Il partigiano Johnny è riconosciuto come il più originale e antiretorico romanzo italiano sulla Resistenza. La storia è quella del giovane studente Johnny, cresciuto nel mito della letteratura e del mondo inglese, che dopo l'8 settembre decide di rompere con la propria vita e di andare in collina a combattere con i partigiani. Una storia simile a quella di molti altri giovani e di molti altri libri scritti sullo stesso argomento. Ma Fenoglio riesce a dare alle avventure e alle passioni di Johnny una dimensione esistenziale ben più profonda e generale. Come ha scritto Dante Isella nel saggio che accompagna questa edizione, «il romanzo di Fenoglio è come il Moby Dick nella letteratura marinara. La sua dimensione etica dilata lo spazio e il tempo dell'azione oltre le loro misure reali», grazie anche a una continua invenzione linguistica: l'effetto è quello di suscitare nel lettore una visione drammatica mai scontata e di forte novità espressiva.
Beppe Fenoglio (born Giuseppe Fenoglio) was an Italian writer. His work was published in a critical edition after his death, but controversy remains about his book Johnny the Partisan, often considered his best work, which was published posthumously and incomplete in 1968. The works of Fenoglio have two main themes: the rural world of the Langhe and the partisan war; equally, the writer has two styles: the chronicle and the epos. His first work was in the neorealist style: La paga del sabato (this was published posthumously too in 1969). The novel was turned down by Elio Vittorini who advised Fenoglio to carve out stories and then incorporate them into the The twenty-three days of the city of Alba (1952). These stories were a chronicle of the Italian Partisans or of rural life. One of such works was La malora (1954), a long story in the style of Giovanni Verga.
E’ colpa mia, ho trascinato la lettura per oltre due mesi, abbandonandolo spesso e poi riprendendolo dopo lungo tempo. La lettura è difficile, scoraggiante, l’uso costante dell’inglese soprattutto nella prima parte ha creato ulteriori difficoltà. Però, nonostante tutto ciò, penso che lo sguardo di Fenoglio sul mondo dei partigiani, sull’epoca della storia italiana più confusa, insicura, sbandata e dolorosa sia così reale che diventa inutile leggere le altisonanti parole dei libri di storia, perché la vera Storia è quella di Johnny, di Pierre, di Ettore, di Ivan, di Luis, della vecchia di Cascina della Langa e della sua lupa e di tanti altri che, come Johnny, “si sono impegnati a dire di no fino in fondo”.Quella è stata la Resistenza, sappiatelo.
“Johnny stava osservando la sua città dalla finestra della villetta collinare che la sua famiglia s’era precipitata ad affittargli per imboscarlo dopo il suo imprevisto, insperato rientro dalla lontana, tragica Roma fra le settemplici maglie tedesche.”
Eccomi subito immersa in questo tempo d’attesa: è il caos all'indomani dell'8 settembre. Johnny ha disertato e si nasconde; i sensi sono in allerta, però, non solo per timore di essere scoperto ma per l’insorgere di un desiderio crescente. Anzi, un vero e proprio bisogno: esserci, partecipare, essere attivi con il precipuo obiettivo di colpire ed annientare i nazifascisti. La parola “partigiano” comincia ad essere masticata e, pian piano, prende sapore.
” Partí verso le somme colline, la terra ancestrale che l’avrebbe aiutato nel suo immoto possibile, nel vortice del vento nero, sentendo com’è grande un uomo quando è nella sua normale dimensione umana.”
Dalla prima all’ultima parola ci si trova immersi, invischiati in un conflitto multiforme, perché non è solo l’opposizione alle camicie nere ed i loro alleati ma anche tra gli stessi partigiani i colori distinguono in base alle proprie origini sociali e politiche e – soprattutto- divide l’idea di ciò che si farà dopo lo stupro del ventennio fascista Fazzoletti azzurri e fazzoletti rossi si sfidano con gli occhi mentre cercano di centrare lo stesso obiettivo. L’ostilità, tuttavia, è dilagante tanto che Fenoglio la trasferisce in tutta la sintassi. Da subito leggi con l’impressione di trovarti sotto un fuoco di granate. Queste parole scoppiano, attaccano, percuotono, feriscono con tutto il loro carico represso di rabbia:
” Il primo autunno appariva all’agonia, a fine Settembre la trentenne natura si contorceva nei fits della menopausa, nera tristezza piombata sulle colline derubate dei naturali colori, una trucità da mozzare il fiato nella plumbea colata del fiume annegoso, lambente le basse sponde d’infida malta, tra i pioppeti lontani, tetri e come moltiplicantisi come mazzo di carte in prestidigitazione ai suoi occhi surmenagés. E il vento soffiava a una frequenza non di stagione, a velocità e forza innaturale, decisamente demoniaco nelle lunghe notti.”
Un romanzo “maschio” e crudo perché qui si raccontano giorni brutali dove i minuti galoppano durante il combattimento per poi dilatarsi nei tempi dell’attesa e in quello sbandamento che rende orfani di un rifugio e lascia in solitudine a difendere la propria sopravvivenza.
Molti (troppi) l'hanno dimenticata... ...molti (troppi) non ne sanno nulla... ... ma è la nostra storia.
---------------------------- Tre sassolini nella scarpa. Me li tolgo e non ci penso più…
Primo sassolino
Non mi piace molto leggere romanzi raffazzonati da curatori editoriali seppur scrupolosi, attenti e con tutte le buone intenzioni. Ingenuamente, forse, mi sembra una mancanza di rispetto nei confronti dell’autore che non ha avuto modo di dare l’ultima parola. La vicenda editoriale di questo romanzo è contorta nelle sue differenti prospettive ma quel che conta è che queste pagine siano state pubblicate. E’ stata una meravigliosa esperienza di lettura.
Secondo sassolino
Non è un romanzo facile sia per l’uso dei termini inglesi (che, a onor del vero, si alleggeriscono nella seconda parte) che talvolta stridono con il loro suono così differente rispetto alla nostra lingua. Il ritmo a me è risultato spezzato. In realtà, chi ne sa di più, ha coniato il termine di feninglese che sta proprio ad indicare una coerente amalgama linguistica o, comunque, un ibrido. Colpisce che la scelta di questi inserimenti si accoppi ad un uso sorprendente della nostra lingua: è un’esplosione sintattica che non può lasciare indifferenti.
Terzo sassolino
Johnny si ribella al vento nero ma riproduce stereotipi e pregiudizi di stampo reazionario. Questi riguardano in primo luogo le donne e poi anche i meridionali. Trovo giusto dirlo, sottolineando, tuttavia, che si tratta di preconcetti che rientrano perfettamente nei tempi storici e geografici: mi hanno dato fastidio ma li ho capiti.
”Per l’umidità della terra di scontro, molti tossivano, tutti di quando in quando si schiarivano la gola, e la carrucola del pozzo cigolava. Il cuore di Johnny s’apriva e scioglieva, girò tutta l’aia apposta per farsi partecipe e sciente d’ogni uomo. Erano gli uomini che avevano combattuto con lui, che stavano dalla sua parte anziché all’opposta. E lui era uno di loro, gli si era completamente liquefatto dentro il senso umiliante dello stacco di classe. Egli era come loro, bello come loro se erano belli, brutto come loro, se brutti, Avevano combattuto con lui, erano nati e vissuti, ognuno con la sua origine, giochi, lavori, vizi, solitudine e sviamenti, per trovarsi insieme a quella battaglia.”
