Alessandro Portelli's Blog, page 7

April 9, 2012

Per Rosario Bentivegna

il nmanifesto 4.4.2012

Era molto difficile non volere bene a Rosario Bentivegna. Le ultime volte che l’ho visto, alle presentazioni del suo libro, mi divertivo a dire che, alla soglia dei 90, Sasa’ Bentivegna aveva ancora vent’anni . E lui faceva l’imbarazzato ma si divertiva a sentirselo dire.
Aveva ancora vent’anni perche’ aveva mantenuto, della sua adolescenza, la pulizia, la fiducia nei principi e negli ideali, e persino l’ingenuita’ e il candore che gli si leggeva nel sorriso.
Ma aveva ancora vent’anni perche’ a quell’eta’ aveva fatto la scelta che ha segnato la sua vita. Quando scoppio’ la Guerra, raccontava, decise di fare il medico, per salvare vite invece di uccidere. Poi gli e’ toccato farlo, una necessita’ imposta da nazisti occupanti e fascisti complici, ma non ha mai fatto delle armi un valore. Una volta gli chiesi se era mai stato alle Fosse Ardeatine e che aveva pensato, e lui mi rispose che era una domanda intrusiva e non gli andava di esibire I suoi sentimenti. Ha fatto due guerre, in Italia e in Jugoslavia, ed era uomo di pace.

E poi, aveva ancora vent’anni perche’ per tutta la vita lo hanno inchiodato a un solo gesto di allora, via Rasella. E lui ostinatamente per tutta la vita ha ribadito le ragioni e il senso di quel gesto, e ha smascherato le falsita’ e le manipolazioni di interessata ignoranza che abbiamo ancora dovuto sopportare di sentire in questi giorni. In momenti diversi della sua vita ha dato risposte diverse alla provocatoria domanda – se te lo avessero chiesto ti saresti presentato? (inutile ridire che ai nazisti non passo’ neanche per la testa di cercare I partigiani, decisero subito il massacro e lo portarono a termine in ventiquattr’ore). Le sue risposte variabili non sono segno di incoerenza, ma del fatto che – sempre fermo nelle sue e nostre ragioni - pure su questa cosa ha continuato a interrogarsi, in silenzio, per tutti questi anni.
Aveva ancora vent’anni, ma il tempo se l’e’ preso. E’ solo il nostro corpo che ci tradisce alla fine, dice Bruce Springsteen. Le cose per cui ha vissuto il nostro compagno Rosario Bentivegna l’antifascismo, ma anche il suo lungo impegno di medico per la salute dei lavoratori – queste cose restano con noi. Non ci resta che dirgli grazie.
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Published on April 09, 2012 00:31

March 19, 2012

Materia fuori posto: Killer di razza a Tolosa

il manifesto 20.3.2012

E’ successo in Francia, è successo in Afghanistan, è successo in Norvegia, ed è successo in Italia: la paranoia della guerra e la paranoia della crisi armano mani omicide che vanno a colpire capri espiatori immaginari e innocenti – bambini (e un adulto) ebrei, donne e bambini afgani, ragazzi socialisti norvegesi, ambulanti senegalesi. E la mano che ha ucciso il rabbino e i tre bambini a Tolosa è probabilmente la stessa – forse quella di un ex militare neonazista - che ha ucciso in questi stessi giorni tre soldati, neri e musulmani colpevoli di indossare e quindi contaminare la preziosa uniforme della patria francese.
La paranoia razzista è ossessionata dall’idea della purezza, dell’identità immutabile e assoluta. L’antropologa Mary Douglas parlava dell’ossessione dell’”impurità” come “materia fuori posto”, e materia fuori posto sembrano oggi i migranti in Europa, e da sempre gli ebrei. Aggiungerei che agli occhi degli armati occidentali in Afghanistan e in Irak (e anche il reparto da cui era stato espulso il probabile assassino degli ebrei e dei neri di Tolosa era stato laggiù) sono materia fuori posto i civili, materia d’intralcio colpevole di essere lì, di non amarli, e di ingombrare le operazioni militari (come erano materia fuori posto gli abitanti di Civitella Val di Chiana o di Caiazzo o del Padule di Fucecchio, massacrati dai nazisti per farsi intorno terra bruciata).
In Furore di Steinbeck – romanzo di un’altra crisi – un contadino espropriato dalle banche cerca di capire chi è stato a portargli via la terra, e si accorge che sono poteri impersonali, senza volto. “A chi possiamo sparare?” si chiede, desolato. I razzisti, gli antisemiti, i neonazisti di oggi a chi sparare lo sanno benissimo – non alle banche senza nome, ma a persone in carne e ossa, che inquinano la purezza etnica e religiosa e che oggi ancor più di sempre sono additate come la causa di tutti i mali – il “complotto ebraico”, i migranti che “portano via il lavoro”, i rom che “sono nomadi, e allora continuino a migrare e vadano via di qui” – e nell’onda ormai lunga dei femminicidi nostrani, ci metterei le donne che non vogliono stare “al loro posto”.
Nel caso di Tolosa, l’identità dei tre militari uccisi – neri e musulmani – era parsa irrilevante e non ne aveva parlato quasi nessuno. E’ solo con la strage antisemita venuta dopo che si è colta la dimensione razzista di quegli omicidi: prima i musulmani poi gli ebrei, a conferma del fatto che l’odio verso gli ebrei è infine la sintesi di tutte queste paranoie, di tutte queste ossessioni, e che non c’è razzismo che non finisca per diventare antisemitismo. Per questo, il rabbino e i tre bambini ebrei di Tolosa sono in primo luogo vittime che appartengono a un popolo, a una storia, a una religione e una discendenza specifiche e molte volte ferite; ma sono poi anche la sintesi di un orrore universale, scatenato e legittimato da opportunismi colpevoli e ormai, a quanto pare, fuori controllo.
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Published on March 19, 2012 14:09

