Gli anni
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Read between July 28 - July 29, 2023
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Tutte le immagini scompariranno.
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Come il desiderio sessuale, la memoria non si ferma mai. Appaia i morti ai vivi, gli esseri reali a quelli immaginari, il sogno alla storia.
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Tutto si cancellerà in un secondo. Il dizionario costruito termine dopo termine dalla culla all’ultimo giaciglio si estinguerà. Sarà il silenzio, e nessuna parola per dirlo. Dalla bocca aperta non uscirà nulla. Né io né me. La lingua continuerà a mettere il mondo in parole. Nelle conversazioni attorno a una tavolata in festa saremo soltanto un nome, sempre più senza volto, finché scompariremo nella massa anonima di una generazione lontana.
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La memoria degli altri ravvivava in loro segretamente la nostalgia per un’epoca che avevano perso per un soffio e alimentava la speranza di poterla, un giorno, vivere a loro volta.
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Subito dopo la guerra, nei banchetti senza fine dei giorni di festa, tra le risate e gli schiamazzi, per morire c’è sempre tempo, suvvia!, era la memoria degli altri a collocarci nel mondo.
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Una lingua che, come tutte le altre, gerarchizzava, stigmatizzava, i fannulloni, le donne di malaffare, «gli svitati» e «i satiri», i bambini «ritardati», lodava «i ragazzi in gamba», le ragazze serie, riconosceva gli altolocati e «i pezzi grossi», ammoniva, la vita ti farà rigare
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ritrovavamo senza neanche accorgercene la lingua originaria, quella che non obbligava a riflettere su ogni parola ma soltanto sulle cose da dire o non dire, quella collegata ai corpi,
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«questa sei tu», obbligata a riconoscere se stessa in quell’altro, un essere paffuto che aveva vissuto un’esistenza misteriosa in un tempo scomparso.
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Vivevamo nella scarsità. Degli oggetti, delle immagini, delle distrazioni, delle spiegazioni di sé e del mondo, limitate al catechismo
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Avevamo il tempo di desiderare le cose. Possederle non deludeva mai. Le si offrivano agli sguardi e all’ammirazione altrui. Custodivano un mistero e una magia che non si esauriva né nella contemplazione né nell’uso. Dopo averle finalmente ottenute, girandole e rigirandole tra le mani, continuavamo ad aspettarci da loro chissà cosa.
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Chi falliva misurava precocemente il peso dell’indegnità, non era capace.
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Dei timidi e di chi non accondiscendeva all’allegria diffusa si diceva, ha dei complessi. Era l’inizio della «società del divertimento».
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Messi di fronte a quel futuro prestabilito avevamo confusamente voglia di restare giovani a lungo.
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the time is out of joint, life is a tale told by an idiot full of sound and fury signifying nothing.
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L’abbondanza delle cose celava la scarsità delle idee e il logoramento di ogni credo.
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Constatavamo che tutti avevamo formato, con una rapidità che ci lasciava stupefatti, delle minuscole cellule separate e sedentarie che si frequentavano tra loro invitandosi a casa di tanto in tanto, giovani sposi e giovani genitori che provavano una sorta di vago risentimento nei confronti della libertà di andare e venire di chi non era in coppia,
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Più eravamo immersi in ciò che dicevamo essere la realtà – il lavoro, la famiglia – più provavamo una sensazione di irrealtà.
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«Ho paura di sistemarmi in questa vita calma e comoda, di ritrovarmi ad aver vissuto senza essermene resa conto.»
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Chiunque, purché rappresentasse un gruppo, una particolare condizione, un’ingiustizia, aveva il diritto di parlare ed essere ascoltato anche se non era un intellettuale. Aver avuto esperienza di qualcosa, qualsiasi cosa, in quanto donna, omosessuale, transfuga di classe, detenuto, contadino, minatore, dava il diritto di dire io.
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Altri modi di pensare, parlare, scrivere, lavorare, esistere: credevamo di non aver niente da perdere a provare tutto. Il 1968 era il primo anno del mondo.
