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La sfida dell'Alfabeto
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L' A/Z di Amaranta - completata
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Un inno alla sua amata Praga. Urzidil racconta la sua vita attraverso capitoli che potrebbero essere racconti perfetti a sé stanti. In ogni parte qualcosa di sé, di quel bambino senza madre e con un padre senza terra, sensazione che lui stesso proverà più tardi sulla sua pelle, esperienza di vacanze, di boschi, di fantasticherie, di paura con l’arrivo della guerra, di abbandono della sua amata perduta. Una Praga che non è sbandierata, ma abbozzata, nei ricordi della torre dell’Orologio, del palazzo del Municipio, di quelle vie brillanti di neve, e che sembra magnifica.
“La mia Patria è ciò che scrivo” . E’ così che le sue sensazioni diventano la sua terra, in quelle case e in quei boschi stranieri che lo ospitano ricostruisce la sua amata. E lì i suoi silenzi diventano pensieri, sulla vita, sulla morte, sul rapporto con il padre, sulla natura che lo circonda, dai fiori recisi ai piccoli passerotti.
Ogni cosa presente nel libro cessa di avere un solo significato solo perché da lui evocata. E la musica è una donna, la paura un cane che si avvicina, l’amore Praga o una giovane donna nella neve.
“ Com’è che muore un essere umano? Quando il suo cuore cessa di battere è certamente questo il modo più conosciuto, oppure quando diventa come gli altri. Molti muoiono così e nessuno ci bada. Spesso essi stessi non se ne accorgono per tutto il resto della cosiddetta vita se non per qualche rara volta, per la durata di un secondo, ma questa consapevolezza se la scrollano di dosso come un granello di polvere da un vestito”
La scrittura è curatissima, di livello, ma senza alcuna fatica per il lettore e con punte di bellezza indescrivibile, come il treno che piano lo porta lontano dalla sua terra, o la ricerca della verità che per lui è amore.
Di "Suite francese" della Némirovsky ho letto la prima parte, se ti va di leggerlo ti aspetto a leggere la seconda parte e l'appendice. Merita. :)

lo devo leggere a novembre per una sfida, ti avviso quando sono alla seconda parte!

“ Occorre ricordare che ad ogni incontro incontriamo un estraneo” .
Con Eliot sono andata al buio. Il testo che ho riportava “ commedia” e non ero assolutamente preparata a leggere quello che ho trovato. E’ un dramma della miglior specie. Ho faticato all’inizio proprio perché cercavo quel brio che mi aspettavo di trovare fra un gin e un cocktail. Niente di più lontano. Eliot scava nell’animo umano con uno scalpello affilatissimo e ci mette davanti ad uno specchio. Edward scopre all’improvviso che Lavinia, sua moglie, lo ha abbandonato. Da qui partono le riflessioni sul rapporto di coppia, vuoto, sterile, inutile se non nell’unire due solitudini, ma neanche per questo a volte, perché i due mondi rimangono perfettamente distinti e distanti. Edward non sa amare. Lavinia non sa come farsi amare. Ed entrambi si ritrovano rapporti extraconiugali che non riescono a gestire. Lavinia con Peter, che la abbandona, ed Edward con Celia. E’ lei il capro espiatorio di queste incomprensioni d’animo, lei con parole durissime a rendersi conto della condizione di ogni singolo essere umano: “Voglio dir, quel che mi è accaduto mi ha fatto avvertire che son sempre stata sola. Che noi sempre siamo soli” , lei che credeva di costruire qualcosa con il suo Edward, si accorge invece che Edward senza Lavinia non può esistere, perché non sa chi è, e che tutto ciò che hanno vissuto è solo un sogno, uno scherzo: “ Credevo proprio di dare tanto a lui, ed egli a me; e il dare come il prendere era giusto: non in termini di calcolo, sol per giovare a quei due che s’era stati, ma al nuovo individuo, NOI” … E poi si scopre che si era solo estranei, che non c’era stato niente da dare né da prendere, ma che s’era solo fatto uno l’un dell’altro ognuno pel suo fine. E’ orribile. Dunque amiamo solo quel che è creato dalla nostra fantasia?”.
Probabilmente. Amiamo il riflesso di come noi ci vediamo attraverso gli occhi dell’altro, che non si sforza di conoscerci ma che a sua volta ama il suo riflesso in noi. Esiste speranza di trovare un amore vero così?
Un dramma scritto nel 1949 ma che dà voce alla incomunicabilità delle coppie di oggi, alla aridità dei sentimenti, al gioco che di essi se ne fa e di cui spesso non se ne capiscono le conseguenze, e al continuo ripetersi di queste incomunicabilità per generazioni.
“ I due sanno che non si comprendono l’un l’altro, crescono figli che essi non sanno comprendere e non sapranno comprender loro”.

