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Un modo facile per conoscere una città è scoprire come vi si lavora, come si ama e come si muore. A Orano, per effetto forse del clima, tutto questo si fa allo stesso modo, con la medesima aria frenetica e assente. In definitiva, ci si annoia, e ci si sforza di prendere delle abitudini. I nostri concittadini lavorano molto, ma sempre per arricchirsi. Si dedicano principalmente al commercio e pensano soprattutto, come dicono loro, a fare affari. Va da sé che apprezzano anche i piaceri semplici, amano le donne, il cinema e andare al mare. Ma, molto ragionevolmente, riservano questi svaghi al
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A Orano come altrove, in mancanza di tempo e di riflessione, si è costretti ad amarsi senza saperlo.
I nostri concittadini si rendevano conto solo ora di non aver mai pensato che la nostra città potesse essere un luogo specialmente designato perché i topi vi morissero al sole e i portinai vi perissero di strane malattie.
“Sì, Castel,” disse, “è quasi incredibile. Ma pare proprio che sia la peste.” Castel si alzò e si diresse verso la porta. “Sa che cosa ci risponderanno,” disse il vecchio medico. “Sono anni, ormai, che è scomparsa dai paesi temperati.”
Benché un flagello sia infatti un accadimento frequente, tutti stentiamo a credere ai flagelli quando ci piombano addosso. Nel mondo ci sono state tante epidemie di peste quante guerre. Eppure la peste e la guerra colgono sempre tutti alla sprovvista. Era stato colto alla sprovvista il dottor Rieux, come lo erano stati i nostri concittadini, e questo spiega le sue titubanze. E spiega anche perché fosse combattuto tra la preoccupazione e la fiducia. Quando scoppia una guerra tutti dicono: “È una follia, non durerà.” E forse una guerra è davvero una follia, ma ciò non le impedisce di durare. La
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Anche dopo che il dottor Rieux ebbe ammesso davanti all’amico che alcuni pazienti erano inaspettatamente morti di peste, per lui il pericolo rimaneva irreale. Un medico si è fatto giusto un’idea di cos’è il dolore e ha un po’ più di immaginazione.
Era stata pronunciata la parola “peste”, certo, e in quell’istante il flagello colpiva e stroncava una o due vittime. Ma tutto questo, insomma, si poteva fermare. Occorreva soltanto riconoscere con chiarezza quel che andava riconosciuto, cacciar via una volta per tutte le ombre inutili e prendere le opportune misure. Dopodiché la peste si sarebbe fermata, perché la peste non era qualcosa che si immaginava, o tutt’al più era qualcosa che si immaginava in modo sbagliato. Se si fosse fermata, come era probabile, tutto sarebbe andato per il meglio. In caso contrario avremmo scoperto che cos’era e
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Rieux trasalì. Ecco dov’era la certezza, nel lavoro di tutti i giorni. Il resto era appeso a fili e movimenti insignificanti, su cui era inutile soffermarsi. L’essenziale era fare bene il proprio lavoro.
Il prefetto mi ha detto: ‘Facciamo subito, se vuole, ma in silenzio.’ Peraltro, è convinto che si tratti di un falso allarme.”
dichiarò che sapeva benissimo che si trattava della peste, ma che riconoscerlo ufficialmente, va da sé, avrebbe costretto a prendere misure drastiche. Sapeva che in fondo era questo a far esitare i colleghi, sicché per la loro tranquillità era anche disposto ad ammettere che non si trattasse della peste. Il prefetto si agitò e dichiarò che in ogni caso quello non era un buon modo di ragionare. “L’importante,” disse Castel, “non è che sia un buon modo di ragionare, ma che faccia riflettere.”
Perciò è irrilevante che la chiamiate peste o febbre della crescita. Ciò che importa è che le impediate di uccidere mezza città.”
Non era stata presa alcuna misura drastica e sembrava che lo scrupolo principale fosse quello di non destare allarme nell’opinione pubblica.
l’improvvisa separazione in cui si ritrovarono persone che a questo non erano preparate. Madri e figli, coniugi, amanti che qualche giorno prima avevano creduto di dover affrontare una separazione temporanea, che si erano salutati ai binari della nostra stazione con due o tre raccomandazioni, sicuri di rivedersi dopo qualche giorno o qualche settimana, cullati dall’assurda fiducia umana, a malapena distratti con quella partenza dalle preoccupazioni abituali, si videro d’un tratto inesorabilmente lontani, impossibilitati a ricongiungersi o a comunicare. La chiusura era infatti avvenuta qualche
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In realtà soffrivamo due volte – della nostra sofferenza e poi di quella che immaginavamo negli assenti, figli, moglie o amante.
Sì, era proprio il sentimento dell’esilio il vuoto che sentivamo sempre dentro di noi, l’emozione precisa, il desiderio irragionevole di tornare indietro o invece di affrettare la corsa del tempo, i morsi brucianti della memoria.
