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Ero rimasto così, fermo ai primi passi di tante vie, con lo spirito pieno di mondi, o di sassolini, che fa lo stesso.
Non tiravo nessun carro, io; e non avevo perciò né briglie né paraocchi; vedevo certamente più di loro; ma andare, non sapevo dove andare.
come se quel difetto del mio naso fosse un irreparabile guasto sopravvenuto al congegno dell’universo.
notiamo facilmente i difetti altrui e non ci accorgiamo dei nostri.
Mi si fissò invece il pensiero ch’io non ero per gli altri quel che finora, dentro di me, m’ero figurato d’essere.
Per voi, esser soli, che vuol dire?
Io volevo esser solo in un modo affatto insolito, nuovo. Tutt’al contrario di quel che pensate voi: cioè senza me e appunto con un estraneo attorno.
La solitudine non è mai con voi; è sempre senza di voi, e soltanto possibile con un estraneo attorno: luogo o persona che sia, che del tutto vi ignorino, che del tutto voi ignoriate, così che la vostra volontà e il vostro sentimento restino sospesi e smarriti in un’incertezza angosciosa e, cessando ogni affermazione di voi, cessi l’intimità stessa della vostra coscienza. La vera solitudine è in un luogo che vive per sé e che per voi non ha traccia né voce, e dove dunque l’estraneo siete voi.
Se per gli altri non ero quel che finora avevo creduto d’essere per me, chi ero io?
Io non potevo vedermi vivere.
Sono quell’estraneo che non posso veder vivere se non così, in un attimo impensato. Un estraneo che possono vedere e conoscere solamente gli altri, e io no».
L’idea che gli altri vedevano in me uno che non ero io quale mi conoscevo; uno che essi soltanto potevano conoscere guardandomi da fuori con occhi che non erano i miei e che mi davano un aspetto destinato a restarmi sempre estraneo, pur essendo in me, pur essendo il mio per loro
Come sopportare in me quest’estraneo? quest’estraneo che ero io stesso per me? come non vederlo? come non conoscerlo? come restare per sempre condannato a portarmelo con me, in me, alla vista degli altri e fuori intanto della mia?
Non conosceva nulla, né si conosceva; viveva per vivere, e non sapeva di vivere; gli batteva il cuore, e non lo sapeva; respirava, e non lo sapeva; moveva le palpebre, e non se n’accorgeva.
Ma il guajo è che voi, caro, non saprete mai, né io vi potrò mai comunicare come si traduca in me quello che voi mi dite.
Ma che colpa abbiamo, io e voi, se le parole, per sé, sono vuote? Vuote, caro mio. E voi le riempite del senso vostro, nel dirmele; e io nell’accoglierle, inevitabilmente, le riempio del senso mio. Abbiamo creduto d’intenderci; non ci siamo intesi affatto.
Ma se gli alberi pensassero, Dio mio, e potessero parlare, chi sa che direbbero questi poverelli che, per farci ombra, facciamo crescere in mezzo alla città!
Ma chi sa, forse gli alberi, per crescere, hanno bisogno di silenzio.
Beati loro che hanno le ali e possono scappare! Quant’altre bestie non possono, e sono prese e imprigionate e addomesticate in città e anche nelle campagne; e com’è triste la loro forzata obbedienza agli strani bisogni degli uomini! Che ne capiscono? Tirano il carro, tirano l’aratro.
Ci vorrebbe un po’ più d’intesa tra l’uomo e la natura.
Possiamo conoscere soltanto quello a cui riusciamo a dar forma.
Ah, voi credete che si costruiscano soltanto le case? Io mi costruisco di continuo e vi costruisco, e voi fate altrettanto. E la costruzione dura finché non si sgretoli il materiale dei nostri sentimenti e finché duri il cemento della nostra volontà.
Ma sfido ch’ella conosceva quel suo Gengè più che non lo conoscessi io! Se l’era costruito lei! E non era mica un fantoccio. Se mai, il fantoccio ero io.
In astratto non si è. Bisogna che s’intrappoli l’essere in una forma, e per alcun tempo si finisca in essa, qua o là, così o così. E ogni cosa, finché dura, porta con sé la pena della sua forma, la pena d’esser così e di non poter più essere altrimenti.
E quello no, non lo vede, perché vede un’altra cosa lui, quando voi credete che debba vedere la vostra, come pare a voi. La vede invece come pare a lui, e per lui dunque il cieco siete voi.
Tutto nella vita vi cangia continuamente sotto gli occhi; nulla di certo; e quest’ansia senza requie di sapere come si determineranno i casi, di vedere come si stabiliranno i fatti che vi tengono in tanta ambascia e in tanta agitazione!
«Ma sì! è qui tutto,» pensavo, «in questa sopraffazione. Ciascuno vuole imporre agli altri quel mondo che ha dentro, come se fosse fuori, e che tutti debbano vederlo a suo modo, e che gli altri non possano esservi se non come li vede lui».
Pazzo! Pazzo! Pazzo! Perché avevo voluto dimostrare, che potevo, anche per gli altri, non essere quello che mi si credeva.
Nessuno dubita di quel che vede, e va ciascuno tra le cose, sicuro ch’esse appajano agli altri quali sono per lui;
Perché, quand’uno pensa d’uccidersi, s’immagina morto, non più per sé, ma per gli altri?
S’apparecchiava in quel salotto, fra quegli otto che si credevano tre, una bella conversazione.
E come potete essere allora così sicuri se da un minuto all’altro una minima impressione basta a farvi dubitare di voi stessi e degli altri?».
Ma che altro avevo io dentro, se non questo tormento che mi scopriva nessuno e centomila?
perché si pensa che, se potessimo entrarci, forse la nostra vita si aprirebbe in chi sa quali sensazioni nuove, tanto da parerci di vivere in un altro mondo.
tutto ciò che di noi si può immaginare è realmente possibile, ancorché non sia vero per noi.
può anche capitare che gli altri, se non vi tenete forte alla realtà che per vostro conto vi siete data, possono indurvi a riconoscere che più vera della vostra stessa realtà è quella che vi danno loro.
Gli uomini, vedi? hanno bisogno di fabbricare una casa anche ai loro sentimenti. Non basta loro averli dentro, nel cuore, i sentimenti: se li vogliono vedere anche fuori, toccarli; e costruiscono loro una casa.
Un vescovo così non è comodo per tutti coloro che han voluto mettere fuori di sé il sentimento di Dio costruendogli una casa fuori, tanto più bella quanto maggiore il bisogno di farsi perdonare.
quel terrazzino apparve a un tratto un uomo, che doveva essere scappato dal letto con la folle idea di provare la voluttà del volo.
Ma io gli mostrai subito una faccia così placida e sorridente, che d’un tratto lo rimise a posto.
Perché bisogna che lei fermi un attimo in sé la vita, per vedersi. Come davanti a una macchina fotografica. Lei s’atteggia. E atteggiarsi è come diventare statua per un momento. La vita si muove di continuo, e non può mai veramente vedere se stessa.
Quando uno vive, vive e non si vede. Conoscersi è morire. Lei sta tanto a mirarsi in codesto specchio, in tutti gli specchi, perché non vive; non sa, non può o non vuol vivere. Vuole troppo conoscersi, e non vive.
Non si può vivere davanti a uno specchio. Procuri di non vedersi mai. Perché, tanto, non riuscirà mai a conoscersi per come la vedono gli altri.
Io non l’ho più questo bisogno, perché muojo ogni attimo, io, e rinasco nuovo e senza ricordi: vivo e intero, non più in me, ma in ogni cosa fuori.

