fare ancora un po’ prima di svincolarsi teneramente, abbassando le spalle contro il muro e sgusciando dalla sua presa. Si allontana, mandandogli un ultimo saluto malizioso, un bacio soffiato. Jeremiah getta la spugna, è ormai convinto dell’impossibilità di trattenerla oltre. Si massaggia le tempie con la punta delle dita, come per alleviare una terribile emicrania. Si trascina al portone, lo apre e sparisce ingoiato dal buio delle scale.
Ora Miriam è sola e cammina nell’oscurità, percorrendo il lungo vicolo dove si trova la casa di Jeremiah. Lo deve percorrere quasi tutto e poi salire lungo la viuzza che fiancheggia la chiesa, prima di raggiungere la propria abitazione. Non appena la ragazza giunge in prossimità della chiesa e sparisce dentro quella viuzza, una specie di vibrazione vi coglie alle spalle. Voltate la testa e guardate in fondo al vicolo, là dove i due amanti si abbracciavano: in lontananza potete vedere la porta della casa di Jeremiah aprirsi, e lui uscire un po’ barcollante. Ma voi siete risoluti e vi affrettate a seguire Miriam, poiché non sentite altro che il suo profumo inebriante, un’essenza femminea di lavanda e miele che vi attira in modo inesorabile: così perdete di vista il ragazzo.
La seguite prudentemente, tenendovi a debita distanza, e già capite d’amare il suo incedere fuggevole e instabile, l’oscillare lieve dei suoi fianchi che prelude alle notti d’amore più belle. Ma ecco qualcosa d’inaspettato che distoglie le vostre attenzioni dalla ragazza e vi reca disturbo e ansia: c’è un’ombra dietro di voi, qualcuno che incalza i vostri passi. Ne siete assolutamente certi: qualcuno vi sta seguendo, o più presumibilmente sta seguendo Miriam. Vi girate di scatto ma non riuscite a vedere anima viva. Eppure siete sicuri di trovarvi proprio nel mezzo, tra l’incedere di Miriam e quello di un’ombra minacciosa.
All’improvviso un rumore assordante esplode sopra di voi e si dilata vibrando, facendovi sussultare: un tocco cupo e uno più acuto rimbombano nell’aria muta. Sollevate la testa e guardate le massicce campane di ferro che ancora vibrano dentro gli archi del campanile. La struttura è imponente: una torre di pietra, a base quadrata, composta da strati di due differenti colori, grigio e seppia; essa s’innalza dal fianco della chiesa come un dito minaccioso verso il cielo stellato. L’orologio posto sopra gli archi è contornato da numeri romani decorati in oro; le lancette indicano che la mezzanotte è passata da tempo, esattamente da un’ora e un quarto.
Affrettatevi dolce fanciulla dalle labbra color del mogano, ché questa non è l’ora adatta per andare in giro da sole, rincasando nell’oscurità. È sconveniente e può essere pericoloso. Affrettatevi, dunque! Vorreste dire queste poche e accorte parole alla ragazza che vi precede, poiché siete colti da un presentimento mostruoso; ma non riuscite a farlo. Non potete. Nessun suono esce dalla vostra bocca, mentre le labbra si muovono a vuoto. Possibile che non abbiate ancora capito? Voi non avete alcuna voce in questa storia, siete muti come dei pesci qualunque.
Miriam avanza inconsapevole, con l’ampia gonna del suo vestito che si deforma assecondando i passi, lasciando maliziosamente intuire le piacevoli gambe e il bel sedere. Ora aggira il campanile e s’infila nel vicolo buio che si allontana dalla chiesa. Improvvisamente si ferma e si gira di scatto, verso di voi, e i suoi occhi scintillano come pietre preziose. Sta scandagliando l’oscurità. Voi istintivamente vi nascondete, entrando nel piccolo atrio di un portone. Che succede? Che si sia accorta di voi? Impossibile, voi siete muti e invisibili: nelle immagini della pietra siete solo un riflesso esterno, uno spettatore, un fantasma. Voi non siete materialmente lì. Perciò si è accorta dell’ombra, la stessa che vi incalza da un po’.
