Alessandro Portelli's Blog, page 6

April 18, 2013

Moni Ovadia per il Circolo Gianni Bosio: Cantavamo, canti...

Moni Ovadia per il Circolo Gianni Bosio: Cantavamo, cantiamo, canteremo. Canti per l’uguaglianza Teatro Vittoria, piazza Santa Maria Liberatrice Lunedì 22 aprile ore 21 Da Theodorakis a Matteo Salvatore, dei canti dei ghetti dell’Europa dell’Est a quelli delle operaie tessili ternane: Moni Ovadia e Lucilla Galeazzi (con Fiore Benigni, Paolo Rocca, Luca Balsamo e Fabrizio Cardosa) propongono un coinvolgente percorso musicale e teatrale di ricerca dell’uguaglianza e di resistenza al degrado culturale dominante (Cantavamo, cantiamo, canteremo. Canti per l’uguaglianza). Il significato dell’evento è accentuato dal fatto che si tratta di un’iniziativa a sostegno del Circolo Gianni Bosio, che da quaranta anni, ignorato dalle istituzioni, ha costruito sulla musica, sulla memoria, sul protagonismo del mondo popolare un prezioso lavoro culturale. “Il Circolo Gianni Bosio,” afferma Moni Ovadia, “ da molti anni e per molti anni è stato e continua ad essere un punto di riferimento culturale e politico per l'identità più autentica del nostro paese, per la storia delle sue classi lavoratrici che si è espressa con straordinaria tensione creativa nella narrazione orale, nel canto e nella musica. In un paese civile sarebbe considerato un'istituzione di interesse nazionale”. Posto unico euro 15, acquisto online (http://www.teatrovittoria.it ( o direttamente al botteghino del teatro. Contiamo di vedervi in molti: ne vale la pena, e ce n’è bisogno.
 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on April 18, 2013 03:41

February 19, 2013

Desiderio di altri mondi: due interviste

Discussione a Fahrenheit su "Desiderio di altri mondi"(Donzelli, 2012): http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/... Intervista a Radio Radicale su "Desiderio di altri mondi": http://www.radioradicale.it/scheda/36...
 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on February 19, 2013 11:01

December 30, 2012

Compagna Marilyn?

il manifesto 29.12.2012 C’è una canzone di Dolly Parton, icona sexy della country music, che dice: “Just because I’m blonde don’t think I’m dumb” – se sono bionda non significa che sono scena. La bionda sexy Marilyn Monroe non solo si era sposata un intellettuale di sinistra (cose praticamente sinonime per l’FBI anni ’50) di nome Arthur Miller, ma aveva frequentato gente sospetta durante un viaggio in Messico. Tanto basta per metterla sotto sorveglianza, se non come comunista ameno come “fellow traveler” – compagna di strada, o “utile idiota” come si diceva in quei tempi. Per di più una telefonata anonima a un giornale di destra ossessionato dal comunismo (il Daily News) testimonia che le troupe dei suoi film sono piene di comunisti e che addirittura una parte dei suoi guadagni finiscono nelle casse del Partito. Che Marilyn avesse simpatie per il movimento per i diritti civili e non sopportasse Edgar J. Hoover risulta dai racconti di chi la frequentò, viaggio in Messico compreso. Che la sorveglianza totale dell’FBI, del maccartismo e dei suoi strascichi vedesse una minaccia alla sicurezza nazionale in ogni persona sospetta di pensare con la propria testa, lo sapevamo. Che l’ossessione anticomunista sia capace di far sragionare lo vediamo, mezzo secolo dopo, anche da noi . Ma in questa storia c’è di più: quando si parla di Marilyn non si tratta solo di una persona, ma di una di quelle icone che danno il senso di un’epoca: avere paura di Marilyn significa avere paura di tutto quello che lei rappresenta, avere paura della bellezza, del gioco, della leggerezza, della seduzione – tutte cose che messe insieme all’intelligenza sua e del suo ambiente diventano davvero una miscela esplosiva. Alla fine degli anni ’50, lo spettro politico era diviso fra una destra filoamericana e obbediente in politica e antiamericana in cultura, e una sinistra colta antimperialista e al tempo stesso innamorata sia dell’ “altra”America militante e alternativa, sia della popular culture americana – dei movimenti contro la guerra, di Elvis e di Hollywood. Nel surreale istituto “Marilyn Monroe” dove insegna il professor Apicella in Bianca di Nanni Moretti, Marilyn è il sintomo del disorientamento di una generazione di intellettuali di sinistra alla ricerca di icone disimpegnate e un po’ frivole, dopo la rinuncia a visioni apparentemente più impegnative. Adesso gli archivi dell’FBI si incaricano di suggerirci che forse era un’immagine un po’ meno frivola di quanto apparisse. Sembrava assurdo scegliersi come icone sia Malcolm X, sia Marilyn Monroe. Ma il potere in America aveva paura di entrambi: comunista o no, anche Marylin è una nostra compagna.
 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on December 30, 2012 12:39