(1) Questa volta li frego tutti (…) Questa volta scrivo tutto in inglese, e poi traduco in italiano. Otterrò una lingua nuova, originale, agile, veloce, secca (…) E ciò che sto scrivendo sarà il mio capolavoro. (2) Il partigiano Johnny ebbe uno sviluppo narrativo complesso e articolato, insolito per Fenoglio. Lasciò due stesure molto diverse: la prima completa, la seconda parziale. L’attuale edizione Einaudi le monta insieme: la prima parte (capitoli 1-20) è in prima stesura; la seconda (capitoli 21-39) è in seconda stesura. (3) La scrittura è clamorosa. La prima parte è straniante, espressionista, quasi fuori controllo. Ha intere frasi in inglese e straborda di invenzioni, neologismi, forme sintattiche alternative. La seconda è un po’ più sorvegliata e relativamente composta. Nel suo insieme è una delle cose più acrobatiche e sorprendenti mai lette. (4) Su una moltitudine di pagine ci si potrebbe soffermare per ore. Le raffiche di aggettivi in successione veloce sembrano scariche di caricatore, da marchio di fabbrica. Ci vuole un set nuovo di matite per star dietro alle sottolineature. (5) Potrebbe essere il più grande romanzo italiano incompiuto. Fosse tirato a lucido e meno provvisorio avrebbe la stessa potenza? Imperdibile, prima o poi.
L’uso del linguaggio di Fenoglio in questo romanzo è semplicemente prodigioso. Sapientemente egli lo plasma, lo crea, impastandolo con pezzi di inglese, con termini desueti, con espressioni nuove che disinvoltamente fioriscono da vocaboli comuni, e soprattutto con una poesia intensa, dura, passionale. Ma intendiamoci, ci ho messo 200 pagine almeno per capirlo, per cogliere la poesia di questo modo nuovo di esprimersi, per allinearmi con quello sguardo che inchioda le cose del mondo con un’intensità stupefacente, uno sguardo che è poi quello di Johnny - e ho capito allora che era proprio questo il solo e unico linguaggio che, con tanta precisione, poteva attagliarsi al temperamento di Johnny, un uomo, un partigiano che è puro slancio, e uno slancio che è pura necessità. Un eroe romantico, se vogliamo, anche se in un’accezione del tutto nuova.
Non c’è retorica nel ritrarre questo mondo di partigiani, siamo lontani anni luce dalla retorica.
“Fare il partigiano era tutto qui: sedere, per lo più su terra o pietra, fumare (ad averne), poi vedere un[o] o [più] fascisti, alzarsi senza spazzolarsi il dietro, e muovere a uccidere o essere uccisi, a infliggere o ricevere una tomba mezzostimata, mezzoamata.”
C’è molto dolore, molto fango e bassezze umane, eppure in tutto questo ci sono anche slanci purissimi. C’è il senso della necessità di fare ciò che andava fatto, nella fatica estrema, nel freddo, nella marce incessanti e nelle fughe disperate, nella pioggia che “cadeva con strapotente continuità, concreta come una materia con cui si possa fabbricarsi”; e nelle atrocità di quella che è pur sempre una guerra. C’è il sentimento purissimo di lealtà e amicizia nei confronti dei compagni più fidati. Ci sono uomini e donne *nudi*, primitivi, nel loro agire umano e animale, dettato dalle contingenze e necessità, soli nella dura realtà, la natura nemica quanto e più della guerra.
“[...] la natura stava riportando un eccezionale trionfo: una volta tanto la natura stava prendendosi la rivincita sugli uomini per il primato nell’incussione della paura; per ognuno era infinitamente meglio avanzare solo contro un’armata di SS piuttosto di aver a che fare con uno solo di quei flutti fangosi. Guardò ancora al fiume, quasi si rifornisse di materiale per il suo incubo notturno”
Ma c’è anche la vita, prepotente, perché c’è sempre, costante, l’urgenza di non arrendersi, di resistere fino in fondo. “E pensò che forse un partigiano sarebbe stato come lui ritto sull’ultima collina, guardando la città e pensando lo stesso [...] la sera del giorno della sua morte. Ecco l’importante: che ne restasse sempre uno”.
Un Fenoglio impegnativo, almeno per me, quasi estremo (e difficile anche da commentare) ma imprescindibile.
Collana ET scrittori. Introduzione di Gabriele Pedullà (agosto 2021), a corredo, un saggio di Dante Isella, “La lingua del Partigiano Johnny”
Un romanzo imprescindibile, un’esperienza di lettura impegnativa ma unica. Nonostante l’edizione da me letta sia accompagnata da un’ interessantissima introduzione di Pedullà, la versione proposta è quella di Isella (1992) che, nel lungo percorso filologico che ha accompagnato la stampa di queste carte, ora chiamiamo “Il partigiano Johnny” . In particolare è un montaggio delle due redazioni del romanzo ritrovate presso le carte dello scrittore; i primi venti capitoli sono quelli presenti nella prima redazione, i restanti nella seconda; per chi non lo sapesse la prima redazione è quella più ancorata all’originaria lingua inglese in cui tutto il romanzo fu scritto, la seconda invece è quella maggiormente sottoposta a processo di revisione e riscrittura, una riscrittura che spesso, ci dicono i critici, interessò non solo l’aspetto strettamente linguistico ma anche quello più strutturale, con rivisitazione di interi episodi. Abbandonando le questioni meramente filologiche, dalle quali in realtà non si può prescindere, si può parlare di questo romanzo in termini di esperienza di lettura e tentare di condividere le sensazioni provate e le emozioni suscitate. Pur essendo un testo non licenziato dal suo autore mi sento di annoverarlo tra i capolavori della letteratura italiana e non solo di quella strettamente resistenziale, e non per pura simpatia ideologica ( posizione davvero difficile da sostenere senza avere contezza del complesso fenomeno resistenziale che dovrebbe essere maggiormente studiato da tutti prima di farne una bandiera da sventolare o una questione divisiva ancora oggi, pur ribadendo una mia ferma posizione antifascista) quanto piuttosto per il suo valore strettamente letterario. Ho letto la storia di Johnny gustandomi ogni singola pagina, ogni parola, ogni gioco linguistico, nonostante le difficoltà dovute alla mia scarsissima conoscenza dell’inglese e armandomi di tutta la pazienza necessaria per colmare il gap linguistico che interrompe, soprattutto nella prima parte, il filo narrativo a più riprese. Questo è stato possibile perché si è creato un forte meccanismo di compensazione dettato dall’arditezza linguistica in lingua italiana, molto spesso ho dovuto ricorrere al dizionario per introiettare lemmi mai incontrati prima, scoprendo sovente, oltre alla mia ignoranza lessicale, le acutezze linguistiche fatte di neologismi, latinismi, vere e proprie fusioni linguistiche. Altro motivo di compensazione è stato il perdersi in una prosa arricchita da insolite giustapposizioni di nomi e aggettivi in una sintassi mai pesante, a titolo esemplificativo potrei citare l’incontro del protagonista con il professor Chiodi: “Chiodi si era alzato, nella sua orsina massiccità di montanino corretto da anni di esistenza pianurale. Gli diede un abbraccio filosofico…”. Quanta immaginazione e quante informazioni passano nel tripudio giocoso di questi accostamenti, mi si sono impressi nell’immaginario, nella loro incisività, più di qualsiasi ricco inserto descrittivo. Una prosa studiata, voluta, capace di amplificare le scarne informazioni in un universo immaginifico tale da farmi apprezzare quasi tutte le pagine del romanzo, non ce n’è più una al netto dei miei ripetuti segni di matita e di note a margine. A ciò si è aggiunta una narrazione avvincente quasi completamente incentrata su Johnny che, rientrato fortunosamente da Roma, dopo lo sbandamento dell’esercito regio, abbandona la comoda tana del coniglio in collina, dove i suoi lo hanno confinato per proteggerlo, per abbracciare la scelta partigiana e inizia la sua peregrinazione tra le colline delle Langhe e del Monferrato. L’incontro con i suoi ex professori del liceo, Chiodi e Cocito, già segna il passo della narrazione: diventare un partigiano non sarà una questione semplice, a detta di Cocito non è solo una questione legata alla difesa della libertà ma necessita di un’ideologia precisa, comunista per la precisione, altrimenti si rischia di essere dei Robin Hood. Nonostante queste premesse, la forza di Johnny sarà la sua continua incapacità di adattarsi a situazioni eticamente non condivisibili, il suo tormento interiore, parte verso le colline “la terra ancestrale che lo avrebbe aiutato, nel vortice del vento nero, sentendo quanto è grande un uomo quando è nella sua normale dimensione umana”.Trova le prime formazioni partigiane ma subito capisce che si trova dalla parte sbagliata: “Really, I’m in the wrong sector of the right side”, le formazioni comuniste sono improvvisate, zeppe di ignoranti e di giovanissimi, marmocchi inesperti dal punto di vista militare, votati miseramente all’errore e in bilico sulla corda della vita. Johnny si muove, cerca, non si accontenta, progredisce nel suo percorso umano, interiorizza gradualmente la dura legge della vita partigiana, cambia formazione, si adatta alla collettività per giungere poi a combattere solitario, nell’inverno più solitario della sua vita. La narrazione si snoda in modo avvincente con un ritmo episodico e un andamento cronologico scandito soprattutto nella seconda parte da capitoli titolati che rimandano alla Città, la presa di Alba e la subitanea perdita, al preinverno e al terribile lunghissimo inverno. si è con Johnny sempre e lo si lascia a malincuore.
