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Che la clandestinità in cui ho vissuto quest’esperienza dell’aborto appartenga al passato non mi sembra un motivo valido per lasciarla sepolta. Tanto più che il paradosso di una legge giusta è quasi sempre quello di obbligare a tacere le vittime di un tempo, con la scusa che «le cose sono cambiate».
Stabilivo confusamente un legame tra la mia classe sociale d’origine e quello che mi stava succedendo. Prima a fare studi superiori in una famiglia di operai e piccoli commercianti, ero scampata alla fabbrica e al bancone. Ma né il diploma né tutti gli esami dati a lettere erano riusciti a ostacolare la fatale trasmissione di una miseria di cui la ragazza incinta era, alla stregua dell’alcolizzato, l’emblema. Mi ero fatta fregare all’ultimo dagli ardori, e ciò che cresceva in me era, in un certo senso, il fallimento sociale.
E, come al solito, era impossibile determinare se l’aborto era proibito perché era un male o se era un male perché era proibito. Si giudicava in base alla legge, non si giudicava la legge.
Come la maggior parte dei genitori, anche i miei credevano di essere in grado di individuare a prima vista ogni minimo segnale di una possibile deriva.
Aver vissuto una cosa, qualsiasi cosa, conferisce il diritto inalienabile di scriverla. Non ci sono verità inferiori. E se non andassi fino in fondo nel riferire questa esperienza contribuirei a oscurare la realtà delle donne, schierandomi dalla parte della dominazione maschile del mondo.)
Solo il ricordo di sensazioni legate a esseri e cose al di fuori di me – la neve del Puy Jumel, gli occhi strabuzzanti di Jean T., la canzone di Suor Sorriso – mi fornisce la prova della realtà. La sola vera memoria è materiale.)
Si perseguitano gli scafisti, si deplora la loro esistenza come trent’anni fa quella delle mammane. Non si mettono in discussione né le leggi né l’ordine mondiale che ne determinano l’esistenza.
La natura continuava a lavorare meccanicamente nell’assenza.
I volti dei passanti, le automobili, i vassoi sui tavoli della mensa, tutto ciò che vedevo mi pareva straripare di significati. Ma proprio in ragione di questo eccesso non riuscivo ad afferrarne nessuno. Da una parte c’erano gli esseri e le cose, che significavano troppo, dall’altra le parole dette e le parole scritte, che non significavano niente. Ero in uno stato febbrile di coscienza pura, al di là del linguaggio, che la notte non interrompeva.
Oggi so che avevo bisogno di quella prova e di quel sacrificio per desiderare di avere figli. Per accettare la violenza della riproduzione nel mio corpo e diventare a mia volta luogo di passaggio delle generazioni.
Ho finito di mettere in parole quella che mi pare un’esperienza umana totale, della vita e della morte, del tempo, della morale e del divieto, della legge, un’esperienza vissuta dall’inizio alla fine attraverso il corpo.