December 15, 2012

Una strage americana

il manifesto 15.12.2012 Non ho fatto in tempo a verificare, ma a me non viene in mente nessuna delle ricorrenti stragi americane che sia stata perpetrata da una donna. Al di là della modalità e degli strumenti, dunque, la dimensione di genere ci aiuta a collocare queste tragedia in un quadro un po’ meno esclusivamente americano: in fondo, anche in Italia è in corso da un pezzo una strage ininterrotta, solo che invece di un omicidio di massa tutto in una volta con armi convenzionali si tratta di uomini che uccidono le lorovittime una alla volta, usando una varietà di armi, domestiche e non. Uomini che non sopportano di non dominare più le donne, uomini che non sopportano di non riuscire a orientarsi e trovare un senso di sé, che non sopportano di vedersi sfuggire di mano i ruoli e le prerogative patriarcali su cui hanno investito la propria presenza nel mondo. Da noi, è la sfera privata che ti va in pezzi,e uccidi chi ti è vicino; negli Stati Uniti è la sensazione che sia il mondo intero che ti assedia, e allora forse è anche per questo che la violenza si scatena in spazi pubblici come vendetta sul mondo, e colpisce vittimesconosciute e senza nome nelle strade, o nelle scuole, che sono quasi l’unica istituzione residua di socialità, quindi il più immediato segno di presenza della sfera pubblica. Nell’ultima campagna elettorale si diceva che un candidato che avesse propugnato un qualche limite alla vendita e accessibilitàindiscriminata delle armi avrebbe firmato il proprio suicidio politico. Ho amici in territori marginali e in sacche dipovertà americane che vedono nel possesso del le armi l’unico segno di essere cittadini, il solo diritto di cittadinanza che sentono di esercitare – in un luogo e un tempo in cui salute, casa, lavoro non sono neanche pensati come diritti, e gli altri diritti democratici , dal diritto di parola al diritto di voto, sembrano spesso puramente virtuali o relativamente insignificanti; dove la politica non ti conosce, i media ti ignorano, e il sacrosanto diritto di proprietà è esploso con la crisi dei mutui che ti cacciano di casa, con la polarizzazione del reddito fraricchissimi e classe media impoverita, con la intrinseca precarietà del posto di lavoro. “A chi possiamo sparare?” chiede un contadino sfrattato dalla terra, in Furore di Steinbeck, il romanzo dell’altra Depressione: come fai a sparare a una banca? Oggi il nemico è ancora più senza volto, ancora più inafferrabile, il nemico è il mondo intero, e se il cinismo mercantile dell’industria e la follia ideologica della destra ti mettono a disposizione armi letali tu non hai che da allungare le mani e sparare all’impazzata, contro bersagli che non sono nessuno perché rappresentano tutti.
1 like ·   •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on December 15, 2012 05:55

November 23, 2012

La politica identitaria degli ultras da stadio