Anche solo per l'uso della lingua (o dovrei dire, meglio, delle lingue?) merita, ancora prima di arrivare in fondo alla storia, un inchino e uno sventolio di cappello. Regale.
Come narrazione di una delle Resistenze è superato solo da sé stesso in "una questione privata".
Che però se vince nella sintesi non restituisce quell'essere in balia della natura non meno che dei nazifascisti. E' pure un romanzo di formazione ed un romanzo storico. Johnny parte filoanglosassone, inframmezzando il suo racconto di frasi inglesi (semplici: è l'inglese dei Beatles) e man mano che prende fucilate, freddo, sporco, pulci, calli e vesciche, man mano che vede i suoi cadere o scomparire insieme alle illusioni, si scopre definitivamente immancabilmente e irrimediabilmente italiano. Passaggio mostrato coll'affievolirsi della frequenza dell'inglese.
Nessuna agiografia, mito o tentativo di raccontarsela. Giusto peso dato al coraggio e finissima distinzione tra i non combattenti in attendisti, vili, poveracci, spie e gente normale cui più di un po' di pane e ricetto non si poteva chiedere che già il pane - peraltro raro - poteva costare l'incendio della casa, il ricovero la galera o la fucilazione.
Dedicato a quelli che (col senno di poi) sanno intimamente, con romana certezza e littoria volontà, che avrebbero scelto la parte giusta, fin dal 1922 perbacco! e combattuto il nazifascismo con ardimento, abnegazione ed immarcescibile amor di patria. Quelli che oggi sono antifascisti senza sapere che l'atteggiamento di sicumera di cui sopra li avrebbe resi quasi certamente fascisti o fascistizzabili in quei tristi anni. La fatica di Johnny ti stanca e la sua paura ti atterisce. Grande, grande romanzo.
PS Ah, se avete qualche pratica di scarpinate in montagna, tattiche e no, pensate che gli americani avevano la jeep o la hd, i nazisti la kubelwagen o la zundapp o la bmw, i partigiani nelle Langhe anche dei camion. All'inizio. Poi le gambe e solo quelle. Per un anno. Solo le gambe, la solitudine, la paura e uno stomaco. Infine una prova che non molti intendono della verità di Fenoglio, è che a Johnny fa fare cazzate tanto più grosse quanto più è stanco: ogni collina, ogni zaino, ogni compagno sorretto, ogni notte con sole due ore di sonno abbassano il Q.I. di chiunque di un dieci per cento. In capo a una settimana nessuno è più intelligente dello scemo del villaggio.
Attenzione ai "geni" dopo mesi di guerra: l'autore vi sta prendendo in giro.
Faticoso e bellissimo: se dovessi limitarmi a poche (due) parole credo che direi questo. "Il partigiano Johnny" è stato per me una lettura rimandata e rimandata eppure _come scopro ora_ necessaria: forse il libro sulla guerra civile e la resistenza in Italia meno antieroico e meno retorico di sempre, pure scritto da un personaggio tra i più riservati e scrivi degli scrittori del secondo dopoguerra. Probabilmente l'ho molto apprezzato perché quel periodo e quel tempo rappresentano un pò in nostro "west", inteso come periodo eroico, come epopea vissuta. E nessuno ne ha scritto come Fenoglio.
Uscito postumo nel 1968, dopo una travagliata vicenda editoriale e con un testo non del tutto accertato [...]
Ecco, appunto. Questo libro mi ha fatto molto riflettere sull'opportunità di pubblicare opere dopo la morte dell'autore, specie se è noto che l'autore non le considerava compiute. Non sono un'esperta di Fenoglio, ma mi piace leggere della resistenza. Qui ho fatto fatica, principalmente per l'abuso dell'inglese. Io parlo molto bene la lingua d'Albione e sono consapevole che le lingue moderne cambiano col tempo, per cui sono convinta che, mentre Fenoglio scriveva, quella terminologia era appropriata. Oggi l'ho trovata pesante, pesantissima. Troppi avverbi, parole troppo ricercate. In un certo senso mi ha ricordato gli errori che fanno gli studenti di lingue all'inizio, quando si appoggiano al vocabolario per fare una traduzione e non hanno la fluidità necessaria a scegliere il termine migliore. Spesso si tende così a mantenere la struttura della frase della propria lingua madre e si rischia di scegliere termini che suonano famigliari all'orecchio italiano, ma che sono desueti o molto tecnici per la lingua in cui si va a tradurre. Ho fatto fatica a superare la pagina 50, poi la trama grazie al cielo ha preso il sopravvento e mi sono ritrovata a leggere a scatti: molte pagine fluide, poi un blocco da superare, poi un'altra rapida e un'altra secca. Raramente abbandono un libro e mi sentivo particolarmente in colpa ad abbandonare un punto fermo della nostra letteratura, ma sono fortunata a non essere stata costretto ad affrontarlo al liceo: l'avrei odiato. Mi permettete un banale gioco di parole? La resistenza di cui scrive Fenoglio riguarda tanto i partigiani quanto il lettore che lo accompagna. Johnny si aggira tra villaggi e colline sempre più provato. Ci sono sigarette e fughe, la presa di Alba e la speranza delle provvigioni inglesi, interminabili turni di guardia e piogge torrenziali. L'inverno sembra non dover finire. È giusto: non c'è nulla di romantico nel logoramento a cui quegli uomini si sono sottoposti per sconfiggere il fascismo. Mi chiedo se nella stesura finale Fenoglio avrebbe ridotto le pagine, oppure aggiunte altre 100. È uno di quei romanzi che sembra poter andare avanti all'infinito, senza un evento epocale che dia il via alla trama e senza un evento epocale che la concluda. Tuttavia sono contenta di averlo finalmente letto perché mi sembra di aver capito qualcosa in più della nostra storia.
Sto leggendo ora, con colpevole ritardo, questo famoso romanzo incompiuto di Fenoglio. Ma debbo confessare che arranco parecchio nella lettura, non tanto per il tema trattato, perchè ne ho già letti tanti di libri al riguardo, quanto per il tipo di scrittura. Non mi è facile spiegare di che natura siano gli inciampi che trovo.
