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I dodici mesi di quell’anno si riorganizzarono e turbinarono senza meta nel cuore della Palestina. Gli anziani di ‘Ain Hod sarebbero morti profughi nel campo, lasciando ai loro eredi le grosse chiavi di ferro delle dimore avite, i friabili atti catastali compilati dagli ottomani, i certificati erariali del mandato britannico, i propri ricordi e l’amore per la terra, e l’impavida volontà di non permettere che lo spirito di quaranta generazioni restasse intrappolato in quel complotto di ladri.
sento la terra ruotarmi nel cuore.
legame che stringemmo si basava su un tacito impegno alla comune sopravvivenza. Abbracciava la storia, cavalcava i continenti, attraversava le guerre, e conteneva le nostre tragedie e le nostre vittorie collettive e individuali. Era un legame fatto di lettere adolescenziali, di pentole di foglie di vite ripiene. Era la Palestina. Era una lingua che smantellammo per costruirci una casa.
Non era né miserabile, né forte, solo un uomo che quasi non conoscevo, con l’imprevedibile capacità di sbagliare, perdonare, amare, odiare. Mio fratello.