il manifesto 23.11.2012 L’aggressione di massa ai tifosi inglesi in un pub romano è una spedizione punitiva premeditata e organizzata, quindi un gesto politico. Il problema è: di che politica si tratta? Molti anni fa, dopo una rissa fra tifosi laziali e livornesi, andammo con Sandro Curzi, Silvio Di Francia e altri a cercare di convincere il patron della Lazio, Claudio Lotito, a prendere posizione contro il fascismo che dilaga nelle curve (non solo) laziali. Non capì nemmeno di che parlavamo; noi parlavamo di rifiuto del fascismo, lui continuava a insistere, come tutte le autorità calcistiche e istituzionali, che “la politica” nello stadio non ci doveva entrare. E invece proprio l’assenza della “politica” lascia il campo a pratiche che esprimono allo stato puro la forma dominante della politica in questi tempi di eclissi della politica: la politica dell’identità. Più la politica “vera” si svuota di contenuti, fra pensiero unico, leaderismi, primarie ad personam, delega dei governabili ai governanti, più quello che conta è solo lo schieramento, l’appartenenza. E allora: quando l’Osservatorio del Viminale ripete il luogo comune secondo cui questi episodi “non hanno niente a che vedere con lo sport” dovremo pure chiederci con che cosa c’entrano, e come mai si addensano comunque attorno agli stadi. Allo stadio si canta: “noi siamo i bianco-blu, la Lazio amiamo, la Roma odiamo”: ma se uno gli domanda perché, non te lo sanno dire perché non c’è nessun perché, emozioni senza contenuti. Infatti il tifo ha lo stesso statuto linguistico dei nomi propri: significa solo se stesso. Come “Giuseppe” significa solo “una persona che si chiama Giuseppe”, così “tifoso laziale” (o “juventino”) significa solo una persona che fa il tifo per la Lazio (o per la Juventus). Non c’è nessuna ragione per fare il tifo per una squadra o per un’altra: è il grado zero dell’ appartenza spesso casuale e intercambiabile (e quando qualche ragione c’è, è identitaria anch’essa. tifi Fiorentina perché sei di Firenze, tifi Lazio – come me – perché mio padre ci giocava: identità al quadrato). Non sono più le antiche scazzottate fra il romanista e il laziale al derby per un rigore o un fuorigioco, ma semplice aggressione dell’altro perché non è “noi”. Che poi la politica dell’aggressione identitaria sia più consona alla destra che alla democrazia è solo un corollario di questo stato di cose (guarda caso, il Tottenham è vicino al mondo ebraico): come scriveva qualche giorno fa Marco Lodoli, la forza bruta e l’aggressione a priori diventano il modo primario di affermare la propria esistenza, una forma di comunicazione sempre più diffusa in tutti i rapporti interpersonali. Lo stadio, insomma, parla di tutti. Infine. Il commento più frequente sulla radio laziali è: non ci crediamo, non possiamo essere stati noi. Ora, l’incredulità è il primo stadio della reazione a un trauma, come quando uno viene a sapere di avere una malattia gravissima (e non riguarda solo i tifosi di calcio: vi ricordate quando cantavamo “Impossibile, un compagno non può averlo fatto”, e invece i “compagni” lo facevano eccome). Certo, non sono violenti e fascisti solo i tifosi laziali, è una malattia ormai generalizzata, tanto che pare che i primi arrestati siano ultra romanisti (in questo caso, non sarebbe la prima azione combinata dei fascisti di entrambe le parti, come è già successo in passato attorno all’Olimpico e a Brescia). Però alla Lazio abbiamo una storia lunga di razzismo e fascismo che non possiamo diluire in un così fan tutti che azzera ogni cosa. Solo quando si prende atto che la malattia esiste si può cominciare la cura. Invece di esorcizzarla, direi ai quei tifosi increduli e alla società che li rappresenta, guardiamoci dentro; magari daremo una mano anche a tutti gli altri infettati.
 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on November 23, 2012 13:43