Conosco l'italiano, poichè italiana sono, e conosco l'inglese, perchè l'ho studiato. Tuttavia, questa commistione tra le due lingue mi risulta ostica. Non è che la giudichi mal riuscita, al contrario, apprezzo il valore della sperimentazione, ma è come se il mio cervello fosse costretto ad agire contemporaneamente su due livelli diversi, poichè si generano bruschi cambi di stile e di tono.
In pratica, non riesco a trovare il piacere della fluidità della lettura. Non so come altro spiegarvi questo disagio. Non è come se mi trovassi di fronte a concetti difficili da capire. Se così fosse, basterebbe fermarsi un momento e riflettere oppure prendere un appunto per tornarvi sopra in seguito. No, qui è proprio come se stessi guidando un'automobile che carbura male e che procede "a strappi". Sono fortemente tentata di abbandonarlo.
È uno dei romanzi più importanti del Novecento, è una delle questioni filologiche più complesse della letteratura italiana ed è una delle letture più difficili che abbia mai fatto. Non è un romanzo che definirei bello, anche se ci sono momenti di pura poesia. È abbastanza ostico. In alcuni passaggi un po’ bruschi, in qualche paragrafo forse bisognoso di limatura, si percepisce che quello che leggiamo non è un vero e proprio romanzo pubblicato dall’autore, bensì il frutto di un’operazione critica e filologica. Ma è un romanzo necessario, come la guerra che racconta: sporca, crudele, ingiusta, sbagliata come tutte le guerre. Questa guerra, però, è una scelta obbligata, a differenza di tutte le altre. Non ha alternative, eppure ciò non la rende meno atroce. Le attese infinite sotto la pioggia e sotto il sole, nel fango, al freddo, la fame, l’impossibilità di lavarsi, la tosse che sconquassa il petto, l’unico momento di pace una sigaretta ottenuta chissà come, girarsi all’improvviso durante una fuga disperata e scoprire che i compagni sono stati colpiti, sono morti, perduti. Come la vita partigiana stessa, il romanzo oscilla tra lunghi momenti di vuoto e improvvisi lampi di violenza che si esauriscono in fretta così come sono iniziati e lasciano con un miscuglio di orrore e sgomento a chiedersi: «Ma che diamine è successo?». La stessa straniante confusione provata da Johnny quando si guarda intorno dopo uno scontro, smarrito, alienato dal mondo e da sé stesso, circondato da sangue e corpi. Le immagini sono brutali, tese allo spasimo, incise da un tratto deforme che fa pensare alle opere di Schiele o alla serie di disegni di Renato Guttuso, Gott Mitt Uns, che documentano gli orrori della Resistenza italiana. Anche la lingua è aspra, difficile, si tende oltre i propri limiti nel tentativo disperato di dare voce a una realtà allucinata e priva di senso. Fenoglio forza la parola in direzioni curiose e inedite: rafficato, per indicare un corpo umano raggiunto da una raffica di proiettili; fortezzò, in riferimento al silenzio che circonda una caserma dei carabinieri e la rende più impenetrabile, simile, appunto, a una fortezza; lazzarico, per indicare un paese che si sveglia dal sonno notturno come dalla morte. Una lettura non propriamente scorrevole, insomma. E, a complicare la situazione, all’italiano si mescola l’inglese. Dopotutto Johnny è uno studente di letteratura anglosassone e questa lingua è così viva dentro di lui da fondersi con la sua lingua madre, come se il giovane avesse scelto una seconda patria. E forse Fenoglio deve aver pensato che l’italiano, da solo, fosse insufficiente a esprimere l’inesprimibile. Addirittura la prima manciata di pagine che Fenoglio scrive sul personaggio di Johnny è interamente in inglese. Le vicende redazionali di quello che oggi chiamiamo Il partigiano Johnny sono estremamente complesse, un vero e proprio “caso” editoriale di cui è interessante rintracciare le tappe. Il “caso Johnny” inizia nel 1954, quando Fenoglio butta giù alcune pagine in inglese, forse perché sta ancora cercando il suo stile, come ipotizzano i critici, e questa lingua gli è più congeniale. Nelle intenzioni dell’autore dovrebbe essere l’avvio di un grande progetto narrativo fortemente autobiografico. Dopo molte riscritture e correzioni, nel 1958 Fenoglio ha prodotto circa ottocento pagine che raccontano le vicende di Johnny dai tempi del liceo ad aprile 1945, passando per l’addestramento militare, la fuga dopo l’8 settembre, la partecipazione alla Resistenza. A questo punto contatta Garzanti, la sua casa editrice. Per non ritardare troppo l’uscita, data la mole dell’opera, pensa a una pubblicazione in due volumi e il primo di essi, Primavera di bellezza, è proprio quello che mette in mano a Garzanti. La casa editrice, però, è rimasta scottata dalla vicenda di Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, che doveva uscire in due volumi e non è mai stato portato a termine dall’autore, dunque respinge la proposta di Fenoglio. L’autore, allora, riprende in mano il primo volume, taglia la parte iniziale (riassunta per mezzo di un paio di flashback) e aggiunge tre capitoli finali. L’opera che ne viene fuori viene pubblicata nel 1959 come Primavera di bellezza e va dall’addestramento militare di Johnny alla morte del protagonista nella sua primissima azione partigiana. Le restanti carte su Johnny, il resto delle ottocento pagine della prima stesura, prive di revisione e scarsamente leggibili, finiscono chiuse in un cassetto dall’autore, che, a quanto pare, non ci pensa più e si dedica ad altro. Queste carte, però, ci sono giunte in tre diverse redazioni. La prima, in inglese, racconta solo il periodo tra marzo e aprile 1945. La seconda, composta in un miscuglio di inglese e italiano, va dal ritorno ad Alba dopo l’8 settembre alla battaglia di Vadivilla, nel febbraio del ’45, ma Johnny, in questa versione, non muore. La terza, ancora redatta in inglese e italiano insieme, è sopravvissuta solo in parte e racconta i fatti dall’episodio della liberazione di Alba (ottobre 1944) allo scontro di Vadivilla, e questa volta la storia termina con la morte del protagonista. Dopo la morte improvvisa e prematura dell’autore, nel 1962, parte la caccia all’inedito. Nel 1968 esce la prima edizione della seconda parte della storia di Johnny, Il partigiano Johnny, appunto, che narra ciò che sarebbe accaduto, secondo i piani di Fenoglio, se non avesse ucciso il protagonista al termine di Primavera di bellezza. Perché proprio nel 1968? Perché il clima attento allo sperimentalismo guarda con interesse all’originale pastiche stilistico del testo, con quella sua mescolanza di inglese e italiano. Inoltre, Johnny appare un antesignano dei giovani studenti ribelli che in quel periodo occupano le aule universitarie e lottano per un mondo migliore, come i partigiani vent’anni prima. Questa edizione mescola la seconda e la terza redazione delle carte fenogliane (escludendo la prima, quella tutta in inglese) in modo arbitrario, all’unico scopo di produrre un testo il più possibile appassionante e comprensibile per i lettori. Si tratta, però, di un’operazione filologicamente poco corretta e non rispettosa delle volontà dell’autore. Nel 1978 si appronta una seconda edizione, che accosta tutte e tre le versioni emerse dalle carte di Fenoglio, compresa quella redatta in inglese. Scelta più rispettosa rispetto alla prima edizione, ma senz’altro poco appetibile per il lettore comune, che si trova a leggere tre versioni incomplete e prive di revisione della stessa storia. Nel 1992 arriva la terza edizione, a cura di Dante Isella, quella che leggiamo attualmente. Isella decide di unire la seconda e la terza stesura ricavando un racconto uniforme che va dal ritorno ad Alba di Johnny, dopo la fuga successiva all’8 settembre, alla battaglia di Vadivilla e si conclude con la morte del protagonista. Dove le due stesure si sovrappongono, Isella predilige la seconda, per evitare contraddizioni con gli eventi precedenti, tratti, come si è detto, dalla seconda stesura. Dove quest'ultima si interrompe, Isella segue la terza. Questa edizione si conclude dunque con la morte di Johnny, che presumibilmente è l’ultima volontà dell’autore sulla sorte del suo protagonista, dato che l’ultima versione giunta fino a noi termina in questo modo. Da segnalare, infine, l’interessante operazione filologica compiuta da Gabriele Pedullà nel 2015. Il critico pubblica in un unico volume la prima versione di Primavera di bellezza, quella che Fenoglio consegna a Garzanti nel ’58 e che doveva essere la prima parte della storia di Johnny se la casa editrice non avesse respinto l’idea della pubblicazione in due tempi, seguita dalla seconda redazione di Il partigiano Johnny, la più antica (escludendo sempre quella manciata di pagine redatte in inglese, la primissima versione, troppo in fase di abbozzo per essere presa in considerazione), l’unica che è giunta completa fino a noi e senza i tagli che Fenoglio inizia a praticare già tra la seconda e la terza stesura, preoccupato dalle dimensioni che la storia aveva raggiunto e che segneranno inevitabilmente il suo destino.