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La società adesso aveva un nome, si chiamava «società dei consumi». Era un fatto assodato, una certezza sulla quale, che si fosse contro o a favore, non c’era bisogno di tornare a discutere. L’aumento del prezzo del petrolio
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Per comprendere il proprio desiderio e farsi coraggio si andava a vedere Una moglie di John Cassavetes, Identificazione di una donna di Antonioni, si leggeva La donna mancina di Peter Handke, La donna fedele di Sigrid Undset.
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L’atmosfera si faceva severa, i discorsi – in cui comparivano le parole «rigore» e «austerità» – punitivi, come se avere più tempo, denaro e diritti fosse illegittimo, come se bisognasse ritornare a un ordine naturale dettato dagli economisti.
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Il susseguirsi delle novità non creava sconcerto, la certezza di un progresso ininterrotto toglieva la voglia di immaginarlo. Gli oggetti non suscitavano né meraviglia né angoscia e venivano accolti come un sovrappiù di libertà individuale e di piacere.
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Era finalmente possibile fare tutto da casa propria senza chiedere nulla a nessuno e senza vergognarsi, guardare sessi e sperma in primo piano standosene spaparanzati sul divano.
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Tra le idee che si volevano negare c’era quella di essere entrati nella società dell’immigrazione. Per anni le persone avevano continuato a credere che le famiglie dell’Africa nera e del Maghreb stipate ai confini delle città fossero solo di passaggio, che sarebbero ripartite un giorno per il posto da cui erano venute assieme alle loro nidiate, lasciandosi alle spalle una scia d’esotismo e di rimpianti, come le colonie perdute. Ora si sapeva che sarebbero rimaste.
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E non invecchiavamo. Nessuna delle cose che avevamo attorno durava abbastanza per diventare vecchia, sostituita in fretta e furia dal modello più recente. La memoria non aveva il tempo di associare gli oggetti a delle fasi dell’esistenza.
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invece quello che vorrebbe fare nel suo libro è proprio salvare tutto, tutto ciò che è stato attorno a lei, sempre, salvare le circostanze. Ma forse l’esistenza stessa di questa sensazione dipende proprio dalla Storia, dai cambiamenti nella vita delle donne e degli uomini occorsi nel tempo e che ora le permettono di esperirla trovandosi a cinquantotto anni al fianco di un uomo di ventinove senza provare nessun senso di colpa né, d’altra parte, nessun orgoglio particolare.
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Un uomo glaciale, dall’ambizione impenetrabile, con un nome per una volta facile da pronunciare, Putin, e che aveva preso il posto di Eltsin l’ubriacone, prometteva di «accoppare i ceceni inseguendoli nelle latrine».
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Nessuno si scandalizzava del fatto che i prodotti arrivassero dal mondo intero e circolassero liberamente mentre gli uomini erano respinti alle frontiere.
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Passavamo al lettore DVD, alla macchina fotografica digitale, all’MP3, all’ADSL, allo schermo piatto, non smettevamo mai di passare a qualcos’altro. Smettere di farlo significava accettare di invecchiare. E più l’usura del tempo segnava la pelle, logorava impercettibilmente il corpo, più il mondo ci reidratava con novità incessanti. Il nostro disfacimento e il cammino del mondo procedevano in direzioni opposte.
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Nella mescolanza dei concetti era sempre più difficile trovare una frase per sé, la frase che, pronunciata in silenzio, aiuta a vivere.
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La memoria era diventata inesauribile, ma la profondità del tempo – quella che ci veniva trasmessa dall’odore e dall’ingiallimento della carta, dal fruscio delle pagine, dalla sottolineatura di un paragrafo a opera di una mano sconosciuta – era scomparsa. Eravamo in un presente infinito.
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Ha perso il senso del futuro, quella specie di schermo senza limiti sul quale proiettava gesti e azioni, l’attesa di cose sconosciute e belle che la colmava nel camminare in autunno sul boulevard de la Marne verso l’università, nel terminare di leggere I Mandarini,
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mi sono appoggiata alla bellezza del mondo / e ho tenuto l’odore delle stagioni tra le mani
Salvare qualcosa del tempo in cui non saremo mai più.