November 22, 2012

Ad Affile, fiaccole contro il monumento a Graziani

il manifesto 13.11.2012 La strade del borgo di Affile sono strette, perciò la silenziosa fiaccolata sembra forse più lunga di quello che è veramente. Ma siamo qualche centinaio, saliti fin quassù per dire il nostro dissenso all’esecrabile mausoleo in onore del massacratore Rodolfo Graziani eretto per volontà dell’amministrazione locale, col consenso di tutte le istituzioni regionali, statali e religiose, e col silenzio annoiato dei media e del governo; e per esprimere col nostro silenzio il rispetto e l’omaggio per le vittime del colonialismo italiano e del fascismo repubblichino. Dai lati della strada, sugli angoli in salita delle traverse o dai balconi, ci guardano sfilare, silenziosi anche loro. Una signora anziana da un balcone mi chiede che cos’è questo corteo, glielo dico, lei fa un gesto come per dire che non gliene importa niente. In mezzo a noi ci sono quattro carabinieri; facendo finta di credere che sono lì per manifestare anche loro gli dico, “Sono contento che ci siate anche voi. Graziani e i suoi complici hanno fatto deportare settecento carabinieri e non si sa quanti ne sono tornati vivi”. Prendono atto senza scomporsi. Altri mi diranno più tardi che qualcuno, anche persone anziane, ha espresso consenso e ringraziamento. Verso la fine, in piazza, quando il silenzio finisce canto di Bella Ciao, un ragazzino dietro le spalle di altri al margine della piazza, soffia dentro un fischietto. Ma per il resto, lontananza e sguardi muti. Molti di noi vengono da fuori: c’è un pullman dell’ANPI provinciale e ci sono tutte le sezioni ANPI dei paesi vicini; c’è il Circolo Gianni Bosio, un gruppo di compagni di Rifondazione, persino una piccola rappresentanza della Lega di Cultura di Piadena (dove sono riusciti a far ricoprire un fascio littorio misteriosamente spuntato e accuratamente restaurato sulla facciata del comune di Voltido); c’è un gruppo di ragazzi e ragazze africane, il deputato PD Jean-Léonard Touadi (autore di un’interrogazione parlamentare a cui nessuno risponde), la scrittrice afro-italiana Igiaba Scego. Più tardi, nell’assemblea che chiude la giornata, il rappresentante del comitato antifascista di Affile dirà che siamo ancora troppo pochi, e che è un peccato che siamo quasi tutti venuti da fuori, e delle voci si alzano orgogliose: noi siamo di Affile, e siamo qui. Ed è molto bello importante che il comitato antifascista di Affile sia composto soprattutto di ragazzi giovani: segno che l’antifascismo non è un rottame ideologico di epoche passate, e che forse la tradizione fascista di questi luoghi comincia a sfrangiarsi col passare delle generazioni. Ma certo ci vuole coraggio per dirsi e farsi vedere antifascisti in questi posti dove la cultura nostalgica ha radici solide coltivate anche dal potere democristiano (chi non ricorda il miserabile abbraccio di Giulio Andreotti al criminale di guerra Graziani, proprio qui vicino, sui piani di Arcinazzo?) e perpetuate nel fascismo dichiarato dei ras bel basso Lazio, da Ciarrapico nella vicina Fiuggi all’ineffabile Fiorito di Anagni (e a Bellegra, poco lontano, ha appena aperto un circolo di Forza Nuova). Perciò mi pare importante che siamo usciti da Roma: è stata anche l’idea che nel Lazio sia solo Roma a contare che ha favorito le sconfitte maturate nelle regionali scorse e anche in passato. Alla sala dove si svolge l’assemblea si scende per gradini tappezzati di manifesti che gridano, “Non in mio nome”. Alle pareti, una dettagliata mostra sui criminali di guerra italiani. Sara Modigliani apre l’assemblea guidando il canto di “Oltre il ponte” di Italo Calvino e Sergio Liberovici, la canzone che trasmette la memoria della resistenza alle ragazze e ai ragazzi che allora non c’erano. Lo storico Alessandro Volterra illustra con dovizia di documenti originali i crimini di Graziani in Libia e anche la sua inadeguatezza militare (alla faccia del “soldato Graziani” di cui favoleggiano i promotori del mausoleo). Igiaba Scego ricorda che quello che è successo ad Affile fa parte di un clima che comprende la strage dei senegalesi di Firenze, le continue violenze e le discriminazioni razziali contro gli immigrati (è di ieri l’irruzione di Forza Nuova in un teatro di Pontedera dove si festeggiava il riconoscimento della cittadinanza italiana a un gruppo di immigrati – in sinista continuità coi raid fascisti recenti nelle scuole romane), ma anche la quotidiana strage di genere che ha preso il sinistro nome di “femminicidio”. Perciò ha ragione Francesco Polcaro, presidente dell’ANPI provinciale romana, quando dice che i ragazzi antifascisti di Affile hanno reso un grandissimo servizio non solo al loro paese, ma all’Italia tutta che di persone come loro ha un gran bisogno in questi tempi cupi. Alla fine, una proposta di un intervenuto sembra interpretare il consenso di tutti: rovesciamo il clima di Affile, facciamone un polo di cultura democratica, chiamiamo qui Marco Paolini e Ascanio Celestini, Giovanna Marini, i Tetes de Bois, i suonatori del Circolo Bosio… Facciamo vedere, dice Ernesto Nassi dell’ANPI romana, a questi cultori dei sacrari, dei mausolei, della ricerca della buona morte, che gli antifascisti sono gente tosta, sì, ma anche gente felice di vivere.
 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on November 22, 2012 15:16