Johnny è il soprannonme di un giovane studente universitario di ventidue anni, che si arruola nell'esercito come sootoufficiale. Fuggito dopo l'Armistizio dell' 8 Settembre,cerca rifugio nelle Langhe,presso la sua famiglia, che lo nasconde in una casa in collina sulle pendici di Alba, per sfuggire al decreto Graziani che imponeva la coscrizione obbligatoria ai giovani in età da divisa. La lontananza dalla realtà lo rende inquieto, e spesso ripensa suoi professori , Chiodi e Cocito, che molto gli hanno insegnato sull'antifascismo. Quando i suoi genitori sono arrestati dai fascisti, Johnny trova il pretesto per cominciare ad agire: partecipa ad una sommossa contro una caserma dei Carabinieri per liberare alcuni prigionieri. In seguito, si dirige verso le colline e qui inizia una nuova vita, unendosi ai partigiani garibaldini, che commettono l'errore di catturare un ufficiale tedesco, scatenando subito l'ira dei tedeschi stessi. Johnny riesce miracolosamente a sfuggire al rastrellamento e si dirige verso Alba,dove inizia un'altra esperienza al fianco dei partigiani badogliani, detti Azzurri, che agiscono come fossero un esercito, guidati dal comandante Nord. In questo periodo, incontra anche un industriale del settore enologico, B., il quale lo invita a ferrmarsi nella sua casa in collina dove vive nascosto con la moglie e la figlia; questa breve esperienza gli fa capire di non avere piu' nulla in comune con certi ambienti, fati di conversazioni frivole e piccoli lussi. Intanto gli scontri riprendono, insieme ai rastrellamenti, quando Alba viene occupata è estate e badogliani e garibaldini sono ormai i padroni delle colline, pur consapevoli che non sarà possibile resistere per sempre alla controffensiva. In autunno i fascisti abbandonano Alba, ma tutti sentono che è un'illusione passeggera,perchè tra i partigiani sono molte le diserzioni e l'avvicinarsi dell'inverno metterebbe a rischio di rappresaglie fasciste tutti loro, compresa la popolazione civile. Solo la piena del fiume, da' ad Alba un periodo di relativa quiete. Il gruppo del comandante Nord è costretto alla ritirata tra i boschi; saranno tre giorni durissimi, senza cibo e difese. Johhny ed i suoi si nascondono in una casa di contadini; qui, tramite una radio, ascoltano il messaggio del generale Alexander, che esorta i partigiani a dividersi: anche il comandante Nord accoglie questo invito. Dopo una serie di vendette e imboscate,Johnny rimane solo sulle colline. Il 31 gennaio 1945, lui è tra i cento uomini che partecipano al reimbandamento dei partigiani badogliani, ma sono troppo pochi, con poche armi . In loro aiuto arriva un anziano combattente, il padre del comandante Nord, che li incoraggia rifornendogli di munizioni; poco dopo, in seguito ad un attacco, viene ferito a morte.
La vittoria dei partigiani conclude la storia nella prima stesura del romanzo; in quella successiva,il finale rimane quasi incompiuto, lasciando intendere che Johnny muoia imbracciando il suo fucile.
la caratteristica principale del romanzo è il linguaggio, che alterna parole in italiano ed in inglese, specie nella prima parte. Sono presenti anche figure retoriche che caratterizzano descrizioni del paesaggio e delle azioni di guerra. Sembra quasi una lingua nuova, creata per dare alla trama un'atmosfera unica. Le Langhe e oprattutto Alba sono al centro del libro, poichè Fenoglio era molto legato alla sua gente ed alle sue colline. Johnny, il protagonista, vive la sua esperienza tra i partigiani, senza gloria, ma per continuare a sentirsi umano. Nel romanzo ci sono le piccolezze umane, le attese, la paura, le morti poco gloriose e le sconfitte. Johnny cammina verso la libertà, tra dubbi ed incomprensioni. Johhny non si considera un eroe e non aspira nemmeno ad esserlo.
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There were three of us this morning, I’m the only one this evening, but I must go on (non è fenglese ma Leonard Cohen [“The Partisan”])
“Il partigiano Johnny” è un’opera che, a quasi 50 anni dalla pubblicazione postuma e a 70 dagli avvenimenti narrati, mantiene pressoché intatto il suo valore. L’affermazione può apparire pleonastica quando si ha a che fare con i cosiddetti “classici” che tuttavia, almeno per quanto mi riguarda, spesso lasciano trasparire una patina di fastidioso anacronismo e visioni o sensazioni in cui per il contemporaneo è difficile immedesimarsi. Non è questo il caso.
Nell’ambito della mia scarsa esperienza con la narrativa italiana del periodo, ignoravo tutto di questo romanzo, se non quanto deducibile e immaginabile dal titolo, e credo di esserne uscito arricchito, sicuramente sul piano storico-cronachistico e, in misura minore, su quello letterario.
Il primo elemento è quello decisivo: la perfetta, dettagliata ed accorata descrizione, nelle fila del movimento partigiano e in una prospettiva semiautobiografica, della parabola della Resistenza dall’improvvisazione e dallo spontaneismo iniziale all’organizzazione e alla consapevolezza successiva (supportata dall’approssimarsi dell’avanzata alleata), fino allo scoramento e sbandamento conseguenti anche all’arenarsi dell’esercito di liberazione sul fronte dell’Italia centrale.
Tutti questi passaggi sono scanditi e si riverberano in altrettanti momenti che, nel circoscritto ambiente delle Langhe, pervadono i personaggi del romanzo, mentre il protagonista Johnny segue un percorso di crescita e maturazione che travalica l’alternarsi delle vicende belliche: all’inizio è un ragazzino di buona famiglia che, liberatosi dall’ovattata protezione dei genitori, si aggrega al primo gruppo incrociato “in collina”; alla fine, combattente coraggioso e maturo, è quasi un mito per la popolazione locale.
Il racconto procede senza alcun trionfalismo né sulla figura di Johnny, né su quella dei capi partigiani dei quali non vengono celate le debolezze, gli errori, i contrasti ed anche l’aspetto più antieroico, l’inquieto antagonismo fra badogliani e garibaldini. Esso potrebbe apparire assurdo e incosciente ove si consideri la forza ancora preponderante del comune nemico, ma è cruciale in quanto prefigura il contrasto sul futuro assetto dell’Italia post-fascista.