March 6, 2012

Bruce Springsteen: Wrecking Ball

Nei suoi momenti migliori, Bruce Springsteen ha saputo esprimere lo spirito radicale dei tempi. The Rising dava voce ai sentimenti del dopo-11 settembre; Wrecking Ball è il disco della Grande Crisi del terzo millennio, la crisi che ha distrutto le città e i rapporti sociali senza bisogno di bombe e cannoni, semplicemente con le armi della speculazione d’azzardo e del capitale finanziario: “Ci hanno distrutto le famiglie, le fabbriche, e ci hanno preso la casa; hanno abbandonato i nostri corpi sulla pianura, gli avvoltoi ci hanno beccato le ossa” (Death Comes to My Town).
La metafora portante, introdotta dalla prima canzone, We Take Care of Our Own, è New Orleans e l’uragano Katrina: la crisi attuale è come il momento terribile in cui i rifugiati dall’uragano erano ammassati del Superdome (il grande palazzo dello sport di New Orleans), lasciati a se stessi, senza soccorsi. Ci sono state violenza e morti, ma alla fine per sopravvivere hanno dovuto trovare un modo di stare insieme e di cavarsela da soli (non è semplice tradurre we take care of our own. Ce la caviamo da soli, ci aiutiamo fra noi, insieme ce la faremo… ). Come a New Orleans nell’uragano, è inutile aspettare che venga qualcuno a salvarci – non c’è nessun “arrivano i nostri”: “la cavalleria è rimasta a casa, non si sentono squilli di trombe”. Non dobbiamo contare che sulle nostre forze.
“Certe volte il domani arriva intriso di tesoro e di sangue; siamo sopravvissuti alla siccità, adesso soprivveremo all’alluvione; so fare tutti i mestieri, ce la caveremo” (Jack of All Trades). La capacità di risollevarsi dalle crisi e dalle catastrofi contando sulle proprie forze è un grande tema americano che affonda nella letteratura, nel cinema, nella letteratura degli anni ’30 e della Grande Depressione. Da Furore di Steinbeck e John Ford alle Dustbowl Ballads di Woody Guthrie (Springsteen ha dedicato un disco a Tom Joad, protagonista di Furore; e Jack of All Trades è intrisa di riferimenti a Guthrie) fino a Via col Vento di Margaret Mitchell e Victor Fleming, le tempeste di polvere, le alluvioni, persino la Guerra Civile sono tutte metafore di catastrofi che sfidano la nostra sopravvivenza. E’ un immaginario condiviso, a sinistra in termini di solidarietà (Steinbeck, Guthrie) come a destra in termini di egoismo (“dovessi rubare o uccidere, non avrò fame mai più: Scarlet O’Hara in Via col Vento). Ma proprio questa ambiguità permette a chi lo evoca di parlare a tutti, non solo a chi è già d’accordo, e magari di spostare qualche sensibilità, proporre altri significati.
Negli Stati Uniti infatti il conflitto culturale e politico non avviene fra sistemi simbolici contrapposti, ma sul significato di simboli condivisi – chi decide che cosa significano la patria, la religione, la bandiera, la libertà, e a chi appartengono? Bruce Springsteen questo lo ha capito fin da Born in the USA , e qui lo sviluppa dando a questa narrativa condivisa e contesa una declinazione democratica, progressista, direi anche di classe: quello che ci permetterà di uscire dalla crisi di oggi non sarà la guerra di tutti contro tutti (come nei primi momenti del Superdome) ma la capacità di riconoscerci come simili, la solidarietà, la visione del futuro. La bandiera, pure subito evocata, non è il simbolo che ci separa dagli altri, ma quello che ci unisce fra noi – e infatti sta insieme ad altri simboli: il lavoro, la pala piantata nella terra (“la figlia della libertà è una camicia sudata”); la memoria, la catena che legava fra loro gli schiavi e i forzati, che li opprimeva e li univa (Shackled and Drawn); la socialità proletaria del baseball e della birra (Wrecking Ball).
La risorsa su cui contare dunque è una cultura operaia fatta di lavoro, di comunità, di fede e di affetti – altri simboli condivisi e contesi in un’ambiguità tutta da sciogliere. Nella contorta America degli ultimi quarant’anni, certi simboli proletari hanno preso un giro di destra, contrapponendo la virtù della laboriosità operaia alla presunta fannullaggine degli hippies, dei neri e degli immigrati, che vivrebbero di sussidi e di welfare (e guarda caso, il lavoro è uno degli immensi silenzi della controcultura e di quasi tutto il rock). Persino la frase chiave – we take care of our own – si potrebbe leggere in questo modo: ci occupiamo noi della gente nostra, e gli altri vadano al diavolo.
E invece Bruce Springsteen spiega che tutte queste cose significano esattamente il contrario. Uno dei brani più sorprendenti, We Are Alive, ha anch'esso ha a che fare con New Orleans, luogo per eccellenza del gotico, dei vampiri e del voodoo (dal Bacio della pantera a Intervista col Vampiro). Springsteen sguazza in questa tradizione, per capovolgerne il senso: quelli che dalle tombe nel gotico cimitero notturno ci gridano “siamo vivi” non sono vampiri, ma sono gli spiriti e le anime dei migranti morti abbandonati nel deserto dell’Arizona, delle bambine nere uccise da una bomba razzista a Birmingham, Alabama nel 1963, e degli operai che nel 1877 diedero vita al primo sciopero generale della storia americana. I primi due sono riferimenti abbastanza canonici; ma il terzo è sorprendente: la storia del movimento operaio, il grande sciopero insurrezionale del 1877, sono cancellati dai libri di scuola e dal discorso pubblico. Per saperne qualcosa bisogna aver letto, se non Sciopero di Jeremy Brecher, almeno Storia del popolo americano di Howard Zinn.
Ora, quello che continua a stupire in Bruce Springsteen, arrivato ormai a sessant’anni, è la sua inesauribile capacità di imparare. Mi ricordo il modo in cui spiegava This Land Is Your Land – “ho letto un libro…” Quanti sono i rocchettari che parlano di libri dal palco dei concerti? Metà di The Ghost of Tom Joad viene da un altro libro, e l’altra metà viene da un film tratto da un libro. In questo disco, Springsteen intreccia la conoscenza della storia sociale con quella di tutta la tradizione musicale americana. Per Rocky Ground si ispira a un brano del Sacred Harp (una forma arcaica di polifonia sacra ancora diffusa nel Sud), e lo campiona da una registrazione sul campo di Alan Lomax negli anni ’50; usa i suoni delle canzoni antimilitariste irlandesi per denunciare la guerra senz’armi e pure mortale di speculatori e banchieri; richiama continuamente Woody Guthrie (“i giocatori d’azzardo ingrassano, i lavoratori sono sempre più smunti” è una citazione diretta; in American Land, la figura dei migranti morti nelle fabbriche e nei campi e dei loro nomi perduti viene da Deportee, una canzone di Guthrie che anche lui ha inciso). Land of Hopes and Dreams (recuperata anche in omaggio al sax dell'insostituibile Clarence Clemmons) riscrive e rovescia una canzone gospel amata da Guthrie come da Big Bill Broonzy – this train… Loro dicevano: “questo treno non porta giocatori d’azzardo, non porta puttane…” E lui invece: “questo treno porta puttane, porta giocatori, porta vincitori e perdenti”. Sul treno di Bruce c’è posto per tutti. Questa è la sua gente, our own.
Soprattutto, American Land (bonus track nell’edizione speciale). Anche qui, si passa per le Seeger Sessions: è una canzone di immigrazione slovacca di inizio secolo, che Pete Seeger ha tradotto e inciso mezzo secolo fa. Springsteen riprende la prima strofa – “che cos’è quest’America, perché tutti ci vanno? Ci andrò anch’io finché sono giovane, ci ritroveremo laggiù nella terra americana”. La canzone tradizionale finiva in tragedia – quando lei finalmente lo raggiunge, trova che è morto in fabbrica e nella terra americana lo possono solo seppellire. Springsteen allarga il discorso: gli immigrati immaginano un terra coi diamanti nelle strade e la birra che esce dai rubinetti, ma dopo che si sono ammazzati per costruirla con le loro mani l'America continua a reprimerli e ignorarli. Questa gente ha cognomi greci, irlandesi, slavi, italiani – e il cognome italiano che cita è Zerilli, il cognome di sua madre. Ecco chi è our own per Bruce Springsteen: i migranti come i suoi nonni, gli operai come suo padre. La storia che continua a imparare è la sua.
Questo però non è un saggio storico o politico – è rock and roll. Ma fino dagli inizi della sua carriera, Springsteen ha trattato il rock and roll come musica tradizionale, folk music del nostro tempo, eredità culturale della sua generazione e della sua classe. Anche per questo -, come sempre è avvenuto nella storia del rock and roll, ibvrido di blues, gospel, country, bluegrass, pop – è capace di integrarci dentro tutta la storia in musica del popolo americano, dal Sacred Harp a Woody Gutrhrie, dal blues e gospel alle canzoni dei migranti. We take care of our own significa anche questo: non ci dimentichiamo di quello che è nostro, perché è grazie a questo che we are alive, siamo vivi nonostante tutto.
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Published on March 06, 2012 10:12