Musica e movimento negli Stati Uniti - una lezione finale

Annalucia Accardo mi ha chiesto di fare questa lezione e capita che sia l’ultima volta che faccio ufficialmente lezione all’università. E’ una felice coincidenza anche perché l’argomento della lezione è lo stesso con cui ho cominciato: musica e movimenti negli anni ‘60. Perciò ve lo racconterò come una testimonianza, una storia personale di formazione in cui queste canzoni sono state cruciali, perché senza queste canzoni sarei una persona diversa, non avrei fatto questo mestiere. Avevo 16-17 anni, non avevo alcuna idea politica in testa eccetto che la politica era una cosa sporca, che erano tutti uguali, eccetera. E al telegiornale vedevi cose come quei nove bambini neri dell’Arkansas che passano in fila tra sputi, sassate, bastonate, per entrare a scuola e rivendicare il diritto a un’istruzione comune a tutti. Questa scena, per un ragazzino di sedici anni di allora è un’illuminazione: ‘Ma allora la politica è questo, la politica è un luogo nel quale le persone si muovono per dei valori, per dei principi, per l’uguaglianza…’ Il movimento per i diritti civili afroamericano ha avuto un impatto del genere su tutto il mondo - la rivelazione di tutta un’altra dimensione, dell’azione collettiva, della pratica solidale, della morale nella politica, dei diritti di tutti. Io già bazzicavo la musica americana, il rock and roll e il resto, in cui mi riconoscevo come generazione. Così un elemento di fascino ulteriore fu che questo movimento dei diritti civili si esprimeva in primo luogo attraverso la musica. Ascoltiamola: una registrazione fatta in una manifestazione di massa in Mississippi, nel 1953: libertà, libertà su di me; e prima di essere schiavo sarò sepolto nella tomba, andrò a casa dal mio Signore e sarò libero. E’ uno spiritual che risale almeno dalla Guerra Civile, attorno al 1860. Come in tantissimi spiritual c’è l’espressione di un desiderio di libertà, che non si può esprimere se non in immagini bibliche: dentro il canto religioso c’è un’idea di liberazione che può essere mondana o ultramondana ma comunque un’idea di liberazione.. Il movimento si esprime grazie a una grande cultura musicale. Da un lato, le radici africane, con un rapporto molto stretto tra ritualità, musica e danza, che viaggiano persino nelle navi degli schiavi, perché sono un linguaggio del corpo e i linguaggi del corpo sono gli ultimi a venire cancellati. Dall’altro, in tutti gli Stati Uniti, fin dal ‘700 i culti metodisti, battisti, evangelici, sono fondati sulla musica collettiva - sia per l’influenza afroamericana, sia perché il forma di comunicazione col divino e uno strumento di coesione della comunità. Pensate alla scena di Moby Dick in cui Father Mapple, predicatore, inizia un canto e le persone sparse si raccolgono e diventano congregazione, comunità. L’altra cosa importante di questo brano è la forma: una strofa che si ripete sempre uguale, cambiando solo una parola all’inizio. Quindi tu poi anche non avere mai sentito questa canzone però dopo trenta secondi sei non solo in grado di cantarla, ma anche di reinventarla, perché immetti dentro il canto le tue istanze del momento. E’ uno strumento flessibile che ti permette di combinare memoria di cent’anni e più di storia con il presente, con la lotta in corso; e di improvvisare collettivamente, combinando comunità ed espressione individuale, perché si canta tutti insieme ma ciascuno si può inventare un sua strofa e condividerla con gli altri. […] Nel 1981, mi trovo in un posto che si chiama Highlander, una scuola di base fondata negli anni ’30 da giovani studenti di teologia, in mezzo delle montagne del Sud più reazionario per formare i quadri del sindacato, e poi negli anni ’50 quelli del movimento per i diritti civili. Sto salutando il direttore, entra una segretaria e gli dice “c’è Rosa Parks al telefono”. Se mi avessero detto che aveva telefonato Karl Marx mi sarei emozionato di meno. Perché Rosa Parks ci è stata raccontata come una vecchietta con i piedi gonfi, stanca, che non ce la fa ad alzarsi e a cedere il posto a un bianco sull’autobus a Montgomery, Alabama – l’episodio da cui si fa partire tutta la vicenda del movimento. Mi bastò sentire che era in contatto con Highlander per capire una dimensione del movimento che nessuno ci raccontava. Prima di quell’episodio Rosa Parks aveva fatto un seminario di formazione proprio a Highlander: la sua era un’azione politica, consapevole, programmata e organizzata. Infatti a Montgomery c’era tutta una rete che non aspettava altro, era già pronta, e in pochi giorni organizza un boicottaggio di massa. Quindi non era una cosa nata sull’onda dell’emozione, ma da una intelligenza politica – cosa che raramente attribuiamo ai cosiddetti subalterni, ai quali si suole riconoscere magari sentimenti e virtù, ma mai l’intelligenza. E’ a Highlander che cambia l’uso della musica. Un musicista di nome Guy Carawan convince il movimento che questa forma musicale, di cui i giovani si vergognavano perché la identificavano con la memoria umiliante della schiavitù, è invece uno strumento di comunicazione di mobilitazione fondamentale. E la canzone che gli insegna è uno spiritual, che avevano sentito cantare anni prima dai braccianti del North Carolina in sciopero, e a cui adesso cambiano solo una parola: da “I’ll Overcome” diventa “We Shall Overcome”. […] Il movimento per i diritti civili cambia l’aria che si respira in America, e ha un impatto fortissimo su tutta una generazione – che è poi quella del ‘68, che comincia con la lotta per il diritto di parola