“Duddy Kravitz era un ragazzo di quindici anni, piccolo di statura, con le spalle strette e il viso affilato. Gli occhi neri erano cerchiati di occhiaie scure e le guance pallide e ossute erano coperte di graffi, dato che si radeva due volte al giorno per stimolare la crescita della barba". .
Il primo libro che ho letto di Richler è stato “La versione di Barney” e l’ho adorato. Leggendo del giovane Duddy ritrovo il seme di quel Barney che poi crescerà. Ironico, pieno di energia, pronto a tutto, forse un po’ acerbo ma piacevole. Duddy si adatta a tutto, vende francobolli, saponi, fumetti porno, arrotola cinture in fabbrica, fa il cameriere perché ha un sogno e con un sogno si va lontano. “Un uomo senza la terra non è nessuno, ricordatelo, Duddy” gli dirà l’amato nonno Simcha. E lui se lo ricorderà a tal punto da fare del denaro l’unica ragione della sua vita per perseguire quel meraviglioso sogno. In questo ritrovo la tempra e la potenza dell’amato Martin Eden, lavorare, studiare fino a crollare, fino a svenire e poi il buio.
Una lettura piacevole. Una riflessione sulle molteplici vite che l’uomo può condurre.
“Un ragazzo può essere due, tre, quattro persone potenziali, ma un uomo una sola: quella che ha ucciso le altre.".

“ Noi siamo tutti incompleti, disse il Saggio. Siamo tutti divisi, siamo frammenti, ombre, fantasmi senza consistenza”.
Dieci novelle, o forse sarebbe meglio chiamarle fiabe, che ci portano in giro per il mondo, dalla Cina al Giappone, da Amsterdam alla Grecia, al Montenegro e in cui elementi della tradizione antica, credenze popolari si fondono con il gusto della scrittrice che le racconta. E guardando la copertina si capisce un po’ a cosa si andrà incontro. Un fiore delicato, sfocato, crea un’atmosfera rarefatta, impalpabile che è quella che permea tutte le storie. Due artisti a confronto ad aprire e chiudere il libro: uno è Cornelius Berg, che si perde nella vista di un tulipano; un altro Wang-Fo nel lontano Oriente. Entrambi appassionati dell’immagine la vivono in maniera diversa e il cinese crea la vita attraverso l’immagine, un’immagine di perfezione, si rifugia in essa e si perde. Racconti su Ninfe e Nereidi dalla bellezza scintillante, incantatrici e per questo destinate ad essere punite dall’uomo, a nascondersi alla sua vista. L’uomo si scopre eroe, invincibile, potente in alcuni, come Marko, e nel declino della vita come il grande principe Genji Monogatari. La scrittrice vuole immaginare quello che la tradizione non ha raccontato:la sua morte. Sono fiabe tristi in cui la morte vince, ma in cui l’uomo cerca di prendersi una rivincita per come può. Così succede ne “ il latte della morte” in cui “ C’è madre e madre” e nell’India della dea Kalì. Tutto è cesellato con bellissime similitudini, donne fragili come canne, salate come le lacrime, dal cuore come uno specchio destinato a non offuscarsi, visi che appassiscono come fiori al vento caldo e alle piogge d’estate.
“E in questo vasto continente umano, l’infinita varietà delle razze non distrugge l’unità misteriosa dell’insieme più di quanto la diversità delle onde non rompa la monotonia maestosa del mare”. Pensiamoci.


“Tolone S/Arroux 13 luglio 1942 - ore 5 [scritta a matita e non obliterata]
“Copro di baci le mie bambine adorate, e che la mia Denise faccia sempre la brava... Ti stringo forte sul cuore insieme con Babet, che il buon Dio vi protegga. Quanto a me, mi sento calma e forte” .
Non avevo mai letto nulla della Nemirovsky e ho sfidato la sorte cominciando con il suo ultimo e incompiuto.
Suite francese è apparentemente un libro semplice. Un’opera pensata come una sinfonia, più tempi, ogni personaggio studiato nelle sue infinite sfaccettature, ma avrà il tempo di scrivere solo due movimenti. Tempesta di giugno: un’esodo lontano dalla guerra che avanza, da Parigi; borghesi e poveri la guerra arriva per tutti, anche se diversamente. E’ l’occhio di una telecamera che avanza, stringe, mette a fuoco su una serie di personaggi curiosi, gretti, meschini, semplici o piccoli eroi, innamorati o odiati. Dolce: sembra entrare nel vivo dei sentimenti di questa gente, respirare con le loro emozioni. I soldati tedeschi sono nemici, ma allo stesso tempo uomini.
"Mia moglie" disse "mi aspetta, o meglio aspetta qualcuno che è partito per la prima volta quattro anni fa e che non tornerà mai... del tutto uguale. L'assenza è un fenomeno ben strano!"
E la bellezza di alcune descrizioni della natura stride con il tema della guerra ma rende la dolcezza dell’anima: “ La luce calava a poco a poco e i rami dei ciliegi in fiore si facevano azzurrognoli e leggeri come piumini pieni di cipria.”
Quello che mi ha colpito è che non c’è ombra di odio in questo libro. Irene cercava di terminarlo in una corsa contro il tempo, sapendo lei stessa di essere braccata, non si curava di sé perché la fine era certa, avrebbe solo voluto del tempo per completare. E questa credo sia la più grande lezione che un libro possa offrire, il più grande regalo che uno scrittore possa fare ai suoi lettori: se stesso.
La corrispondenza che chiude il libro è stata per me la parte più toccante. L’ansia e la concitazione di quei momenti passa tutta attraverso le parole. E pensare che mentre il marito si dava da fare per liberarla lei fosse già morta è la cosa più triste.
“ Giovedì mattina - luglio '42 - Pithiviers [scritta a matita e non obliterata]
Mio amato, mie piccole adorate, credo che partiamo oggi. Coraggio e speranza. Siete nel mio cuore, miei diletti. Che Dio ci aiuti tutti.