September 16, 2011

Controcanto a fumetti alla storia americana

il manifesto 16.9.2011

La Storia popolare dell’impero americano di Howad Zinn, Mik Konopacki, Paul Buhle (Hazard Edizioni – il manifesto, 2011, 285 pagg., 10 euro) è un libro di storia con tutti i crismi – bibliografia, indice analitico, riferimenti alle fonti, eccetera. E’ anche la biografia intellettuale e morale di una grande figura di intellettuale militante come Howard Zinn, la cui storia personale e le cui riflessioni sul rapporto fra storia e contemporaneità si intrecciano lungo tutto il libro alla ricostruzione degli eventi storici. E poi, è un libro a fumetti: cioè, con tutti i suoi requisiti “accademici” a posto, tuttavia questa storia la racconta ai non specialisti, la fa uscire fuori del recinto autoreferenziale in cui spesso si rinchiude il discorso storiografico, anche a sinistra.
Non c’è bisogno ormai di insistere che un libro a fumetti non è meno serio di qualunque altra cosa. Se ce ne fosse stato bisogno, questo è un esempio straordinario: aggiunge all’informazione fattuale, alle notizie e al commento storico-politico, la forza di un’immaginazione visuale che intreccia immagini\simbolo stilizzate (il grasso capitalista col cappello a cilindro, lo zio Sam a stelle e strisce) con la precisa ricostruzione delle fisionomie dei protagonisti ed è al suo meglio nelle immagini di sfondo, nel contesto spaziale in cui le persone e gli eventi si svolgono; recupera la grande tradizione della grafica rivoluzionaria e militante del movimento operaio americano, compresa la funzione centrale dell’umorismo. Non a caso, fra gli autori\curatori figura uno storico come Paul Buhle, che da sempre lavora proprio sull’uso dell’umorismo, della grafica, dell’ironia nella storia dei movimenti di opposizione americani; e che la grafica di Mike Kopacki riprende (per esempio, con le immagini stereotipe tradizionali del grasso capitalista col cappello a cilindro e dello zio Sam a stelle e strisce) arricchendola con una tecnica di collage che intreccia i pannelli dei cartoon con fotografie, ritagli di giornale, immagini d’epoca: in questo modo, la funzione documentaria e l’effetto grafico si rinforzano a vicenda.
Il libro parte e finisce con una riflessione di Zinn sull’11 settembre, il che ne rende particolarmente tempestiva la pubblicazione. La prima immagine mostra lo storico al suo tavolo di lavoro si copre il viso con le mani per la disperazione, sullo sfondo dell’immagine dell’aereo che punta le torri: “Possiamo provare una terribile rabbia verso coloro che, nell’insana idea di aiutare con ciò la propria causa, hanno ucciso migliaia di persone innocenti. Ma cosa ce ne facciamo di questa rabbia? Come dobbiamo reagire? Ci facciamo prendere dal panico e colpiamo violentemente alla cieca, per dimostrare quanto siamo duri?” Zinn risponde facendo il suo mestiere, di ricercatore e di insegnante, e torna indietro mettendo in fila per i suoi ascoltatori\lettori la storia di tutti quei momenti in cui gli interessi del capitale hanno indotto gli Stati Uniti a massacrare e reprimere la resistenza e l’opposizione interna, dagli indiani ai pacifisti, o ad espandere senza scrupoli il proprio potere globale – “cent’anni di terrorismo e antiterrorismo, di violenza che chiama violenza, in un ciclo senza fine di stupidità” che culmina con l’Afganistan e l’Irak. Da Wounded Knee al colpo di stato in Iran nel 1952, dai grandi scioperi ferroviari di fine ‘800, dalle imprese coloniali a Cuba e nelle Filippine, nate con la pretesa di esportare la democrazia, alla repressione violenta dell’opposizione alla prima guerra mondiale, da Hiroshima al Vietnam, Zinn, Konopacki e Buhle tracciano le origini di una politica di potenza al servizio diretto del capitale, in spregio ad ogni forma di legalità interna e internazionale, che fonda le disastrose pretese del “nuovo ordine mondiale” di fine ‘900. Ma non dimentica di ricordare che tutto questo non avviene negli Stati uniti senza un’opposizione – dal movimento operaio (e spero che il libro serva a far conoscere a tanti di noi la figura stupenda di Eugene Debs) alle lotte per il suffragio delle donne, alle lotte per i diritti civili, alla cultura nera e chicana dello zoot suit e del be-bop, all’opposizione alla guerra del Vietnam (e anche qui, alla dimensione collettiva intreccia figure di protagonisti memorabili, come Phil Berrigan e Daniel Ellsberg). E tutto si accompagna con la storia della formazione di una coscienza di classe rivoluzionaria: è decisivo l’orrore provato quando nella seconda guerra mondiale partecipa all’inutile bombardamento col napalm di un villaggio francese, in cui furono uccisi centinaia di civili insieme coi militari tedeschi che vi si erano accampati in attesa della fine della guerra. Ma il “mai più” che il soldato Zinn scrive dopo questo episodio si innesta su una formazione familiare e sociale in una famiglia proletaria di Brooklyn (“quale bambino che è amato sa di essere povero?”): le immagini delle strade e del paesaggio urbano del quartiere sono secondo me le più belle ed efficaci del libro.
Ovviamente, un libro come questo ha bisogno di qualche istruzione per l’uso. In primo luogo (e questo vale anche per la sua fonte, la Storia del popolo americano), scrivendo negli Stati Uniti Zinn si rivolgeva a lettori che conoscevano almeno una versione dei contesti generali, della storia ufficiale e della storia istituzionale del loro paese, se non altro perché gliel’avevano fatta imparare a scuola, e quindi lo capivano come controcanto alle narrazioni dominanti (non a caso, si presenta come una lezione\conferenza di Zinn a un pubblico di attivisti e studenti), non come l’unica narrazione della storia americana, come se tutta la storia degli Stati Uniti fosse qui. Se non ne teniamo conto, davvero finiamo per farci l’idea semplificata degli Usa come il vero “impero del male”, punto e basta, mero braccio armato della repressione capitalista e imperialista. Anche la forma a fumetti può lasciare il varco a qualche semplificazione: penso alla narrazione avventurosa e un po’ complottistica della crisi iraniana del 1952, da cui sembra venir fuori che le masse sono mobilitabili e manipolabili a piacimento, basta pagare e fare propaganda - che è il contrario di quello che Zinn cerca di dire in tutto il libro. Ma sono dettagli, superabili se alla facilità di lettura e all’impatto emotivo resi possibili dalla grafica, e dalla drammaticità dei fatti narrati, aggiungiamo l’attenzione critica che un libro di storia, anche a fumetti, sempre richiede. E se teniamo in conto le parole con cui il libro si conclude: dopo tante tragedie, disgrazie, sconfitte, catastrofi, Zinn evoca ancora la speranza: “La storia umana non è solo storia di crudeltà, ma anche di compassione, sacrificio, coraggio e benevolenza… Il futuro è un infinito succedersi presenti”. La prima immagine del libro è Zinn in lacrime; l’ultima è il suo sorriso.
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Published on September 16, 2011 02:46