all’università di Berkeley nel ‘64, condotta in gran parte da ragazzi che tornavano dall’aver partecipato alla “Freedom Summer” per i diritti civili in Mississippi. Gli studenti bianchi tornano alle loro università e scatenano una lotta che segna la rottura tra una generazione di ragazzi, magari privilegiati, ma che non si riconoscono più nell’insegnamento che li porta verso la carriera, il successo, i soldi, la competizione. Da lì partono i nuovi movimenti contro le guerre e gli interventi militari, da Santo Domingo al Vietnam. La voce in cui si riconosce tutta una generazione è quella di Bob Dylan. Lui poi si sottrarrà per tutta la vita dal peso di essere la voce di questi movimenti, ma in questa fase, tra il 1962 e il 1964, lo è davvero. E la canzone fondamentale degli anni ’60 è sua: “The Times they are a-Changin’”. E’ difficile immaginare il senso di eccitazione e di ebbrezza che ti dava una canzone come questa: sentivi davvero che “i tempi stanno cambiando” e che eri tu che cambiavi coi tempi e cambiavi i tempi. Questo erano gli anni ’60, la sensazione fortissima che si apriva una nuova strada, e che – come dice la canzone – politici, famiglie, intellettuali, istituzioni o si levavano di mezzo o ti davano una mano; o nuotavano con te o affondavano. Risentendola adesso, però, mi colpisce il verso che dice “the present now will never be past”. Nel’63 lui ew noi diciamo: “voi siete il presente, tra un po’ sarete il passato”. Ma nel 2012, il passato siamo noi che eravamo il presente di allora, è lui che è sempre bravissimo ma non è più la voce dei tempi. Mi fa pensare al discorso che circola da noi, i giovani contro i vecchi, le rottamazioni – fra dieci o vent’anni anni questi giovani saranno vecchi, è la fallacia di ogni movimento su pura base generazionale. Dicevamo, “non vi fidate di nessuno che ha più di trent’anni”, e il giorno in cui compì trent’anni Bob Dylan fu un trauma per tutta una generazione, che non si poteva fidare più nemmeno di lui, e di se stessa. Però in quel momento una canzone come questa ci diceva una cosa che è molto più difficile dire oggi: e cioè che c’era un futuro, che c’era una strada, e che eravamo noi a crearli. […] Abbiamo ascoltato le canzoni del Black Power (“Oginga Odinga” dei Freedom Singers), quelle di Pete Seeger e Phil Ochs contro la guerra, quelle dei soldati che rifiutano di andare in Vietnam, quelle delle lotte proletarie (i corridos dei braccianti messicani in California). Alla fine, come scrive nel suo ultimo libro Bruno Cartosio, tutti questi movimenti scompaiono vanno in crisi, eccetera, e quello che tira le fila di tutto e che sopravvive e cambia tutto è il movimento delle donne. Nel 1972 viene a Roma Barbara Dane, grande cantante di blues e di canzoni di lotta, e organizzo un incontro con il collettivo del Manifesto. Barbara canta un po’ di canzoni delle lotte in corso, e poi le chiedono:‘Che cosa succede adesso di importante in America?’ Li risponde: ‘La cosa più importante è il movimento delle donne’. Avreste dovuto vedere la faccia dei presenti, che non solo non ci avevano mai pensato ma che da questo movimento si vedevano mettere in crisi i paradigmi di una lettura un po’ dogmatica della storia attraverso la sola categoria del conflitto di classe. La novità con la quale si chiude questa stagione e se ne apre un’altra è questa scoperta, che il pianeta è limitato e che l’aria a un certo punto finisce, e che oltre i rapporti di razza, di classe, eccetera, al centro di tutto stanno i rapporti di genere. L’ultima cosa che ascoltiamo l’ho sentita per la prima volta proprio a casa di Barbara Dane. Un giorno arriva una sua amica, una giovane musicista che si chiama Beverly Grant, per farle sentire un po’ di sue canzoni nuove. Con mio grande entusiasmo – per un intellettuale non c’è gioia più grande di scoprire una cosa alla quale non avevi pensato prima - scoprii l’importanza, la forza, l’intelligenza, l’eloquenza, di questa nuova realtà delle donne. Non mi dimenticherò mai che lei aveva una bambinetta di due anni, totalmente autonoma che si gestiva il biberon… Questa sua canzone è la storia di come una donna trova se stessa liberandosi di una subalternità instillata fin dalla nascita. Finisce dicendo “Mi chiamo Janie e sono io – non Janie di papà, non Janie di mio marito, ma Janie di Janie”. Come dire: “io sono mia”. […] Infine. Queste musiche ci dicono, su uno dei momenti più straordinari del ‘900, più di tutti i romanzi scritti in quegli anni e di tutti i film fatti dopo. Riconoscere l’intelligenza e la passione di questi movimenti passa per l’ascolto di voci non autorizzate, antagoniste, marginali che proprio perché non autorizzate sono portatrici di una spinta liberatoria che sta già nell’atto stesso di prendere la parola. Per capire un tempo, per capire anche noi stessi in rapporto a quel tempo, ascoltiamo voci non autorizzate, ascoltiamo chi erano questi militari che cantavano andando a protestare contro la guerra, ascoltiamo questi musicisti messi sulla lista nera e fuori mercato, questi afroamericani che cantavano rischiando la vita a Birmingham o Selma. Noi in questa facoltà, che siamo tecnici della parola, dobbiamo tenerci molto stretta questa competenza, questo privilegio, questo diritto, perché non solo abbiamo la parola ma siamo destinati ad aprire spazi di parola agli altri. Se uno fa il mediatore culturale, questo fa: apre spazi di parola e di ascolto, e allora ecco che la musica, i racconti, le storie, arrivano, e non li ferma più nessuno.
 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on November 22, 2012 12:51

