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Se avessi regalato un fiore a Marion, così si chiamava la piccola, l’avrebbe fatto seccare in un libro, doveva durare in eterno. Capita a tutti di comprare un vecchio libro e trovarci petali che, appena li tocchiamo, si sfaldano in polvere. Petali malati. Fiori da fossa. Il suo amore per me si disseccò all’istante, non lasciò neppure un po’ di polvere, non mi salutava più. Stracciai subito il biglietto affettuoso di Marion, come stracciavo subito le lettere, rare, di mia madre, o padre. La mia compagna di stanza teneva tutto in una scatola intarsiata di legno tedesco.
Con il suo armadio in ordine, la biancheria piegata come i lini sacri, i pensieri piegati anch’essi, nella calce notturna.
Mi dichiarai, dichiarai il mio amore. Più che a lei, mi rivolgevo al paesaggio. Il treno sembrava un giocattolo, partì. «Ne sois pas triste». Mi lasciò un biglietto. Avevo perso ciò che avevo di più importante nella mia vita, il cielo era sempre azzurro, dimentico, tutto anelava alla pace e alla felicità, il paesaggio era idilliaco, come l’adolescenza idilliaca e disperata. Il paesaggio sembrava proteggerci, le piccole case bianche dell’Appenzell, la fontana, la scritta «Töchterinstitut», sembrava un luogo non toccato dalle deformazioni umane. È possibile sentirsi sperduti in un idillio?
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Sapevo che Frédérique non avrebbe scritto. Ma perseveravo nel piacere dell’andare in fondo alla tristezza, come a un dispetto. Il piacere del disappunto. Non mi era nuovo. Lo apprezzavo da quando avevo otto anni, interna nel primo collegio, religioso. E forse furono gli anni più belli, pensavo. Gli anni del castigo. Vi è come un’esaltazione, leggera ma costante, negli anni del castigo, nei beati anni del castigo.