Sì. Si è accorta di essere seguita poiché riprende a camminare accelerando il passo. Ora sta quasi correndo. Ora la gonna, che le arriva sino alle caviglie, è d’intralcio. Ma chi è questa carogna? Possibile che non riusciate a vederlo?
Volete capire, per questo uscite allo scoperto e vi piazzate nel bel mezzo della via, ad ascoltare attentamente: cercate qualche rumore che possa palesarvi quella presenza inquietante, non riuscendo a vedere nessun altro a parte Miriam. Ecco! Un rumore! Chi diavolo è? Di che si tratta?
Sembrano dei colpi d’accetta, attutiti dalla distanza o da qualche barriera fisica che si interpone tra voi e la sorgente sonora. Probabilmente provengono da qualche casa, da una legnaia o da un cortile interno; di certo non hanno nulla a che fare con l’ombra che insegue la ragazza. Sembra proprio un’ascia che percuote un ceppo, i colpi di un legnaiolo tardivo che sta spaccando la legna. Quale inopportuna stranezza! È mai possibile che qualcuno stia lavorando a quest’ora di notte? Non avete tempo per pensare alla risposta, dovete affrettarvi a seguire la ragazza se non volete perderla di vista.
Quando Miriam entra in una piccola piazza decadente, coi battiti del cuore accelerati, ecco che l’ombra si materializza, superandovi. Adesso la vedete: ansima e scalpita, è una figura piccola dal passo rapido, vestita di scuro, con un telo marrone calato sulla testa. Si scaglia contro la ragazza. La sorprende alle spalle e la ghermisce, bloccandola in prossimità di una porticina di legno a forma di arco, pitturata di verde, con una spessa catena di ferro che penzola tra un battente e l’altro. Probabilmente è l’ingresso di una legnaia. Con la bocca aperta cercate il volto dell’aggressore. Allorché lo trovate un senso d’inquietudine vi serra la gola come un artiglio ghiacciato: il suo viso è coperto da uno strano cappuccio marrone. Non un cappuccio vero e proprio, piuttosto un copricapo grezzo, fatto con la tela dei sacchi di grano. Una maschera improvvisata: due buchi per gli occhi e uno spago annodato sotto il mento.
Non potete vedere la faccia di quel farabutto, né la sua orribile espressione d’odio, mentre le stringe le mani intorno al collo. È una stretta nervosa, incerta; lei cerca di strappare via quelle dita affusolate dal suo collo di latte, ma qualcosa le ferisce il palmo. Vedete una macchia di sangue che si allarga sulla mano come una stimmate, ne sentite il suo odore sacro, il suo sapore metallico. Lo so, vorreste intervenire. Ma non vi è possibile poiché questa storia è già accaduta, in un altro tempo che non è il vostro: non potete proprio fare nulla, semplicemente dovete stare lì a guardare.
Estratto da "La vanità delle stelle cadenti" - Esterville, estate 1935
Un rumore sinistro riecheggia nell’aria umida, provenendo da chissà dove, da un punto impenetrabile dell’oscurità. È l’eco prolungata di un latrato, l’abbaiare di un cane o di un lupo.
È una notte d’estate profumata e tersa, decisamente calda per queste latitudini. Alzate gli occhi al cielo per contemplare la bella volta stellata: la via lattea è una sfumatura biancastra dietro puntini scintillanti. Tra i vicoli del paese s’insinua l’odore asciutto delle granaglie, che dai trattori vengono messe nei sacchi durante questo periodo dell’anno, per essere riposte nelle cantine e nei granai. E poi c’è l’inebriante odore di resina e del legno tagliato, dei grossi tronchi che provengono dai monti e dal bosco. E l’odore delle pelli conciate. Lo seguite: quell’odore viscerale e selvatico, di carne morta e sangue putrefatto, vi attira con la forza inesplicabile di un bisogno primitivo. Così svoltate l’angolo, ed ecco le pelli bianche e marroni appese a due pali di legno, due pertiche che sbucano dal muro di una vecchia casa. E questo? Prestate attenzione! Cos’è questo rumore, ora? Voci acute e soffocate che si alternano, gridolini che provengono dal vicolo che sale dietro la casa del pellicciaio.