July 17, 2012

Silenzio di stato

Il manifesto 17.7.2012 Un pomeriggio pochi giorni fa ero nella sala dell’Istituto Centrale per i Beni Sonori e Audiovisivi. Stavamo continuando una lunga intervista con Mario Fiorentini, matematico di fama mondiale e protagonista della Resistenza romana. Il racconto si dipanava, digressivo e articolato come quelli di chi ha tanto da raccontare e sente di avere poco tempo per farlo. C’erano i ricercatori e i tecnici dell’Istituto, i microfoni per registrare, un paio di amici venuti a sentire. La registrazione era destinata ad aggiungersi all’incredibile patrimonio di voci e ai circa 500.000 documenti che l’Istituto ha accumulato e reso disponibile dal tempo della sua fondazione negli anni ’20 come Discoteca di Stato. Tutto questo però è come se non fosse mai avvenuto. Infatti quella stessa mattina, nell’ambito della cosiddetta spending review (vuol dire, banalmente, “esame della spesa”; ma in inglese fa tutt’altro effetto) era stata annunciata la soppressione dell’Istituto, senza che nessunp ne fosse stato informato o consultato, senza nessuna verifica della sua utilità e funzionamento, e senza darne nessuna motivazione. In un comunicato dei lavoratori dell’Istituto ci si chiede come mai si scelga di sopprimere “un Istituto storico, unico nel nostro paese, che non ha auto blu, non effettua alcuno spreco di denaro pubblico, con un budget ridotto a livelli di sussistenza”, e che per di più è titolare del diritto di deposito legale di tutte le pubblicazioni sonore e audiovisive (come dire, l’equivalente in questo campo della Biblioteca Nazionale). La politica del “governo tecnico” nei confronti della cultura – scuola, università, istituti di ricerca (come l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare) – mi ha convinto di una cosa: un tecnico non è necessariamente una persona colta. Un tecnico è in grado di eseguire una serie di operazioni settoriali in un settore ben definito, ma non è tenuto a capire niente di quello che si muove al di fuori del suo territorio e tanto meno ad avere immaginazione e visione. E siccome l’unico settore che conta e l’unico in cui dichiarino di avere competenza è quello dell’economia di mercato e finanziaria, ecco che si avvera il motto attribuito a Tremonti: con la cultura non si mangia. Che volete che ne importi a Moody’s o ai mitici “mercati” del nostro più grande patrimonio sonoro e audiovisivo, della nostra memoria in immagini e suoni? Il modo frettoloso e irrituale in cui è stata presa e annunciata la decisione di sopprimere una realtà cruciale per la nostra memoria storica e culturale dà l’idea di una straordinaria superficialità. Ma d’altra parte il disprezzo per la cultura e per la ricerca, la convinzione della loro irrilevanza, si armonizzano bene con una prospettiva di declassamento del nostro paese ben più pesante di quello di Moody’s: un paese di seconda categoria, senza passato e senza futuro. Ma con licenziamenti facili e novanta cacciabombadieri.
1 like ·   •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on July 17, 2012 13:35

April 24, 2012

Festa d'aprile. Senza imbucati

il manifesto 24.4.2012 Il comune di Roma sfratta la Fattoria Verde, una delle più originali esperienze ecologiche e terapeutiche, per dare lo spazio a un’associazione di estrema destra senza altri requisiti che quelli clientelari. Tiene da un anno sulla corda la Città del’Altra Economia mentre continua regalare spazi logisitici e politici a Casa Pound.Regione e Comune non si presentano al funerale del partigiano Rosario Bentivegna. E poi Polverini e Alemanno si stupiscono e si lamentano se l’ANPI non li invita alla manifestazione del 25 aprile. La rinnovata associazione partigiana con questa scelta ha stracciato il velo di ipocrisia che copriva le relazioni fra la festa antifascista e le “istituzioni”. Le istituzioni a Roma sono in mano a figure che dell’antifascismo sono storicamente e quotidianamente il contrario. In questo modo, l’ANPI restituisce al 25 aprile tutto il suo valore contestativo, il valore di una festa che da sempre disturba il potere. E dice una cosa fondamentale sul significato della memoria: in una società divisa, la memoria deve restare divisa e in conflitto, non può disciogliersi dietro una concordia fittizia. Chi è in piazza questo 25 aprile a Roma sa – per dirla con i militanti americani di Occupy Wall Street – which side we are on, da che parte stiamo. E la nostra festa ce la riprendiamo. Alemanno e Polverini sono sia il prodotto, sia i responsabili, di un clima in cui chi sta dalla parte dei principi della costituzione e della democrazia viene aggredito e intimidito e fatto tacere Roma, mai pacificata, è diventata un campo di battaglia deturpata da scritte fasciste, altro che Woody Allen. Al liceo Avogadro quattro ragazzini fascisti si permettono di dare sulla voce a un partigiano di 84 anni (ma era già successo,per esempio a Mario Fiorentini a Grottaferraata: un tempo in queste situazioni i fascistelli non venivano o stavano zitti, adesso hanno preso l’iniziativa e aggrediscono convinti dell’impunità. Giorni fa un gruppetto di fascisti della Balduina (un quartiere di grande visibilità fascista, ma dove tutte le strade sono intitolate a vittime delle Fosse Ardeatine) sono andati a intimidire una libreria che aveva organizzato un incontro sulla resistenza (che si è fatto comunque) e a vietargli di volantinare nel quartiere. Allo stadio rigurgitano un’altra volta gli slogan antisemiti. E i responsabili di questo clima pretendono pure di salire sul palco con noi? Grazie, ANPI, per avere fatto chiarezza.
 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on April 24, 2012 13:24