Sul piano narrativo/stilistico invece pesa e, per quanto mi riguarda, impedisce di conferire il massimo dei voti al romanzo, l’irritante scelta di disseminare soprattutto la prima parte del racconto di inutili inglesismi e frasi intere in quello che è stato definito “fenglese”, cioè l’inglese di Fenoglio. Mi è stata spiegata in modo esauriente la radice culturale di tale opzione dell’autore, ma è un fatto che, senza portare un concreto valore aggiunto alla lettura, appesantisce in misura molto rilevante la scorrevolezza del testo e motiva la scelta di coloro che purtroppo hanno abbandonato il libro ai primi capitoli.
Quanto diversamente affascinante è invece la narrazione dell’ultima parte dell’opera, in cui alla progressiva perdita dei compagni e dei punti di appoggio da parte della lotta sempre più solitaria di Johnny, subentra un contatto via via più intimo con la natura dei luoghi, con le colline delle Langhe magistralmente descritte, i misteriosi “ritani” estremi nascondigli dell’uomo braccato, le casupole sormontate dai “riccioli di fumo” sempre più rare, misere e abbandonate.
Libro complesso sia da valutare che da leggere. Il perché è presto detto: non esiste una versione finale, e questa stessa edizione è di fatto l'assemblaggio della prima (cap.1-20) e della seconda (cap.21-39) revisione del romanzo. Il problema non sta tanto in eventuali discrepanze di trama, ma nello stile proprio di Fenoglio in fase di scrittura. La trama è invece nota e racconta del giovane Johnny che dopo l'8 settembre'43 si fa partigiano sulle colline delle Langhe, combatte durante la conquista della città di Alba e poi ancora durante la sua rapida caduta, vive il terrificante inverno del '44-'45 e la caccia all'uomo messa in piedi dai fascisti in un'epopea carica di drammaticità ma del tutto priva di retorica.
La prima parte - che è riportata nella versione più grezza - presenta un linguaggio estremamente elaborato e del tutto atipico, fatto d'un italiano sospeso fra l'arcaico, l'espressionista e il colloquiale e infarcito abbondantemente di anglismi: molti vocaboli di entrambe le lingue sono inventati di sana pianta da Fenoglio, che per sua stessa ammissione scriveva prima in inglese e poi traduceva in italiano. Il gioco linguistico è estremamente potente, ma non sempre lecito e di difficile lettura; sotto le ceneri di questo tentativo di piegare la lingua all'emozioni che le parole desiderano trasmettere si coglie comunque distintamente la grandezza e la chiarezza delle idee e della scrittura.
La seconda parte presenta uno stile più vicino a quello nostro classico, gli anglismi si rarefanno e, alleggerite dal peso di quella ricerca linguistica così raffinata e complessa - che, per quanto se ne può dire, può piacere del tutto solo a filologi o linguisti, ma non a un banale lettore come me - le pagine cominciano letteralmente a volare, e si sbalordisce di tanta maestria narrativa. E qui - senza dubbio - si giunge al capolavoro.
L'idea che scrittori giganteschi, come Fenoglio (ma anche come Flaiano, per dirne un altro), abbiano tentennato o desistito a pubblicare o più semplicemente a scrivere le cose grandiose che avevano in mente e che scrivevano così dannatamente bene fa effettivamente imbestialire, soprattutto guardando la pletora di scrittori mediocri, pessimi o indegni che ha riempito le librerie negli anni. Così in mano ci rimangono solo bozze, o accenni, o anche un beato niente di possibili/probabili capolavori. Ma tant'è, e non ci si può far niente.
Se non prorompere in qualche bestemmia, ogni tanto...
Un vero e proprio capolavoro. Straordinario è l'uso della lingua italiana (e non solo) da parte di Fenoglio, come straordinario è il racconto dell' esperienza partigiana, senza filtri nel bene e nel male. Un romanzo da leggere assolutamente una volta nella vita, veramente indimenticabile.
Inizialmente restia a leggere questo romanzo (non lo reputavo di mio gusto, parlando di temi bellici, a me così ostili), ho mutato idea con il procedere della narrazione, e da indifferente lettrice, me ne sono innamorata perdutamente. Magistrale la bravura di Fenoglio, che ha saputo descrivere minuziosamente e dettagliatamente il luogo di ambientazione della storia, le vicende dei partigiani e il clima appesantito della guerra, che ha impregnato ogni pagina del libro. Per un'appassionata di neorealismo come me, non c'è stata gioia più grande che la relativa "piattezza" della narrazione, seguita, però, da incantevoli delineazioni pittoriche di paesaggi, da introspezioni psicologiche ricorrenti e da vividi dialoghi umili e dimessi. L'intero libro si potrebbe riassumere in tre parole chiave: - Jhonny; - la Resistenza; - le Langhe.
Posso dire di aver vissuto e provato sulla mia pelle quello che vuol dire essere un partigiano, prima con le brigate rosse di Garibaldi e successivamente con quelle azzurre di Badoglio (seguendo, fedele come un cagnolino*, gli spostamenti di Jhonny). Ho sperimentato tutte le fasi della guerriglia: "gli ozi forzati nei casali, le rapide imboscate, i rastrellamenti, le esecuzioni, i difficili rapporti con i contadini, l'euforia della presa di Alba e la malinconia per la sua perdita, il durissimo inverno '44 e il reimbadamento del 31 gennaio 1945", oltre che la complicità con gli altri partigiani (il tenente biondo, Pierre, Ettore) e l'ostilità per i nazifascisti. Ho rivalutato la personalità di Fenoglio, arrivando ad intenerirmi per la sua persona, timida e scontrosa ad un tempo, per la sua morte precoce (stroncato a 40 anni dal cancro) e per il suo "flaubertismo" nella perfezione della forma e del suo rifacimento (integrandovi un mix di italiano ed inglese che ha forgiato una nuova lingua.)
* A tal proposito mi voglio ricordare la cagna lupa della vecchia della Langa, amorevole bestiola che mi ha intenerito il cuore di dolcezza.
Una neolingua fatta di contaminazioni, di immagini, di personificazioni. Da leggere il saggio di Dante Isella riportato alla fine del libro. Altro che berlusconismo come dice la Gelmini, riportiamoci Fenoglio nelle scuole!
"E pensò che forse un partigiano sarebbe stato come lui ritto sull’ultima collina, guardando la città e pensando lo stesso di lui e della sua notizia, la sera del giorno della sua morte. Ecco l’importante: che ne restasse sempre uno".
Lettura impegnativa, affrontata dopo una visita lungo l'itinerario letterario dedicato al Partigiano Johnny, che si snoda da San Bovo di Castino a San Donato di Mango. Questo libro mi è piaciuto davvero molto, in particolare lo stile di Fenoglio, il suo modo di descrivere le colline e i sentimenti dei partigiani. Mi è spiaciuto leggere nella nota dell'editore che questa edizione è stata rimaneggiata, unendo le due redazioni precedenti. Spiace sapere che non conosceremo mai l'aspetto definitivo che Fenoglio aveva pensato per quest'opera. Un particolare interessante, la lingua: all'inizio la presenza dell'inglese mi disturbava, ma nella seconda parte diminuisce notevolmente e sono riuscita ad apprezzarla, trovandola anche più andata ad esprimere determinati concetti. Nonostante la mia lettura, che proseguiva a fatica e lentamente, ho apprezzato questo libro e la storia che ci racconta.
Sono estremamente grato al fato che mi ha fatto incontrare Fenoglio e la vicenda di Johnny partigiano nelle Langhe nevose del 1944. Per più di un motivo, ma in particolare per la sue dimensioni storica, personale e letteraria.