11 settembre: la politica della paura

manifesto\alias, 10.9.2011

Dopo l’11 settembre 2001, in una memorabile conversazione televisiva, due dei leader più in vista della destra religiosa americana individuarono con chiarezza i responsabili della tragedia: "Gran parte della responsabilità”, disse Jerry Falwell (predicatore fondamentalista, fondatore della Moral Majority), “ricade sulla American Civil Liberties Union [un’organizzazione legale progressista e laica]. Con l’aiuto del governo federale hanno buttato Dio fuori dallo spazio pubblico, dalle scuole. E la responsabilità è anche dei sostenitori dell’aborto, perché Dio non si lascia prendere in giro e quando distruggiamo quaranta milioni di bambini innocenti lo facciamo arrabbiare. Io addito i pagani e gli abortisti e i gay e le lesbiche, tutti quelli che cercano di secolarizzare l’America e gli dico, avete fatto voi in modo che questo accadesse”. Qualche giorno dopo, Falwell chiese scusa e ammise che i responsabili erano i terroristi. Il suo ospite Pat Robertson (televangelista carismatico, aspirante candidato repubblicano alle elezioni del 1998), che in TV aveva detto “sono completamente d’accordo”, prese anche lui le distanze. Ma, come dice Huckleberry Finn, erano parole dette, e restavano dette. E c’è sempre qualcuno che continua a dirle, tantissima gente disposta a crederle, media pronti ad amplificarle, politici pronti a cavalcarle.
Domenica 28 agosto 2011, dopo il terremoto che aveva colpito la costa orientale e mentre la tempesta Irene si avvicinava a New York, Michele Bachmann – esponente della destra religiosa, quotata aspiranti candidate repubblicane alle elezioni del 2012 – ha dichiarato: “Non so che altro deve fare Dio per farsi ascoltare dai politici. C’è stato un terremoto; c’è stato un uragano. Egli ha detto: mi volete a stare a sentire laggiù? Ascoltate il popolo americano, perché è infuriato. Il governo si fa sempre più obeso e dobbiamo mettere le redini alla spesa pubblica”. Anche Michelle Bachmann ha poi detto che scherzava (ma che razza di credente è una che prende così scherzosamente invano il nome di Dio, e fa battute sulle decine di morti?). Anche per certi politici americani sembra valere l’alibi inventato dai nostri: sparare cose tremende e poi dire “non prendetemi sul serio” e chiedere il voto.
La continuità fra Falwell e Bachmann suggerisce che a dieci anni di distanza uno dei segni lasciati dall’11 settembre è l’uso strumentale delle catastrofi e l’accentuarsi della paranoia fondamentalista: Michelle Bachmann era la più accreditata concorrente repubblicana di Barack Obama fino a una settimana fa, quando è stata scavalcata nei sondaggi da Rick Perry, governatore del Texas, e ancora più estremista bigotto di lei, convinto che il governo federale sia un complotto antiamericano - tutta gente che al confronto Sara Palin è la Montalcini, ma che per il seguito che ha va presa molto più sul serio dei pur preoccupanti Falwell e Robertson di dieci anni fa.
Infatti la sensazione di essere esposti a rischi e minacce senza nome e inspiegabili – atti di Dio, come la giurisprudenza americana definisce le catastrofi presunte naturali e le loro conseguenze – sì è insediata nello stato d’animo di tanti americani dopo quella drammatica giornata e ha continuato a scavare. Il rifiuto da parte delle istituzioni e dei media più popolari di ammettere che poteva esserci una qualche (criminosa) razionalità, una qualche (malintesa) radice storica nell’atto terroristico non ha fatto altro, fin dal primo momento, che accentuare il senso di impotenza, di vulnerabilità, di vittimismo – la paura, insomma, e la rabbia. A mano a mano che la guerra è diventata condizione ordinaria, al punto che Afganistan, Irak e persino ora la Libia sembrano svolgersi distrattamente su un altro pianeta senza conseguenze di cui i cittadini sembrino rendersi conto, l’asse di questo stato d’animo è venuto spostandosi dal quadro internazionale sempre più sul piano della politica interna – dove fin dall’inizio lo collocavano Falwell e Robertson e dove si incontra con una tradizione di sospetto e di rabbia che non è certo nata con l’11 settembre ma che da ne ha ricevuto un impulso formidabile.
Sia le teorie del complotto fiorite dopo l’11 settembre, sia le teorie “teocratiche” dei fondamentalisti, avevano in comune la difficoltà per l’immaginazione americana di immaginare una soggettività umana altra fuori dall’America. Per i primi, le disgrazie e le sconfitte possono essere solo determinate da cause interne (al tempo del maccartismo, non fu la Cina a diventare comunista, ma fummo “noi” che la “perdemmo” a causa del tradimento di politici venduti); per i secondi, dato il rapporto diretto dell’America con Dio, le catastrofi sono messaggi che la divinità invia al proprio popolo eletto per avvertirlo quando si sta allontanando dalla sua presunta missione (la rivolta indiana che nel 1676 per poco non ributtò a mare i coloni puritani fu interpretata come un monito per l’affievolirsi del fervore religioso dei fondatori). La tesi Falwell-Robertson combinava le due modalità: un monito sovrannaturale per un degrado morale causato da un complotto di soggetti umani interni all’America.