Il chiasso garbato, la mescolanza di risolini eccitati e intimi, ha catturato la vostra attenzione e vi guida all’ingresso del vicolo. Tuttavia procedete con cautela, poiché non volete essere visti, né volete arrecare alcun disturbo in quest’ora inopportuna della notte. La vostra testa si affaccia appena oltre la casa del pellicciaio: intravedete una giovane coppia di amanti, la schiena di lei appoggiata al muro ruvido, le braccia che si cingono e le labbra che si accostano, per poi distaccarsi e scoppiare a ridere. I due si sorreggono a vicenda, aiutati dal muro, ebbri di alcol e d’amore.
Il ragazzo indossa pantaloni di tweed e un gilet di velluto sopra la camicia bianca; non sapete esattamente chi sia, ma di certo indovinate i suoi modi garbati e timidi, pur nell’esaltazione del vino bevuto. Indovinate la passione che prova per lei mentre le tiene la mano, supplicandola per un altro bacio. Conoscete anche il suo nome: egli è Jeremiah, uno dei figli più amati di Esterville. Il ragazzo ha gli occhi chiari e la pelle del viso particolarmente liscia: la sua pelle sembra quella di un bambino. Lei indossa un vestitino leggero, con ricami di fiori purpurei, e il suo nome è Miriam. La fanciulla è davvero giovane e sfacciatamente bella, con gli occhi grigi e la carnagione lattea, le labbra dense color del mogano, i capelli lunghi e mossi. I boccoli neri ricadono sullo scialle d’uncinetto, che le ripara la scollatura e ha il potere di scacciare i venti dell’oceano, anche se è traforato e questa sera non c’è un filo di vento.
Ora apprendete che l’abitazione dalle mura ruvide è quella di Jeremiah, e la ragazza è appoggiata proprio accanto al portone della casa, con i grossi anelli di ottone bronzato come battente. Sì, di certo provengono dall’osteria dove hanno bevuto molto, e lui certamente più di lei.
«Mi costringi a tornare a casa da sola, dolce e ingenuo Miah, sei così ubriaco da non reggerti in piedi! È già un miracolo se sei arrivato fin qui. Com’era il gioco? Mezzo bicchiere a me e due a te, perché le ragazze non reggono il vino mentre un uomo può berne quattro volte di più. Ora guardati! Ce la farai ad aprire questo portone e salire le scale?»
Le labbra sensuali di Miriam si dischiudono in un sorriso malizioso e vergine, che dentro le palpebre pesanti di Jeremiah certamente appare provocante, è il sorriso più bello e sfrontato che abbia mai visto nella sua giovane vita.
«Fatti accompagnare, ti prego, amore mio» le dice tirandola a sé.
«Non è cosa che tu possa pretendere questa sera: sono ancora adirata con te per via della tua gelosia, che dovrebbe adularmi e invece mi indispone, poiché è così sciocca. Geloso di un uomo del quale non ricordo nemmeno il volto, né il nome! Com’è possibile? Come si può provare un tale sentimento senza alcuna ragionevole causa?»
«Eppure indossi qualcosa di suo» replica Jeremiah indicando una sorta di protuberanza sotto lo scialle d’uncinetto: qualcosa che le sporge in mezzo al petto, sui seni morbidi, proprio all’altezza del cuore.
«Non è da te insistere così scioccamente. Te l’ho già spiegato: non ha alcun valore per me, se non fosse che mi piace il suo colore e la sua foggia, altrimenti non la indosserei. E le insensate storie che girano per il paese sono soltanto frutto di ingenue superstizioni. E ingenuo sei anche tu, dolce Miah, se credi a tutto quello che sentono le tue orecchie. Ti ripeto quanto ti ho già detto all’osteria: se la indosso è proprio per dimostrare che non ha alcun effetto su di me, come non può averne qualsiasi oggetto privo di vita. Sii ragionevole: che male può arrecare questa delicata pietra?»
«Potrebbe allontanarti da me» le risponde con una strana luce negli occhi. La spinge delicatamente verso il muro della vecchia casa, la bacia e la tocca un po’, sfiorandole i seni e la pancia.
Lei spegne l’ardore di Jeremiah, sussurrandogli nell’orecchio il suo rifiuto.
«Sei scattato in piedi come un matto, all’osteria, per questo non meriti che io resti con te questa sera. Dolce Miah, vai a sbollire la collera e il vino con una buona dormita.»