April 10, 2012

Woody Guthrie, cento anni

Il Giornale della Musica, marzo 2012

Woody Guthrie quest’anno compirebbe cent’anni, ma non li dimostra. Prendiamo una delle sue canzoni meno conosciute, una piccola innocente filastrocca intitolata Jolly Banker – “l’allegro banchiere”: “Quando hai bisogno di soldi e mantieni una famiglia, io ti farò credito perché so che ne hai bisogno” – salvo poi prenderti casa, terra, macchina e tutto, se non ce la fai a ripagarlo. La scrisse durante l’altra grande depressione, ma vale anche per la nostra, per i mutui subprime, per l’1% di allegri banchieri contro cui si mobilita il movimento Occupy. E’ un tema che ritorna spesso in Woody Guthrie: “i miei raccolti stanno rinchiusi nei forzieri delle banche”, dice in un’altra canzone, e “chi lavora è povero, chi specula è ricco”. Fino alla strofa indimenticabile: “Ho girato tutto il mondo, ho visto tante cose e tanta gente strana, ma non ho mai visto un fuorilegge che sfratta una famiglia dalla sua casa”, perché, conclude, “c’è chi ti rapina con la pistola, e chi con la penna stilografica.” Forse oggi avrebbe aggiunto che c’è chi ti rapina con un clic di mouse.
Non è un caso Occupy Wall Street abbia recuperato una quantità di canzoni che appartengono al mondo di Woody Guthrie (da Which Side Are You On a We Shall Overcome), e che il momento più alto di speranza che gli Stati Uniti hanno vissuto negli ultimi anni – l’ingresso di Barack Obama alla Casa Bianca – sia stato segnato dalla memorabile performance di Pete Seeger e Bruce Springsteen che davanti a una folla enorme hanno cantato la grande canzone di Woody Guthrie, This Land Is You Land, questa è la tua terra (“questo è un bellissimo paese”, scriveva ironico Woody Guthrie, “con colline molto collinose e pianure molto pianeggianti; l’unica cosa che non mi va in questo paese sono i suoi padroni”) e l’hanno cantata recuperando strofe censurate e dimenticate di quella che era tanto una canzone d’amore per il proprio paese quanto una canzone di protesta: “C’era un muro che mi sbarrava la strada, e su questo muro c’era scritto proprietà privata”, e poi “ho visto la mia gente in fila davanti alla mense dell’assistenza, e mi sono chiesto se davvero questa terra è stata fatta per me e per te”.
Dicono: sono solo canzonette; è musica “leggera”. Ma se da settanta, ottanta anni c’è chi le canta e ci si ritrova, qualche ragione ci sarà. Una è strettamente musicale: sono canzoni d’uso, canzoni che si possono cantare. La musica popolare è fatta per viaggiare leggera, trasportata solo dalla memoria e dalla voce, magari con una chitarra e un’armonica; mentre sempre di più la popular music si va facendo tecnologica, sperimentale, con apparati sempre più complessi – che è una buonissima cosa, ma poi non ci si può stupire se la gente a casa ascolta Jimi Hendrix e poi in strada (penso a certe manifestazioni sindacali che ho visto negli anni ’80 negli Stati Uniti) canta Union Maid di Woody Guthrie. Che è poi la stessa ragione per cui il nostro “movimento del ‘77” le sue canzoni le inventava sull’aria della Spagnola o di Papaveri e papere, roba dei loro nonni, che non si sarebbero mai sognati di ascoltare.
Un’altra ragione oggi è che Woody Guthrie parla di tempi e di luoghi specifici – gli anni ’30 e ’40, il Sudovest degli Stati Uniti – ma lo fa andando alla radice, all’essenziale delle cose e dei rapporti, a quello che dura. Alla proprietà – come in This Land e nelle canzoni sui banchieri. Alla guerra: e allora, in tempi di guerre del Golfo, Tim Robbins conclude il suo Il protagonisti sulle note di I Want to Know di Woody Guthrie: perché le tue navi da guerra solcano le mie acque, perché porti armi e bombe invece di cibo e vestiti? Alle migrazioni: la sua Deportee l’hanno incisa assolutamente tutti, da Dolly Parton a Bruce Springsteen, e racconta degli stagionali messicani morti nella caduta dell’aereo che li rimpatriava alla forza alla fine dei raccolti: “ sono morti sui nostri colli, sono morti sulle nostre pianure, sono morti nei nostri orti, e non hanno altro nome che ‘deportees’”, stagionali, rimpatriati. Magari oggi ci leggiamo dentro anche cose che vedevamo di meno allora: le sue canzoni sulla Dust Bowl, le tempeste di polvere che mandano in rovina i contadini (svenati, anche qui, dai mutui ipotecari che non possono pagare), sono l’epopea e l’elegia di una grande tragedia umana; ma oggi ci accorgiamo che sono anche un ciclo doloroso di storie su un grande disastro ambientale causato dall’economia.
Woody Guthrie aveva scritto sulla sua chitarra: Questa macchina ammazza i fascisti. Sulla cinepresa di una film maker alternativa del Kentucky ho visto citate le stesse parole: anche quella macchina “ammazza i fascisti”. Questo infine insegna Woody Guthrie: le parole, la musica, le immagini – l’immaginazione, la passione e le idee – sono armi che ci possono salvare, dai fascisti di allora, e dai despoti globali di oggi.
 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on April 10, 2012 04:37

Alessandro Portelli's Blog

Alessandro Portelli
Alessandro Portelli isn't a Goodreads Author (yet), but they do have a blog, so here are some recent posts imported from their feed.
Follow Alessandro Portelli's blog with rss.