Da quel momento ritrovavamo insomma la nostra condizione di prigionieri, confinati nel passato, e se pure alcuni di noi avevano la tentazione di vivere nel futuro, ben presto vi rinunciavano, per quanto era loro possibile, provando le ferite che l’immaginazione poi infligge a coloro che di essa si fidano.
Perciò, incagliati a mezza via tra quegli abissi e quelle vette, più che vivere galleggiavano, in balia di giorni senza direzione e di ricordi sterili, ombre erranti che avrebbero trovato forza solo accettando di radicarsi nella terra del loro dolore. Provavano così la sofferenza profonda di tutti i prigionieri e di tutti gli esuli, che è quella di vivere con una memoria che non serve a niente.
era quasi sempre un esilio a casa propria.
Quasi tutti erano in primo luogo sensibili a ciò che interferiva con le loro abitudini o toccava i loro interessi. Ne provavano fastidio o irritazione, e non sono questi sentimenti che è possibile contrapporre alla peste.
all’opinione pubblica mancavano i termini di paragone.
Spaventati sì, ma non disperati, non erano ancora giunti al momento in cui avrebbero guardato alla peste come alla forma stessa della loro vita, dimenticando l’esistenza che avevano condotto prima della sua apparizione.
Tutti i giorni, verso le undici, si assiste sulle arterie principali a una sfilata di ragazzi e di ragazze in cui si riconosce quella brama di vivere che cresce in seno alle grandi tragedie. Se l’epidemia si estenderà, si allargheranno anche i limiti della morale. Rivedremo i saturnali milanesi sull’orlo delle tombe.
Ma allora immagino cosa debba essere questa peste per lei.” “Sì,” disse Rieux. “Un’interminabile sconfitta.”
Tarrou fissò un momento il dottore, poi si alzò e si diresse con passo pesante verso la porta. E Rieux lo seguì. Lo aveva quasi raggiunto quando Tarrou, che sembrava guardare per terra, gli disse: “Chi le ha insegnato tutto questo, dottore?” La risposta venne immediata: “La miseria.”
L’indomani Tarrou si mise al lavoro e formò una prima squadra che doveva poi essere seguita da molte altre. Non è però intenzione del narratore attribuire a queste formazioni sanitarie più importanza di quanta ne ebbero. È pur vero che oggi al suo posto molti concittadini sarebbero inclini a sopravvalutarne il ruolo. Ma il narratore è propenso a credere che dando troppa importanza alle belle azioni si finisce col rendere un indiretto omaggio al male. Così facendo si suggerisce infatti che le belle azioni hanno tanto più valore poiché sono rare e che la malvagità e l’indifferenza sono
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i prigionieri della peste
E alcuni di loro, fra cui Rambert, come si è visto riuscivano persino a credere di agire ancora da uomini liberi, di essere ancora in grado scegliere. Ma in realtà a questo punto, a metà agosto, si poteva dire che la peste aveva sommerso tutto. Così non c’erano più destini individuali, ma una storia comune costituita dalla peste e sentimenti condivisi da tutti. Il più forte era quello della separazione e dell’esilio, con tutto ciò che comportava in termini di paura e di rivolta.
Dal superiore punto di vista della peste, tutti erano condannati, dal direttore fino all’ultimo carcerato, e per la prima volta regnava forse nella prigione una giustizia assoluta.
Ebbene, quel che caratterizzava in principio le nostre cerimonie era la rapidità! Tutte le formalità erano state semplificate e in linea generale la pompa funeraria era stata soppressa. I malati morivano lontano dalla famiglia e le veglie erano vietate, sicché chi moriva di sera passava la notte da solo e chi moriva durante il giorno veniva subito seppellito. I famigliari beninteso venivano avvisati, ma nella stragrande maggioranza dei casi non potevano spostarsi poiché se avevano vissuto a contatto con il malato si trovavano in quarantena. Nel caso in cui non avessero abitato con il defunto,
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Tutto, insomma, si svolgeva con la massima rapidità e il minimo dei rischi. Ed è pur vero che forse, almeno all’inizio, ciò poteva urtare la sensibilità delle famiglie. Ma sono, queste, valutazioni di cui non si può tener conto in tempi di peste: tutto era stato sacrificato all’efficienza. Peraltro, se il morale della popolazione aveva in principio sofferto di queste pratiche, essendo il desiderio di un funerale dignitoso più diffuso di quanto si creda, in seguito fortunatamente il problema cruciale si rivelò quello dell’approvvigionamento e l’interesse degli abitanti dovette rivolgersi a
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Si dà il caso però che non c’è niente di meno spettacolare di un flagello e le grandi tragedie, per la loro stessa durata, sono monotone. Nel ricordo di coloro che le hanno vissute, le terribili giornate della peste non appaiono come grandi fiammate sontuose e crudeli, ma semmai come un interminabile scalpiccio che annientava tutto al suo passaggio.
