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“Odio il modo in cui mi parli. E il modo in cui ti tagli i capelli. Odio il modo in cui guidi la mia macchina. Odio quando mi fissi. Odio i tuoi stupidi stivali anfibi. E il modo in cui mi leggi nella mente. Ti odio così tanto che mi fa star male, mi fa perfino scrivere poesie. Ti odio. Odio quando hai sempre ragione. Odio quando dici bugie. Odio quando mi fai ridere. E odio ancora di più quando mi fai piangere. Odio quando tu non mi sei intorno e che non abbia chiamato, ma più di tutto odio il fatto che non ti odio davvero. Nemmeno quasi… nemmeno un pochino, nemmeno… per niente”.
“Dovreste essere baciata, e spesso, e da qualcuno che sa come farlo”.
“Ti amo più di quanto detesti la California e poi tornare a Los Angeles è un’ottima occasione per raccogliere ulteriori prove utili per argomentare e consolidare il mio odio”.
La rilegge ogni mattina e mi dà un bacio. Io la rileggo ogni mattina e mi domando perché mi paghino tanto per quello che scrivo.
Ti merito? Assolutamente no. Mi meriti? Non mi augurerei neanche al mio peggior nemico. Ma noi due, insieme, siamo di più delle liti, dei musi lunghi e delle giornate no. Siamo la domenica mattina con il letto sfatto. Siamo il gelato mangiato con un cucchiaino solo. Siamo quell’ombrello rosso troppo piccolo che tieni in borsa per ogni emergenza e che ci costringe ad abbracciarci per non bagnarci mentre aspettiamo il taxi sulla Broadway. Siamo MTV quando faceva ancora musica. Siamo New York a mezzanotte. Siamo le feste da cui ce ne andiamo dopo mezz’ora per tornare a casa a fare l’amore.
Siamo la frutta che mi sbucci tu perché altrimenti non la mangio. Siamo quelle cene al ristorante in cui tu non prendi il dolce anche se lo vuoi, e io che lo prendo anche se non lo voglio e poi t’imploro di aiutarmi a finirlo e tu annuisci come se ti costasse chissà che sforzo, ma in realtà non vedevi l’ora. Siamo quei sabati sera che, per non accettare inviti, ci inventiamo impegni inesistenti così possiamo stare a casa da soli.
Prima o poi il mondo si accorgerà che non so scrivere, ma speriamo più poi che prima, altrimenti sono fottuto.
Quello che mi manca è un autore di bestseller di profilo internazionale, di quelli che dominano le classifiche.
Questo Blake sembra uscito da un rave party nella centrifuga di una lavatrice, eppure la sua aria scalcinata tradisce una bellezza fuori dal comune, maledetta e magnetica.
Voglio saperlo lo stesso? Sì. Purtroppo, è il fascino degli stronzi, ti rimangono in testa più di quelli che si comportano bene.
Avevo ragione, questo è l’impiegato del mese, legge addirittura nel pensiero.
«Sai perché ho accettato di lavorare con te?» «Perché?» «Perché non vedo l’ora di essere io a pagare te, e a metterti gli assegni in mano». E si volta di nuovo, senza salutarmi. Che razza di stronzo scavezzacollo. Un genio, ma stronzo scavezzacollo senza margine di dubbio.
«Cosa fai?» «Adesso andiamo di là in camera e faccio in modo che tu non abbia mai più bisogno di una lista».
Lo uccido. Non oggi ma io, prima o poi, Dwight lo uccido.
il gonnellino lo metto adesso, il copricapo lo tengo per stanotte».
«Vieni qui, signora Avery», dico prendendo Summer in braccio. Lei mi prende il viso tra le mani, cercando la mia bocca con la sua. «Dillo di nuovo, mi piace come suona».
auto della polizia, agenti in ogni dove e sigilli alle porte. E Dwight. «Dwight?!», domandiamo in coro io e Blake scioccati.
Pur essendo due esseri umani agli antipodi, la verità è che non potrebbero essere più adatti l’uno all’altra e oggi ho l’onore di ufficializzare la loro splendida unione. Siate felici finché morte non vi separi, ragazzi! Ora tocca a voi, prego»,
Nessun giovane Palomo potrebbe mai prendere il tuo posto, quindi ora muoviti a mettermi quell’anello e fare di me la signora Avery una volta per tutte».
La morte separerà gli altri, forse, ma non noi due: ovunque andrà uno il cuore dell’altro lo seguirà sempre».
Ora bacia questa santa donna che ti sopporterà a vita».
Un attimo. Scialba manetta di Boston? Sta parlando di Summer? Meno male che sono amici.
Anzi, a volte quando qualcuno mi chiede un parere riguardo a una decisione ho ancora l’istinto di rispondere: “Sentiamo che dice il direttore”, per poi ricordarmi che sono io il direttore.
Non ci provare, quella faccia l’ho inventata io!
era più un “Dadà”, ma la prima volta ho pianto –,