Dal 2008 in poi, la crisi economica si è presentata come un’altra catastrofe ancora più inspiegabile dell’11 settembre, causata da forze arcane e astratte (un memorabile verso di “The River” di Bruce Springsteen dà voce perfettamente a questa sensazione: da qualche tempo non c’è molto lavoro, dice, “a causa dell’economia”, e il suono stesso di quella polisillabica parola di etimologia aliena ne suggerisce l’inconoscibilità), senza neanche agenti umani concreti come quei terroristi inviati dall’Onnipotente (“a chi possiamo sparare?” dice in Furore di Steinbeck il contadino cacciato dalla sua terra confiscata anonimamente dalle banche – e lo stesso devono essersi dette le centinaia di migliaia di americani che le banche hanno inaspettatamente sbattuto ancora una volta sul lastrico per la crisi dei mutui).
L’elezione di Barack Obama ci ha messo la ciliegina: se la catastrofe economica era causata da un complotto, l’agente ideale era il “marxista”, “straniero” e (inconfessabilmente) nero che si era insediato alla Casa Bianca e incarnava perfettamente l’arcinemico di tutte le teorie americane del complotto: il governo federale che non ascolta il popolo, che salva le banche, non risolve il problema della disoccupazione, e impone arcane riforme “socialiste” (basta pensare a come la battuta di Sara Palin sui “comitati della morte” previsti dalla riforma sanitaria è diventata verità incontestabile per mezzo partito repubblicano nell’arco di pochi giorni). Nel momento in cui alla catastrofe economica si intrecciano i disastri naturali, ancora una volta la teoria del monito divino per le colpe dei traditori umani diventa la spiegazione più ovvia: .
In apparenza, tutto questo con l’11 settembre di dieci anni fa e con le sue conseguenze non c’entra niente. Gli elettori americani hanno bocciato nel 2008 i repubblicani che avevano risposto all’attentato con la guerra, e li hanno premiati nel 2010 dimenticandosi di quello che avevano fatto due anni prima, perché le guerre in corso e le loro conseguenze non sono più all’ordine del giorno, non sembrano più far parte dell’esperienza ordinaria della gente comune. Ma in realtà è stato l’11 settembre a legittimare e a rendere permanente il clima di pericolo imminente e lo stato di mobilitazione che si è incarnato nella militanza del Tea Party, nella vittoria repubblicana alle elezioni di medio-termine, e nell’ascesa di figure come Sara Palin, Michelle Bachmann, Ron Paul, Rick Perry.
Dopo l’altra grande crisi, quella del 1929, il presidente Franklin D. Roosevelt ammoniva: “l’unica cosa di cui dobbiamo avere paura è la paura stessa”. Dopo l’11 settembre il monito si è rovesciato: l’unica cosa che gran parte dell’America sa è di avere paura. Ma non sa di che, quindi di tutto. E’ una paira generalizzata e senza forma: “sta succedendo qualcosa qui, ma non sai che cos’è, vero, Mister Jones?”, cantava Bob Dylan. Mister Jones non lo sa, e proprio per questo è spaventato e si aggrappa a chi glielo spiega nel modo più semplice e assolutorio, Dio e i complotti. Gli errori e i disastri della destra (le menzogne, le guerre, i disastri economici) generano paure che la destra stesso alimenta a cavalca. A meno che noi non riusciamo a spostare l’asse del discorso. Barack Obama, dieci anni dopo, dà istruzioni perché l’anniversario non sia celebrato nel solito modo solipsistico e paranoico dei suoi predecessori, e il suo paese si accorga che l’11 settembre non è stato una tragedia solo americana, e che non è stato la sola tragedia della storia umana. Ma può essere troppo tardi.
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Published on September 16, 2011 02:45

August 24, 2011

La festa, la costituzione e la rivolta

il manifesto 22.8.2011



Nelle società tradizionali, scriveva Alfonso Di Nola, le feste corrispondono a “un periodo di intensificazione della vita collettiva” durante il quale “il gruppo rinunzia alla sua attività normale, produttiva e utile” per ricostituire la propria “sicurezza di essere” – il senso cioè del proprio esistere come gruppo. Sembra una definizione fatta su misura per la recente festa dei 150 anni dell’unità d’Italia, pensata come un momento di sospensione dell’attività ordinaria per riflettere sul significato del nostro stare insieme – e invece è successo tutto il contrario, è si è aperto un conflitto sia sull’oggetto (l’unità nazionale), sia sull’idea stessa di festa (pensare e ricordare invece di lavorare e produrre). La festa è un momento di consenso, ma in quel giorno quel tanto di intensificazione della vita collettiva che si è verificato è stato dovuto in gran parte proprio a una divisione, all’esistenza di componente sociale (antiunitaria e produttivistica) che non vi si riconosceva.

E’ questa componente che, sul piano simbolico e forse non solo, cerca la rivincita proponendo, attraverso spostamenti e accorpamenti, se non la scomparsa certo l’attenuazione di una serie di momenti rituali intesi a ribadire la nostra “sicurezza di essere” come repubblica (il 2 giugno) democratica (il 25 aprile) fondata sul lavoro (il 1 maggio). Infatti questa proposta è parte organica di un progetto che mira a trasformare e svuotare la costituzione democratica e antifascista e i diritti dei lavoratori, e ne condensa il significato: cavalcare la crisi per cambiare la natura e la forma del nostro esistere come gruppo.