drammatica.I nostri concittadini, quelli almeno che più avevano sofferto nell’essere separati, si abituavano forse alla situazione? Non si tratta di questo. Sarebbe più esatto dire che tanto nel morale quanto nel fisico soffrivano di disincarnazione. Al principio della peste ricordavano benissimo la persona che avevano perduto, e la rimpiangevano. Ricordavano nitidamente il volto amato, il suo riso, quel giorno che riconoscevano a posteriori come un giorno felice, e tuttavia avevano difficoltà a immaginare cosa potesse fare l’altro nell’istante in cui lo rievocavano e in luoghi divenuti ormai
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resero conto che quelle ombre potevano farsi ancora più immateriali e perdere anche gli ultimi pallidi colori lasciati dal ricordo. Alla fine di quel lungo periodo di separazione non riuscivano più a immaginare com’era stata la loro intimità, né come avesse vissuto accanto a loro un essere umano sul quale potevano in qualsiasi momento posare la mano.
l’abitudine alla disperazione è peggiore della disperazione stessa.
Sì, bisogna proprio dirlo, la peste aveva tolto a tutti la disposizione all’amore e all’amicizia. Poiché l’amore richiede un po’ di futuro, e per noi ormai c’erano solo istanti.
Ormai era solo una pazienza senza futuro e un’attesa ostinata. E da questo punto di vista l’atteggiamento di alcuni nostri concittadini faceva pensare alle lunghe code davanti ai negozi di alimentari ai quattro angoli della città. C’erano la stessa rassegnazione e la stessa pazienza, sconfinata e insieme priva di illusioni. Senonché nel caso della separazione si dovrebbe elevare questo sentimento alla millesima potenza, poiché si trattava di un’altra fame, che poteva divorare tutto.
Poiché erano allora inclini a evitare qualunque gesto non strettamente indispensabile, che reputavano sempre al di sopra delle loro forze. Sicché quegli uomini si ridussero troppo spesso a ignorare le norme igieniche da loro stessi stabilite, dimenticando alcune delle molte disinfezioni cui dovevano sottoporsi, così come si ridussero talvolta a correre al capezzale dei malati colpiti da peste polmonare senza essersi premuniti dal contagio perché, avvisati all’ultimo momento di doversi recare nelle case infette, erano stremati al solo pensiero di dover tornare in qualche locale per farsi le
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“Non c’è niente al mondo per cui valga la pena distogliersi da ciò che si ama. Eppure io stesso me ne distolgo, e non so dire perché.”
Il resto passava in secondo piano. Le ultime vittime della peste erano poca cosa di fronte a questo fatto clamoroso: le statistiche erano calate. Uno degli indizi che l’epoca della salute era pur sempre attesa in segreto, benché nessuno ne esprimesse apertamente la speranza, fu che da quel momento i nostri concittadini parlarono di buon grado, seppur con aria indifferente, del modo in cui la vita si sarebbe riorganizzata dopo la peste. Tutti convenivano che le comodità della vita passata non sarebbero tornate dall’oggi al domani, e che distruggere era più semplice che ricostruire. Ipotizzavano
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Rimane comunque il fatto che per tutto il mese di gennaio i nostri concittadini reagirono in maniera contraddittoria. Nella fattispecie, passarono alternativamente dall’euforia alla depressione. Si registrarono così nuovi tentativi di evasione, proprio quando i dati statistici erano più favorevoli. Questo colse di sorpresa le autorità, e gli stessi posti di guardia, tanto che molte evasioni riuscirono. Ma in realtà coloro che scappavano obbedivano in quei momenti a sentimenti naturali. In alcuni, la peste aveva radicato uno scetticismo profondo, da cui non potevano liberarsi. Su di loro la
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Tarrou pensava che la peste avrebbe cambiato la città e nel contempo non l’avrebbe cambiata, che naturalmente il più grande desiderio dei nostri concittadini era e sarebbe stato fare
come se non fosse cambiato niente e che, quindi, in un certo senso niente sarebbe cambiato, ma in un altro senso non è possibile dimenticare tutto, anche con la debita forza di volontà, e la peste avrebbe lasciato delle tracce, perlomeno nel cuore degli uomini.
Ma se era questo vincere la partita, come doveva essere difficile vivere soltanto con ciò che sappiamo e ciò che ricordiamo, e privi di ciò che speriamo. Così forse aveva vissuto Tarrou, e lui capiva quanto c’è di sterile in una vita senza illusioni. Non c’è pace senza speranza,
E coloro che li aspettavano in una camera da letto o alla stazione come Rambert, la cui donna avvisata settimane prima aveva fatto il dovuto per arrivare, provavano la stessa impazienza e lo stesso sgomento. Poiché quell’amore o quell’affetto che i mesi di peste avevano ridotto a un’astrazione, Rambert aspettava, tremando, di misurarlo con la creatura di carne che ne era stato l’oggetto.