In primis dunque per l'ambientazione storica, perché non conoscevo molte delle cose descritte, e forse altri con me. Come la divisione tra partigiani Badogliani 'azzurri' sbandati con l'8 Settembre e comunisti 'rossi' in attesa delle truppe titine e sovietiche da est, e le mille sfumature che li distinguevano. O la vita delle comunità di montagna e dei contadini isolati, combattuti tra i due fuochi di aiutare la causa dei partigiani, pur in un contesto di assoluta povertà, e di non venire troppo coinvolti di fronte ai fascisti pagandone le conseguenze. E le mille altre componenti di un quotidiano complicato, come il supporto e rifornimento delle forze alleate o la mediazione super partes dei prelati nello scambio dei prigionieri e finanche il mondo fascista, con quelli interiormente consapevoli della situazione e quelli convinti della vittoria, comunque avversari e non macchiette. Un mondo articolato, non sempre raccontato privo di retorica come qui.
Poi, per il travaglio personale vissuto da quegli uomini. In un mondo di sofferenza solitaria, intima e mai trionfale, Fenoglio ha questa capacità di descrivere uomini e luoghi così umanamente veri, affamati e sanguinanti, maleodoranti e putrefatti, e coinvolgerci nei loro processi fisici e mentali e farci capire e partecipare ai dubbi, ma anche alle convinzioni. Il percorso partigiano nasce dall'esigenza imprescindibile di combattere infine per una causa giusta. Non si sa bene come, non si sa bene cosa, ma ci si avvia e si affrontano le conseguenze della proprie scelte. Che possono essere, e sono, penose e sofferte, tra ristrettezze non solo materiali ma anche sociali, per chi come lui contadino non è, e che invece arriva a sentire fratelli uomini umili, ma come lui determinati nelle proprie scelte. Uomini che per queste saranno disposti a morire, in un percorso che non è e non sarà mai di gloria, ma un percorso dovuto che andava fatto.
Infine, dulcis in fundo, sono assurdamente grato al fato di avermi fatto incontrare la scrittura di Fenoglio. Un festival della finezza narrativa e descrittiva di natura e sentimenti e anche azione, tra i fuochi di artificio senza fine di neologismi e anglicismi (servono 40 pagine a Dante Isella nel suo saggio per elencarne l'assortimento), sapori e odori, paesaggi vivi di albe e tramonti, emozioni. E la rivelazione che Fenoglio fece a Calvino di scrivere in inglese prima che in italiano non fa che aumentare la mia ammirazione. Un inglese affatto povero, anche per me che lo conosco per averci vissuto, un inglese che in tempi di guerra non poteva certo essere 'parlato', ma derivava direttamente dalle sue grandi letture. Il risultato di questa elaborazione e contaminazione è una lingua diversa, viva e mutante, che è 'sentita' prima che scritta e da noi interpretata, una lingua emozionante e unica. Strumento infinito per descrivere uomini e anime nel loro triste cammino.
"...Némega appariva come etilicamente eccitato, certo consumando un tradimento contro se stesso, un puritano di inibizioni lucide e folli, atabagico, sinalcolico, asimpaminico."
Giro l'ultima pagina del primo libro dopo molti anni sulla guerra partigiana: e devo dire che ho scelto un titolo importante per tornarci sopra, titolo la cui peraltro fama era una garanzia. Quello della guerra civile italiana del 43-45 (sì, è stata una guerra civile, anche se molti storici si arrampicano ancora oggi sugli specchi per cercare di negarlo, chissà perché) solo ora comincia ad essere oggetto di una rielaborazione storica. E' normale che sia così. Perché l'Italia democratica e repubblicana a cui tutti noi apparteniamo nasce volente o nolente da quella guerra.
Ecco allora che si possono leggere le opere di Fenoglio, di Carlo Levi, di mille altri non solo per rinfocolare il ricordo di quello che è stato e che troppi vorrebbero negare, per ribadire che sì, in quella guerra c'era chi aveva ragione e chi aveva torto, ma anche per finalmente cercare di capire cosa sia stata la guerra partigiana al livello della singola persona, del singolo contadino e che ruolo ha avuto nella guerra e nel fare l'Italia dopo di essa.
Johnny: personaggio strabiliante, dalla cultura in bilico tra quella italiana e quella britannica (facile immaginare quanto questo lo rendesse prezioso ai partigiani), decide di darsi alla macchia come mille altri sin dall' 8 settembre senza nessun tipo di formazione ideologica, che del resto un italiano così anglosassone non poteva avere. E qui sta la prima scoperta. La guerra partigiana non è stata una guerra ideologica, o comunque molto poco, comunque non nelle menti di chi quella guerra la faceva. Non lo è stata (ci mancherebbe altro) tra le brigate azzurre dei badogliani, ma neanche tra la maggioranza di quelle file garibaldine che sventolavano la bandiera rossa senza sapere bene neanche che cosa fosse, il comunismo, anzi molto spesso diffidando e temendo quel feroce indottrinamento.
Il partigiano fa la guerra per essere libero. Per non dover più obbedire ad un regime che lo ha tradito. Per non dover più lasciare la propria terra per andare a morire in capo al mondo, al servizio di un popolo di mostri, combattendo un nemico che non lo odiava e che non riusciva ad odiare. Se proprio l guerra è inevitabile, allora che si combatta per sé stesso, per la propria casa, vicino alla propria famiglia. Riflettendo, c'è qualcosa di profondamente italiano in tutto questo. Una sorta di riproporsi di quella Italia dei comuni, del campanile, libera di una libertà un po' anarchica, che schiacciata dal regime rialza violentemente la testa quando il regime mostra al mondo il suo fallimento da operetta.
E' una guerra sporca, quella che Beppe Fenoglio ci racconta tra le pagine di questo libro, ammesso e non concesso che siano mai esistite guerre pulite; una racconto che smentisce con ferocia tutta la retorica postbellica pur necessaria in quegli anni per cercare di ripulire la coscienza nazionale dal fango del vergognoso e sanguinoso esperimento fascista. Non ci sono ideali, non ci sono eroismi. Non c'è l'ammirazione degli alleati, che li aiutano il minimo e sembrano fidarsi ancora meno. Poche armi, cibo pochissimo, il partigiano medio prima che contro i fascisti lotta per sopravvivere. E la tragica cronaca dell' Inverno del 44 (nel quale non si è combattuto o quasi) sta lì a dimostrare come sia un atto si guerra assai più importante la coperta e la fetta i pane che gli immiseriti contadini della Langa si toglievano per darla ai sovversivi che non il colpo di moschetto piantato nella schiena del fascista rimasto indietro.
Perchè la cosa importante della Resistenza è che molto più che un fatto militare (sozzo ed antieroico come non mai), è stato un fatto profondamente politico. Politico perché ogni pastore, ogni contadino, persino ogni cane (bellissima la storia della cagna lupa delle Langhe!) non ha potuto tirarsi indietro e stare a guardare, ha dovuto scegliere. L'Italia, grazie alla ribellione ed al sacrificio di quei ventenni che volevano solo disobbedire, è stata chiamata a scegliere da che parte stare. E ha scelto la libertà. Questo di importante ha fatto la resistenza, più che sconfiggere i tedeschi che tanto gli alleati li avrebbero distrutti lo stesso. Ha consegnato ad una nazione in macerie un senso di appartenenza, una struttura politica ed una classe dirigente nuove di zecca che non avrebbero mai potuto esistere senza la guerra civile dopo 20 anni di fascismo, in sintesi un modo tutto nuovo di stare insieme.
E Johnny? Ed i suoi amici? Alla fine pagano quasi tutti il più terribile fio, spesso senza che fosse necessario. Loro che si sono dati alla rivoluzione non per spirito rivoluzionario ma perché stanchi di obbedire e per non morire lontano da casa, alla fine si sono trovati davanti al problema del senso. Perché a tante sofferenze, a tanta fame, a tanto pianto, a tante sigarette fumate la note sotto zero, bisogna dare un significato: ed alla ricerca di un significato Johnny si rifiuta di consegnarsi agli inglesi nel ruolo di interprete, ma si metta a capofitto contro i fascisti, in una morte che sembra inutile, ma che alla fine non lo è.
