Uno, nessuno e centomila
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Read between January 2 - January 10, 2021
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Ero rimasto così, fermo ai primi passi di tante vie, con lo spirito pieno di mondi, o di sassolini, che fa lo stesso.
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Non tiravo nessun carro, io; e non avevo perciò né briglie né paraocchi; vedevo certamente più di loro; ma andare, non sapevo dove andare.
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come se quel difetto del mio naso fosse un irreparabile guasto sopravvenuto al congegno dell’universo.
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notiamo facilmente i difetti altrui e non ci accorgiamo dei nostri.
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Mi si fissò invece il pensiero ch’io non ero per gli altri quel che finora, dentro di me, m’ero figurato d’essere.
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Per voi, esser soli, che vuol dire?
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Io volevo esser solo in un modo affatto insolito, nuovo. Tutt’al contrario di quel che pensate voi: cioè senza me e appunto con un estraneo attorno.
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La solitudine non è mai con voi; è sempre senza di voi, e soltanto possibile con un estraneo attorno: luogo o persona che sia, che del tutto vi ignorino, che del tutto voi ignoriate, così che la vostra volontà e il vostro sentimento restino sospesi e smarriti in un’incertezza angosciosa e, cessando ogni affermazione di voi, cessi l’intimità stessa della vostra coscienza. La vera solitudine è in un luogo che vive per sé e che per voi non ha traccia né voce, e dove dunque l’estraneo siete voi.
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Se per gli altri non ero quel che finora avevo creduto d’essere per me, chi ero io?
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Io non potevo vedermi vivere.
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Sono quell’estraneo che non posso veder vivere se non così, in un attimo impensato. Un estraneo che possono vedere e conoscere solamente gli altri, e io no».
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L’idea che gli altri vedevano in me uno che non ero io quale mi conoscevo; uno che essi soltanto potevano conoscere guardandomi da fuori con occhi che non erano i miei e che mi davano un aspetto destinato a restarmi sempre estraneo, pur essendo in me, pur essendo il mio per loro
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Come sopportare in me quest’estraneo? quest’estraneo che ero io stesso per me? come non vederlo? come non conoscerlo? come restare per sempre condannato a portarmelo con me, in me, alla vista degli altri e fuori intanto della mia?
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Non conosceva nulla, né si conosceva; viveva per vivere, e non sapeva di vivere; gli batteva il cuore, e non lo sapeva; respirava, e non lo sapeva; moveva le palpebre, e non se n’accorgeva.
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Ma il guajo è che voi, caro, non saprete mai, né io vi potrò mai comunicare come si traduca in me quello che voi mi dite.
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Ma che colpa abbiamo, io e voi, se le parole, per sé, sono vuote? Vuote, caro mio. E voi le riempite del senso vostro, nel dirmele; e io nell’accoglierle, inevitabilmente, le riempio del senso mio. Abbiamo creduto d’intenderci; non ci siamo intesi affatto.
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Ma se gli alberi pensassero, Dio mio, e potessero parlare, chi sa che direbbero questi poverelli che, per farci ombra, facciamo crescere in mezzo alla città!
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Ma chi sa, forse gli alberi, per crescere, hanno bisogno di silenzio.
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Beati loro che hanno le ali e possono scappare! Quant’altre bestie non possono, e sono prese e imprigionate e addomesticate in città e anche nelle campagne; e com’è triste la loro forzata obbedienza agli strani bisogni degli uomini! Che ne capiscono? Tirano il carro, tirano l’aratro.
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Ci vorrebbe un po’ più d’intesa tra l’uomo e la natura.
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Possiamo conoscere soltanto quello a cui riusciamo a dar forma.
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Ah, voi credete che si costruiscano soltanto le case? Io mi costruisco di continuo e vi costruisco, e voi fate altrettanto. E la costruzione dura finché non si sgretoli il materiale dei nostri sentimenti e finché duri il cemento della nostra volontà.
