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Fino alla sentenza di morte, mi ero sentito respirare, palpitare, vivere nello stesso mondo degli altri; ora distinguevo chiaramente una specie di barriera tra il mondo e me. Niente mi appariva più sotto lo stesso aspetto di prima. Quelle grandi finestre illuminate, quel bel sole, quel cielo terso, quel fiore grazioso, tutto era pallido e sbiadito, del colore di un sudario.
Ma a mano a mano che ci si avvicina, il palazzo diventa stamberga. I frontoni in degrado fanno male agli occhi. Un non so che di indegno e di squallido ne insudicia le facciate regali; sembra che i muri abbiano la lebbra. Niente più infissi, niente più vetri alle finestre. Ma massicce sbarre di ferro a croce, a cui sta incollata qua e là la smunta fisionomia di un galeotto o di un pazzo. È la vita vista da vicino.
I riguardi di un secondino puzzano di patibolo.
Sono brave persone, i miserabili.
Perché no? Se tutto, attorno a me, è monotono e incolore, dentro di me non c’è forse una tempesta, una lotta, una tragedia?
Del resto, il solo modo di soffrire meno le angosce è osservarle, e descriverle mi distrarrà.
Non ci sarà forse in questo verbale del pensiero agonizzante, in questa progressione sempre crescente di dolori, in questa specie di autopsia intellettuale di un condannato, più di una lezione per quelli che condannano?
la testa di un uomo, su quella che chiamano la bilancia della giustizia?
eppure ho una malattia, una malattia mortale, una malattia indotta dalla mano degli uomini.
Ah! la prigione è davvero una cosa infame! È un veleno che insudicia tutto. Tutto ne viene deturpato, persino la canzone di una ragazzina di quindici anni! Trovi un uccello, ha del fango sulle ali; cogli un fiore bellissimo, lo annusi: puzza.