Il modello ideale di festa a cui si riferiva Di Nola era riferito a società relativamente coese e omogenee, come si rappresentano le società tribali, contadine e pastorali. Nella modernità urbana e capitalistica, la coesione non ha più la forma dell’omogeneità, bensì quella della gestione regolata dei conflitti fra i sottogruppi molteplici e contrapposti che la compongono. Anche la festa allora diventa un momento di conflitto e dal conflitto acquista senso: basta pensare a come l’avvento del primo governo anti-antifascista di Berlusconi-Fini ha ravvivato il 25 aprile, a come proprio l’assenza ostentata del capo del governo abbia rinforzato il significato della nostra presenza. Ma anche a come il senso del 1 maggio si sia attenuato con la sua trasformazione da un momento di orgoglio operaio a una della tante festività musicali giovanili in cui non è lecito dire nulla di controverso; o come il 2 giugno – nonostante le parate militari – abbia ripreso senso quando ci siamo accorti che la Costituzione era sotto attacco.

Si capisce allora anche come mai la preoccupazione produttivistica che milita contro le feste civili si arresti davanti all’inamovibilità delle feste religiose. Queste infatti ci dicono una verità e una finzione sul nostro “stare insieme”, entrambe gradite ai gruppi oggi dominanti. La verità è che in questo paese si può toccare tutto ma non quello che riguarda il Vaticano, dalla festa del patrono all’esenzione dell’ICI; e la finzione è che quello che tiene unita l’Italia non è la sua coscienza e storia democratica, ma la sua identità cattolica. Identità presunta, come sappiamo tutti, Chiesa compresa: per esempio, il 15 agosto che abbiamo appena celebrato sarebbe una festività religiosa, l’Assunzione di Maria: ma quanti sono gli italiani che la vivono in questo nome, anziché in nome di un’altra divinità che riempie più autostrade che chiese (salvo, guarda caso, proprio in quei luoghi lontani dalle autostrade dove resiste ancora un poco di civiltà contadina e non si dimentica del tutto il significato spirituale del rito religioso, magari intrecciato con pratiche ludiche non solitamente consentite). Ma se guardate “Ferragosto” su Wikipedia leggete che si tratta di “una festività laica…dedicata alle gite fuori porta e spesso caratterizzata da lauti pranzi al sacco” (fuori porta? pranzi al sacco? ma in che secolo vivono quelli di Wikipedia?). Altro che Maria Assunta.

La sovrapposizione di festa religiosa e festa profana però ci aiuta a cogliere il senso di un’altra forma di protesta contro l’accorpamento delle feste: quella dell’industria turistica e alberghiera, preoccupata che la scomparsa dei ponti vada a danneggiare l’industria del tempo libero. Questa preoccupazione ci ricorda che anche il capitale stesso non è interamente omogeneo, ma che gli interessi di un settore possono essere diversi da quelli di un altro, e quello che è sospensione dei profitti per un settore può essere occasione per un altro. Ma soprattutto, mette in scena la transizione fra un’economia della produzione a un’economia del consumo – pranzi al sacco e gite fuori porta compresi. Ma se il dovere del cittadino subalterno dell’era consumista è consumare più che produrre, allora viene meno un’altra funzione della festa intesa come un tempo eccezionale in cui si sovvertono i valori e comportamenti del tempo ordinario. Se nel tempo ordinario si lavora, in quello festivo si gioca e si spreca; ma se nel tempo ordinario si consuma e in quello festivo si consuma di più, allora la festa diventa non una sospensione ma un’accentuazione dei comportamenti normativi quotidiani.

Ma allora smettiamola, se non di scandalizzarci, almeno di sorprenderci per le razzie nei negozi londinesi durante il drammatico ferragosto britannico di quest’anno. I giovani d’oggi, sentenziano i soloni scuotendo il capo, non hanno più valori. Ma che valori hanno le banche? Quali valori, se non il consumo “by any means necessary”, con ogni mezzo, gli propone e gli impone la cultura dei vincitori, che li seduce e li respinge in ogni momento del tempo ordinario? La rivolta urbana sospende un sistema di valori – la proprietà, il lavoro – dal quale i ragazzi dei ghetti sono comunque esclusi, per affermarne un altro – il consumo – che sta a portata di mano dietro ogni fragile vetrina.

Parlo dei riots nel contesto delle feste, perché di questo si tratta: una subitanea interruzione del tempo, in cui irrompono comportamenti altri e si affermano presenze ordinariamente marginalizzate. Sono feste le fabbriche occupate e le facoltà occupate, i cortei operai e studenteschi, le parate del Gay Pride, il “se non ora quando” dello scorso 16 febbraio, i concerti rock, gli slut walk inventati quest’anno, persino i rave - non tutto bello, non tutto ludico, non tutto condivisibile. Ma sempre affermazione di una presenza sgradita al potere o al massimo tollerata - anche quando, come spesso oggi, è tutto confuso e contaminato dal culto pervasivo del consumo.

Ma non è una novità: politici e media cascano dalle nuvole ogni volta, ma è storia di più di mezzo secolo. Comincia a Harlem nel 1943: “fu un’esplosione che andò a colpire la proprietà e i negozi al dettaglio, compreso il saccheggio”, scriveva Morris Janowitz, l’inizio di quelle che definì come “commodity riots”, rivolte di consumo, rivolte per le merci. Invece di scontrarsi coi bianchi, i neri distrussero i loro stessi quartieri, proprio come adesso a Londra e a Birmingham, sapendo benissimo che poi avrebbero dovuto continuare a viverci ma esprimendo in quel momento tutto l’odio accumulato per quegli spazi di esclusione e oppressione. “Mio figlio è stato ammazzato dai topi in questa baracca di palazzo”, dice durante la rivolta un personaggio di Uomo invisibile di Ralph Ellison, “ma da oggi in avanti non ci dovrà nascere più nessuno”. E gli dà fuoco.