«Hai ragione, non mi reggo in piedi. Sono così traballante che non credo di poter aprire questo portone senza un aiuto, e di poter trovare da solo la via per le scale. Per questo ti chiedo di accompagnarmi dentro. Potremmo andare un attimo nella stalla, tanto mia madre dorme della grossa e non ci sentirà» le dice con l’ultimo barlume di speranza. Ma è così ubriaco da non convincere nemmeno se stesso.
La bacia di nuovo e le infila le mani tra la schiena e il muro, facendo scivolare le sue dita verso il basso, fino a quando i polpastrelli raggiungono l’incavo e schiacciano la seta del vestito contro la fossetta da cui nasce il solco delle natiche. Lei lo lascia fare ancora un po’ prima di svincolarsi teneramente, abbassando le spalle contro il muro e sgusciando dalla sua presa. Si allontana, mandandogli un ultimo saluto malizioso, un bacio soffiato. Jeremiah getta la spugna, è ormai convinto dell’impossibilità di trattenerla oltre. Si massaggia le tempie con la punta delle dita, come per alleviare una terribile emicrania. Si trascina al portone, lo apre e sparisce ingoiato dal buio delle scale.
Ora Miriam è sola e cammina nell’oscurità, percorrendo il lungo vicolo dove si trova la casa di Jeremiah. Lo deve percorrere quasi tutto e poi salire lungo la viuzza che fiancheggia la chiesa, prima di raggiungere la propria abitazione. Non appena la ragazza giunge in prossimità della chiesa e sparisce dentro quella viuzza, una specie di vibrazione vi coglie alle spalle. Voltate la testa e guardate in fondo al vicolo, là dove i due amanti si abbracciavano: in lontananza potete vedere la porta della casa di Jeremiah aprirsi, e lui uscire un po’ barcollante. Ma voi siete risoluti e vi affrettate a seguire Miriam, poiché non sentite altro che il suo profumo inebriante, un’essenza femminea di lavanda e miele che vi attira in modo inesorabile: così perdete di vista il ragazzo.
La seguite prudentemente, tenendovi a debita distanza, e già capite d’amare il suo incedere fuggevole e instabile, l’oscillare lieve dei suoi fianchi che prelude alle notti d’amore più belle. Ma ecco qualcosa d’inaspettato che distoglie le vostre attenzioni dalla ragazza e vi reca disturbo e ansia: c’è un’ombra dietro di voi, qualcuno che incalza i vostri passi. Ne siete assolutamente certi: qualcuno vi sta seguendo, o più presumibilmente sta seguendo Miriam. Vi girate di scatto ma non riuscite a vedere anima viva. Eppure siete sicuri di trovarvi proprio nel mezzo, tra l’incedere di Miriam e quello di un’ombra minacciosa.
All’improvviso un rumore assordante esplode sopra di voi e si dilata vibrando, facendovi sussultare: un tocco cupo e uno più acuto rimbombano nell’aria muta. Sollevate la testa e guardate le massicce campane di ferro che ancora vibrano dentro gli archi del campanile. La struttura è imponente: una torre di pietra, a base quadrata, composta da strati di due differenti colori, grigio e seppia; essa s’innalza dal fianco della chiesa come un dito minaccioso verso il cielo stellato. L’orologio posto sopra gli archi è contornato da numeri romani decorati in oro; le lancette indicano che la mezzanotte è passata da tempo, esattamente da un’ora e un quarto.
Affrettatevi dolce fanciulla dalle labbra color del mogano, ché questa non è l’ora adatta per andare in giro da sole, rincasando nell’oscurità. È sconveniente e può essere pericoloso. Affrettatevi, dunque! Vorreste dire queste poche e accorte parole alla ragazza che vi precede, poiché siete colti da un presentimento mostruoso; ma non riuscite a farlo. Non potete. Nessun suono esce dalla vostra bocca, mentre le labbra si muovono a vuoto. Possibile che non abbiate ancora capito? Voi non avete alcuna voce in questa storia, siete muti come dei pesci qualunque.