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Ma sfido ch’ella conosceva quel suo Gengè più che non lo conoscessi io! Se l’era costruito lei! E non era mica un fantoccio. Se mai, il fantoccio ero io.
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In astratto non si è. Bisogna che s’intrappoli l’essere in una forma, e per alcun tempo si finisca in essa, qua o là, così o così. E ogni cosa, finché dura, porta con sé la pena della sua forma, la pena d’esser così e di non poter più essere altrimenti.
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E quello no, non lo vede, perché vede un’altra cosa lui, quando voi credete che debba vedere la vostra, come pare a voi. La vede invece come pare a lui, e per lui dunque il cieco siete voi.
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Tutto nella vita vi cangia continuamente sotto gli occhi; nulla di certo; e quest’ansia senza requie di sapere come si determineranno i casi, di vedere come si stabiliranno i fatti che vi tengono in tanta ambascia e in tanta agitazione!
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«Ma sì! è qui tutto,» pensavo, «in questa sopraffazione. Ciascuno vuole imporre agli altri quel mondo che ha dentro, come se fosse fuori, e che tutti debbano vederlo a suo modo, e che gli altri non possano esservi se non come li vede lui».
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Pazzo! Pazzo! Pazzo! Perché avevo voluto dimostrare, che potevo, anche per gli altri, non essere quello che mi si credeva.
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Nessuno dubita di quel che vede, e va ciascuno tra le cose, sicuro ch’esse appajano agli altri quali sono per lui;
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Perché, quand’uno pensa d’uccidersi, s’immagina morto, non più per sé, ma per gli altri?
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S’apparecchiava in quel salotto, fra quegli otto che si credevano tre, una bella conversazione.
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E come potete essere allora così sicuri se da un minuto all’altro una minima impressione basta a farvi dubitare di voi stessi e degli altri?».
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Ma che altro avevo io dentro, se non questo tormento che mi scopriva nessuno e centomila?
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perché si pensa che, se potessimo entrarci, forse la nostra vita si aprirebbe in chi sa quali sensazioni nuove, tanto da parerci di vivere in un altro mondo.
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tutto ciò che di noi si può immaginare è realmente possibile, ancorché non sia vero per noi.
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può anche capitare che gli altri, se non vi tenete forte alla realtà che per vostro conto vi siete data, possono indurvi a riconoscere che più vera della vostra stessa realtà è quella che vi danno loro.
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Gli uomini, vedi? hanno bisogno di fabbricare una casa anche ai loro sentimenti. Non basta loro averli dentro, nel cuore, i sentimenti: se li vogliono vedere anche fuori, toccarli; e costruiscono loro una casa.
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Un vescovo così non è comodo per tutti coloro che han voluto mettere fuori di sé il sentimento di Dio costruendogli una casa fuori, tanto più bella quanto maggiore il bisogno di farsi perdonare.
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quel terrazzino apparve a un tratto un uomo, che doveva essere scappato dal letto con la folle idea di provare la voluttà del volo.
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Ma io gli mostrai subito una faccia così placida e sorridente, che d’un tratto lo rimise a posto.
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Perché bisogna che lei fermi un attimo in sé la vita, per vedersi. Come davanti a una macchina fotografica. Lei s’atteggia. E atteggiarsi è come diventare statua per un momento. La vita si muove di continuo, e non può mai veramente vedere se stessa.
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Quando uno vive, vive e non si vede. Conoscersi è morire. Lei sta tanto a mirarsi in codesto specchio, in tutti gli specchi, perché non vive; non sa, non può o non vuol vivere. Vuole troppo conoscersi, e non vive.
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Non si può vivere davanti a uno specchio. Procuri di non vedersi mai. Perché, tanto, non riuscirà mai a conoscersi per come la vedono gli altri.
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Io non l’ho più questo bisogno, perché muojo ogni attimo, io, e rinasco nuovo e senza ricordi: vivo e intero, non più in me, ma in ogni cosa fuori.