Finire questo libro è stata una liberazione. E mi dispiace, perchè la prima parte mi era piaciuta. Poi però andando avanti, la lettura per me si è appesantita, le digressioni filosofiche davano l'idea di uno stacco troppo netto con il resto della storia, non scorreva. Ho fatto fatica, ho avuto più volte il desiderio di mollarlo ma la curiosità di capire dove volesse andare a parare l'autore è stata più forte. L'idea di base trovo sia vincente: l'evoluzione dell'impero guglielmino attraverso tre personaggi: Pasenow, Esch e Huguenau. Tre libri diversi che si riuniscono nell'ultimo. Ma pur ammettendo l'indiscutibile valore dell'opera qualcosa per me non ha funzionato. Tre stelle solo per la piacevolezza con cui ho affrontato la prima parte.

Secondo volume della saga. Sono rimasta spiazzata nella lettura perché a dire il vero mi ero abituata a quella prosa fatta di splendide immagini che tanto mi è mancata adesso, quegli epiteti quasi omerici studiati per ognuno dei personaggi ma, superato il trauma iniziale, devo dire che la lettura scorre piacevolmente. Il ritmo dell’azione incalza come il precedente ma qui trovo che lo studio della psiche dei personaggi sia più profondo. Tito è tutto in questo libro. E’ il bimbo di sette anni uguale ai suoi compagni, è l’adolescente che cresce svogliato, annoiato dal suo ruolo, è l’avventuriero, il ragazzo che matura e scivola via dall’adolescenza, l’uomo solitario, che ha bisogno di spazio, l’eroe.
“Tito ha sette anni. I suoi confini sono quelli di Gormenghast. Ne sugge le ombre come latte; lo svezza, per così dire, il garbuglio dei rituali: alle sue orecchie si offrono echi, agli occhi un labirinto di pietra: eppure ha dell'altro in corpo - ben altro che un lascito d'ombra. Perché prima di tutto, e pur sempre, è un bambino.
[…] Tito il settantasettesimo. Erede di una montagna che si sgretola: di un mare
d'ortiche: di un impero di ruggine rossa: di percorsi rituali, scavati nella pietra fino
alle caviglie”
Fucsia diventa malinconica, triste; Gertrude si riscopre nonostante tutto con un cuore; Irma trova l’amore in un siparietto delicato e ironico; Lisca, il buon vecchio fidato Lisca…
Su tutti grava il castello, le sue mura sono vive, respira, esiste! E’ casa, è labirinto in cui perdersi, è isola in cui sopravvivere. Per Gormenghast si vive o si muore. Sono Tito ha il coraggio di scoprire cosa esiste al di là delle sue mura.
“Non esiste un altrove, non farai che girare in tondo, Tito de' Lamenti.
Non esiste strada, non esiste sentiero che alla fine non ti riporterà a casa. Tutto
conduce a Gormenghast” . Sara davvero così?
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Non mi aspettavo un libro così. E’ la mia prima esperienza con la Ginzburg, immaginavo una scrittura più spigolosa, più ostica e mi sono ritrovata un po’ spiazzata di fronte a questo romanzo. La storia della sua famiglia raccontata attraverso il “ lessico” che ognuna crea, che la fa vivere, che compatta i contatti, li rinvigorisce e li fa ritrovare dopo molto tempo. Pennellate per descrivere i fratelli e le sorelle, un padre molto presente e brontolone, una madre chioccia ma allo stesso tempo leggera come una farfalla e attorno a questo la storia della guerra, della Resistenza, dei grandi nomi che fecero l’Italia del tempo, Turati, Balbo, Pavese descritti semplicemente, amici di famiglia e sempre presenti nella vita della scrittrice. Questo credo sia il merito più grande del libro, la spontaneità del racconto, la vita di una famiglia che diventa la vita del Paese.