Miriam avanza inconsapevole, con l’ampia gonna del suo vestito che si deforma assecondando i passi, lasciando maliziosamente intuire le piacevoli gambe e il bel sedere. Ora aggira il campanile e s’infila nel vicolo buio che si allontana dalla chiesa. Improvvisamente si ferma e si gira di scatto, verso di voi, e i suoi occhi scintillano come pietre preziose. Sta scandagliando l’oscurità. Voi istintivamente vi nascondete, entrando nel piccolo atrio di un portone. Che succede? Che si sia accorta di voi? Impossibile, voi siete muti e invisibili: nelle immagini della pietra siete solo un riflesso esterno, uno spettatore, un fantasma. Voi non siete materialmente lì. Perciò si è accorta dell’ombra, la stessa che vi incalza da un po’.
Sì. Si è accorta di essere seguita poiché riprende a camminare accelerando il passo. Ora sta quasi correndo. Ora la gonna, che le arriva sino alle caviglie, è d’intralcio. Ma chi è questa carogna? Possibile che non riusciate a vederlo?
Volete capire, per questo uscite allo scoperto e vi piazzate nel bel mezzo della via, ad ascoltare attentamente: cercate qualche rumore che possa palesarvi quella presenza inquietante, non riuscendo a vedere nessun altro a parte Miriam. Ecco! Un rumore! Chi diavolo è? Di che si tratta?
Sembrano dei colpi d’accetta, attutiti dalla distanza o da qualche barriera fisica che si interpone tra voi e la sorgente sonora. Probabilmente provengono da qualche casa, da una legnaia o da un cortile interno; di certo non hanno nulla a che fare con l’ombra che insegue la ragazza. Sembra proprio un’ascia che percuote un ceppo, i colpi di un legnaiolo tardivo che sta spaccando la legna. Quale inopportuna stranezza! È mai possibile che qualcuno stia lavorando a quest’ora di notte? Non avete tempo per pensare alla risposta, dovete affrettarvi a seguire la ragazza se non volete perderla di vista.
Quando Miriam entra in una piccola piazza decadente, coi battiti del cuore accelerati, ecco che l’ombra si materializza, superandovi. Adesso la vedete: ansima e scalpita, è una figura piccola dal passo rapido, vestita di scuro, con un telo marrone calato sulla testa. Si scaglia contro la ragazza. La sorprende alle spalle e la ghermisce, bloccandola in prossimità di una porticina di legno a forma di arco, pitturata di verde, con una spessa catena di ferro che penzola tra un battente e l’altro. Probabilmente è l’ingresso di una legnaia. Con la bocca aperta cercate il volto dell’aggressore. Allorché lo trovate un senso d’inquietudine vi serra la gola come un artiglio ghiacciato: il suo viso è coperto da uno strano cappuccio marrone. Non un cappuccio vero e proprio, piuttosto un copricapo grezzo, fatto con la tela dei sacchi di grano. Una maschera improvvisata: due buchi per gli occhi e uno spago annodato sotto il mento.
Non potete vedere la faccia di quel farabutto, né la sua orribile espressione d’odio, mentre le stringe le mani intorno al collo. È una stretta nervosa, incerta; lei cerca di strappare via quelle dita affusolate dal suo collo di latte, ma qualcosa le ferisce il palmo. Vedete una macchia di sangue che si allarga sulla mano come una stimmate, ne sentite il suo odore sacro, il suo sapore metallico. Lo so, vorreste intervenire. Ma non vi è possibile poiché questa storia è già accaduta, in un altro tempo che non è il vostro: non potete proprio fare nulla, semplicemente dovete stare lì a guardare.
Estratto da "La vanità delle stelle cadenti" - Esterville, estate 1935
Published on November 12, 2015 15:19
La vanità delle stelle cadenti
Nell'anno di grazia 1492 il mercoledì prima di S. Martino, il settimo giorno di novembre si produsse uno strano miracolo. Tra la undicesima e la dodicesima ora del giorno, un gran tuono seguito da un
Nell'anno di grazia 1492 il mercoledì prima di S. Martino, il settimo giorno di novembre si produsse uno strano miracolo. Tra la undicesima e la dodicesima ora del giorno, un gran tuono seguito da un lungo frastuono furono uditi molto lontano intorno, poi una pietra di centosettanta libbre cadde dal cielo nel territorio di Ensisheim.
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