Mentre le feste tradizionali erano periodiche e a tempi fissi, queste sono esplosioni improvvise, rotture violente del tempo – anche se per lo più avvengono nel tempo relativamente sospeso dell’estate (il blackout di New York nell’estate del 1977, la luce si spegne e il ghetto si scatena: “per la maggioranza [la notte del blackout] era una festa. La notte di Natale e di capodanno a luglio”, scrisse un giornalista). Ma sotto le differenze scorrono le continuità: “sfondando vetrine e saccheggiando a man bassa”, commentava il sociologo John Siegal, “sognano una festosa redistribuzione di ricchezza, un nuovo equilibrio fa chi ha e chi non ha”. Una festosa redistribuzione di ricchezza è, secondo Alfonso Di Nola, il significato simbolico delle questue contadine abruzzesi, di fine e inizio anno, in cui i poveri del paese esigono cibo e denaro dai meno poveri. Ricordo durante la rivolta di Los Angeles del 1992 immagini di gente che usciva dai negozi carica di carta igienica: il saccheggio è anche un’azione che non cerca solo valori d’uso ma anche valori simbolici. Le merci vengono appropriate e distrutte, desiderate e sprecate nello stesso momento. Nelle “feste lunghe” di Sardegna, scrive Clara Gallini in un libro significativamente intitolato Il consumo del sacro, il consumo è “la risposta a tutta un’annata di astinenza, condizionata dalla scarsità di cibo e di denaro” – la stessa scarsità, la stessa divisione ineguale della ricchezza, che è anche all’origine delle rivolte.

Se la festa moderna è un mezzo di gestione dei conflitti, abolirla non significa che i conflitti spariscono, ma che diventano ingestibili. Perciò, non si tratta certo di prendere le sommosse britanniche a modello, ma di ascoltarne la lezione proprio per trovare altri modi meno autodistruttivi di segnare gli stessi significati e le stesse presenze. La relazione complicata fra feste civili, feste tradizionali, feste religiose, rivolte urbane almeno una cosa la suggerisce: la necessità di restituire significato alla festa rivendicandone il valore contestativo, rovesciando la retorica del consenso e leggendola come il momento in cui presenze marginali e valori dimenticati o affermati solo a parole riprendono il centro della scena contrapponendosi al dominio del tempo ordinario e dei suoi padroni. Un tempo, al calendario delle feste religiose si contrapponeva quello delle feste civili (per gli operai e i socialisti era festa il 20 settembre, anniversario di Porta Pia); nel momento più alto dei movimenti abbiamo praticato un ciclo festivo civile alternativo, che comprendeva l’11 settembre cileno, il 12 dicembre di Piazza Fontana, l’8 marzo (di cui le donne ancora rivendicano la dimensione contestativa, una festa non di tutti), il 25 aprile, il 1 maggio… E’ stato il nostro modo di celebrare la differenza di adesso e la speranza di domani, di riprenderci il tempo fin quando questo tempo “concesso” diventerà in un tempo ordinario – e, per esempio, l’8 marzo durerà tutto l’anno e i lavoratori non saranno protagonisti (se ancora lo sono!) solo il 1 maggio. Nel tempo sospeso della festa esprimiamo il significato del nostro tempo ordinario della lotta. Per questo adesso vogliono, prima ancora che portarcele via, cancellarne il senso.







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Published on August 24, 2011 01:17

June 20, 2011

West Virginia: i custodi della montagna

il manifesto, 18.6.2011

I custodi DELLA MONTAGNA
Una marcia nel luogo dove nel 1921 diecimila minatori armati sfidarono le milizie delle compagnie minerarie. Che oggi, con le loro pratiche distruttive, hanno dichiarato guerra all'aria, alla terra e alle persone che ci vivono


Chief Logan Park, in West Virginia, è uno dei tanti bellissimi parchi naturalistici che costellano l'Appalachia. È dedicato a un capo indiano, Logan, passato alla storia per l'eloquente discorso, lodato da Thomas Jefferson, che fece per piangere il massacro della sua famiglia e della sua tribù da parte dei neonati Stati Uniti alla fine del '700. Prima li massacrano, e poi gli dedicano parchi e squadre di football. C'è una statua di Logan nel parco, ma non c'è scritto niente.
Io arrivo all'imbrunire dopo un viaggio avventuroso (le linee aeree americane, come tante infrastrutture in questo paese, cadono a pezzi). Ci sono già una trentina di tende, e Mike e Carrie Klein mi accolgono con una nuova canzone che hanno imparato pochi giorni fa a Harlan, Kentucky: «Qui a Harlan hai due possibilità, o coltivi marijuana in fondo ai valloni o scendi in miniera dove le tue lacrime diventano fango». Si unisce a loro con la chitarra una giovane donna che poi ci racconterà di quando l'hanno espulsa dal ballo della scuola perché c'era andata con la sua ragazza invece che con un maschio.
Siamo qui perché la mattina dopo ci uniremo ad altre centinaia di persone per una manifestazione sulla cima di Blair Mountain, la vetta che separa le contee di Mingo e di Logan. Fu qui che nel 1921 diecimila minatori armati si scontrarono con gli eserciti privati delle compagnie minerarie che tenevano Logan County sotto il tallone di un dominio feudale assoluto. Fu il più drammatico conflitto sociale della storia degli Stati Uniti dopo la guerra civile, ignorato dai libri di storia e dalla memoria pubblica. La battaglia fu risolta dall'intervento di aerei privati che bombardarono i minatori - l'unico bombardamento avvenuto sul territorio statunitense prima dell'11 settembre. Anche la nascente aeronautica militare americana mandò degli aerei pronti a bombardare i loro stessi concittadini, ma non arrivarono in tempo.
In questi giorni, duecento persone provenienti da ogni parte degli Stati Uniti hanno ripercorso la marcia dei minatori del 1921. Non si trattava solo di commemorare quegli avvenimenti e rivendicare i diritti sindacali, sotto attacco in gran parte degli Stati Uniti. La memoria storica si intrecciava con un'urgenza attuale e futura: una compagnia mineraria ha ottenuto il permesso di far saltare in aria la cima di Blair Mountain per estrarre il carbone che c'è sotto. È una pratica che si chiama mountain top removal, e che ha già distrutto 500 montagne e avvelenato 400 chilometri di fiumi nella sola West Virginia, trasformando in deserto e detriti una superficie pari a quella di una media regione italiana.
La sera al campeggio mi chiedono di dire due parole - forse perché sono quello che arriva da più lontano. Gli racconto di Giacomo Diana e Nicola Aiello, reduci italiani della prima guerra mondiale, che marciarono coi minatori di Blair nel 1921. E gli ricordo le parole della mia amica Annie Napier: «Dio ci ha dato l'acqua, la terra, l'aria e gli alberi, e adesso ci tocca combattere per non farceli distruggere». Siamo qui per questo. È la vigilia del referendum sull'acqua in italia, io non ci sarò per votare ma qui la lotta è la stessa. Poi una ragazza che mi conosce perché le è toccato studiare un mio libro per un esame mi evita di dormire all'addiaccio andando a dormire con due amiche e lasciandomi la sua tenda.
Ci raduniamo la mattina dopo in prato alle falde di Blair Mountain, circondato da una foresta verdissima e lambito da torrenti con le acque marroni per i detriti delle miniere. L'unica strada per arrivarci attraversa un campo di proprietà di un'azienda mineraria. Attenti a non mettere i piedi fuori dal sentiero, ci avvertono: se toccate l'erba, vi arrestano per violazione di domicilio. Ci accoglie un cartello con la scritta «Friends of coal», amici del carbone: le aziende minerarie li distribuiscono a migliaia, e tante persone, convinte che la loro sopravvivenza dipenda dagli interessi delle compagnie, li sbandierano in faccia ai manifestanti. Come se essere amici del carbone debba per forza significare essere nemici della terra, dell'aria e dell'acqua.
Quelli che hanno rifatto a piedi il percorso dei minatori fin qui dicono che la maggior parte della gente lungo la strada li applaudiva, li ringraziava, gli passava bottiglie d'acqua. Ma quando sono arrivati ai campeggi che avevano prenotato lungo la strada, li hanno respinti: la maggioranza è contro la distruzione delle montagne, ma nessuno ha il coraggio di mettersi contro le compagnie che controllano l'economia, la politica, la polizia, i tribunali di questo stato.
Sotto un sole che spacca i sassi, nella confusione apparente di centinaia di cartelli, magliette con slogan, capannelli mobili, gruppetti accovacciati con chitarre, armoniche e banjo, ferve un'organizzazione che chiamerei militare se non fosse che non esiste disciplina ma condivisione. Ci raduniamo in cerchio per il training sulle pratiche non violente: siccome la vetta di Blair Mountain è anch'essa proprietà privata, alcuni decidono che rischieranno l'arresto entrandoci, mentre la maggior parte si fermerà fuori del recinto, in cima al monte. C'è una mensa, commestibile e abbondante; il servizio medico con dottori e infermieri; gli avvocati del supporto legale; il servizio oggetti smarriti (dove miracolosamentre ritroverò poi gli occhiali che mi ero perso in mezzo a tutto quel bailamme); i cessi mobili che vanno e vengono a seconda dei movimenti della folla.
Incontro Charlen Keeney, pronipote di Frank Keeney, leader della marcia del 1921. «Non sapevo niente del mio bisnonno - racconta -. I miei genitori ne avevano vergogna, perché era stato in carcere, condannato per alto tradimento e ogni genere di delitti. Poi, crescendo, le persone che sapevano chi ero mi venivano a stringere la mano, a dirmi che conoscevano Frank, che erano stati insieme con lui... E ho capito che ne dovevo essere orgoglioso». È lui ad aprire l'assemblea: «Ci chiamano ambientalisti da strapazzo, ma noi non siamo qui a difendere solo qualche rara specie di salamandra, ma a salvare un ambiente naturale prezioso e ricchissimo, e a salvare la vita delle persone minacciate dalle esplosioni, dai detriti e dall'inquinamento. Dicono che dobbiamo distruggere le montagne perché l'America ha bisogno di energia e perché si creano posti di lavoro; ma da quando è cominciato di posti di lavoro ne abbiamo persi a decine di migliaia, e ce ne sarebbero molti di più se cercassimo un'economia sostenibile e fonti alternative». Lavoro e ambiente sono alleati, qui, oggi. Cartelli e striscioni delle sezioni sindacali si mischiano con quelli coi nomi delle montagne distrutte e con le bandiere dei Mountain Keepers e dei River Keepers, i custodi dei monti e delle acque. Gente di tutte le età, ma soprattutto giovani.
Un musicista locale aggiorna Maggie's Farm di Bob Dylan, denunciando la Massey, la compagnia colpevole del disastro di pochi mesi fa che ha ucciso 28 minatori, in costante violazione delle norme sulla sicurezza e mai seriamente punita: I ain't gonna work in Massey's mine no more, nella miniera di Massey non ci lavoro più. Poi parla Robert Kennedy Jr., avvocato ambientalista, figlio di Robert e nipote di John Kennedy. Ricorda che se non fosse stato per il voto dei minatori del West Virginia suo zio non sarebbe mai stato presidente, e che suo padre Robert era di casa da questa parti. Fa l'intervento più radicale di tutti: «Quello che è in gioco qui è la democrazia. Perché quando i cittadini non hanno modo di farsi sentire dalle istituzioni, quando le grandi compagnie controllano il governo, c'è solo un nome per definirlo: fascismo». Chiude Kathy Mattea, stella di Nashville: They'll never turn us back, non ci faranno mai tornare indietro. Forse non è vero che tutta la country music è di destra. E a me sono finite le pile nel registratore.
Poi partiamo, rigorosamente e allegramente in fila per tre, fiancheggiati dal servizio d'ordine che scandisce: «State sulla strada, non toccate l'erba...». Una dozzina di macchine della polizia fiancheggiano il corteo , ogni tanto impongono di camminare in fila indiana per non ingombrare la strada, intimidiscono, ma il corteo va avanti. Io non ce la faccio ad arrivare in cima, mi sono storto un piede arrampicandomi su una scarpata e immediatamente mi circondano ben tre premurosi infermieri tanto felici di essere utili che mi vorgogno di dirgli che non ho niente e posso tornare alla base da solo.
Al campo base seguiamo il corteo dalle radio e dai cellulari. Ci sono momenti di tensione, ma alla fine non arrestano nessuno. Passano due ore prima che la polizia tolga il blocco alla strada e alla spicciolata tutti tornano indietro. Il viaggio di ritorno, fra ritardi e voli cancellati, è peggio dell'andata.
In questi giorni a New York si proietta un film sul «mountaintop removal», The Last Mountain. Vale la pena di vedere almeno il trailer su youtube: è peggio dei bombardamenti, sembra l'Iraq, sembra la luna. È la guerra contro la terra, l'aria, l'acqua, gli alberi, e le persone che ci vivono. Forse, un migliaio di persone che sono salite su Blair Mountain non basteranno a fermare questo massacro e a ricordare a tutta l'America i minatori del 1921. Ma, come diceva Gianni Bosio e come cantava Ivan Della Mea, oggi qualcosa l'abbiamo fatto.
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Published on June 20, 2011 22:32

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Alessandro Portelli
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