La scrittura di Fenoglio è una scrittura strana, forse poco adatta a quei tempi ed a quella gente. Barocca, ricca, grondante di avverbi ed aggettivi che sono arditissimi neologismi. In un romanzo che parla di masse contadine, focalizzato su una persona che oltretutto è imbevuta di cultura anglosassone (quanto di meno barocco sia apparso nella storia occidentale) devo dire che secondo me un po' stona. E' un personaggio un po' divaricato, il partigiano Johnny. Si fa fatica a vederlo come una figura a tutto tondo.
Tanti anni sono passati, tanta acqua passata sotto ai ponti del Tanaro. Oggi le Langhe ed il Monferrato non sono più quelli di Fenoglio, di Pavese, di Carlo Levi (quante meravigliose penne ci ha dato quella terra tormentata!). Oggi è terra ricca ed industriosa, la terra del Barolo, ma anche del Barbera d'Alba, del Ruchè di Castagnole Monferrato, del Nizza. Nomi storici, nomi che nella guerra civile sono sinonimo di guerra partigiana, sono diventati le DOC e le DOCG di vini tra i più pregiati d' Italia. Il che ci fa vedere quanta strada abbiamo fatto, quanto quella che è stata cronaca stia diventando storia.
Il che non ci autorizza affatto a smettere di leggerne, specialmente in anni in cui il fascio rialza la testa, in anni in cui si vede chiaramente quanta gente ha ancora il fascio nel cuore. Forse, c'è di nuovo una battaglia da combattere. Ma forse, potremo combatterla coi libri di Fenoglio, non cogli Sten.
Buona la lettura di Giorgio Marchesi, mai cadenzata o monocorde, che mostra un attento e brillante studio degli accenti e delle dizioni dialettali delle varie regioni italiane, da cui provengono diversi personaggi del romanzo. Molto interessante anche la postfazione della sorella di Beppe, Marisa, nella quale ci vengono raccontate le pesanti sofferenze del giovane ex partigiano, che lo condurranno ad una morte assai prematura.
A differenza degli altri romanzi che ho letto di Fenoglio, questo non mi ha preso fin da subito ma (probabilmente) l’inizio rispecchia proprio i sentimenti provati dei partigiani in quel momento: confusione, noia, fatica. I frequenti termini in inglese della prima parte, da un lato rendono la lettura poco scorrevole, dall’altra rendono il linguaggio molto attuale. Piano piano il romanzo si leggere con più facilità, i termini in inglese diminuiscono e la storia diventa più incalzante e vieni catapultato tra le colline, tra questi uomini che stanno combattendo per la libertà e ogni azione è potente e devastante. Fenoglio non mi delude mai e ad ogni lettura si rivela uno degli autori più sottovalutati del ‘900
Più che un libro, un'opera d'arte. Nel senso che è vero che qui troviamo, finalmente, una storia con il partigiano Johnny nel ruolo di protagonista (dopo aver fatto da semplice spettatore nella Primavera di Bellezza), ma tale storia è stata scritta con una stupefacente attenzione alla forma! Io che non me l'aspettavo minimamente, da amante delle lingue sono rimasto estasiato di fronte all'uso, inedito, della lingua inglese nel romanzo, oltre alle numerose commissioni tra le due lingue. Participi presenti ogni dove, inversioni aggettivo-sostantivo, costruzioni inglesi con frasi in italiano... per un linguista è un paradiso! La storia in sé è interessante senza eccellere: è più simile ad una narrazione dei fatti, senza una vera e propria trama a fare da filo conduttore. Resta affascinante la cura con cui il partigiano Fenoglio racconta le dinamiche della Resistenza.
Una vita breve quella di Beppe Fenoglio (1922-1963), lo scrittore delle Langhe, riservato e un po' scontroso-dicono-, visse sempre nella sua terra e concentrò tutte le sue opere sulla realtà delle Langhe e sulle vicende della Resistenza: ciò di cui ebbe esperienza diretta.
Sono le tematiche del neorealismo degli anni 30-50 del sec. scorso, il clima generale in cui si riconoscono gli artisti dopo la guerra, la lotta di liberazione, la caduta del fascismo.
Il suo Johnny tuttavia non è mai un eroe della Resistenza; anzi egli non trova un significato a quanto è avvenuto: si può ricavare la visione di un futuro dall'orrore? No, dall'orrore J. ricava solo la testimonianza della testarda resistenza umana. J. è un intellettuale, studioso della civiltà inglese: dopo l'8 settembre è incapace di restare nascosto come vorrebbe la famiglia e "partì verso le somme colline...ad opporsi in ogni modo al fascismo". Quale sia la parte giusta è chiaro a J. benché non sia comunista e avverta tutto lo "stacco di classe", innegabile, tra sé e i compagni rossi. La battaglia "terribile, bastante" li rende comunque fratelli, ognuno con la sua origine.
Il fatto è che la Resistenza è una prova totale, una guerra esistenziale più che politica, e richiede la totale adesione degli uomini. Coi badogliani, cui in seguito aderisce, J. ha un "comune linguaggio esteriore"; sono liberali e conservatori, ma l'antifascismo "assoluto, integrale" è lo stesso dei compagni. Le pagine bellissime della presa di Alba, la città di J., e della sua ricaduta in mani fasciste hanno tono epico, non perché raccontino di eroi ma per l'oggettiva e perfetta descrizione dei luoghi, delle persone, della fatica, del vento e della pioggia ("nata grossa e pesante, inesauribile"), dei contadini delle Langhe, della solitudine di J. che sopravvive, quasi l'unico, bestia in fuga.
"Li hanno uccisi. Io sono vivo. Ma sono vivo? Sono solo, solo, solo... Enough, today I've had enough": la lingua di B.F. accoglie intere frasi inglesi e tanti neologismi ma, ed è la sua unicità, è sempre verosimile, vicina al parlato, espressiva, quasi violenta, ma poetica ed evocativa. Un capolavoro.
Ho fatto parecchia difficoltà all'inizio, a causa della varietà linguistica di Fenoglio, molto personale. Anche l'uso dell'inglese spezzava il ritmo del libro, che inizia con calma, si prende il suo tempo. Il romanzo va letto con pazienza, perché incompiuto, una sorta di miscuglio tra due bozze, e le cose meno rifinite sono sempre più complesse. Si viene ripagati dalle ultime 150 pagine, di un'intensità incredibile, di un inverno infinito e solitario in cui tutto può finire da un momento all'altro. I partigiani piemontesi di questo romanzo di Fenoglio ("badogliani" o "azzurri" indipendenti, non legati al comunismo né ad altri movimenti politici) non sono vincitori, o almeno non lo sono nel momento in cui il libro si interrompe, in un istante che ha comunque il sapore di un finale. Sono dei ragazzi che credono in un ideale, ma che lo soffrono e che cadono mentre la primavera tarda ad arrivare, e molti non la vedranno mai. Che confidano negli alleati mentre le tattiche scelte dai loro capi hanno l'aria del suicidio già scritto. Che quando hanno la possibilità di tirarsene fuori per evitare un destino a volte scontato e consapevole, non lo fanno e continuano a combattere i fascisti. E per questo li ringrazio.
"Il Partigiano Johnny" è uno dei romanzi più emblematici della letteratura italiana del secondo dopoguerra. Attraverso gli occhi di un giovane studente appassionato di letteratura inglese, Fenoglio racconta l’esperienza partigiana con una crudezza lontana dalla retorica eroica spesso associata a questo periodo.
La narrazione, volutamente frammentaria e disorganica, riflette il caos della guerra e la difficoltà di trovare un senso in un mondo lacerato dal conflitto. Le scene si susseguono come fotogrammi, senza filtri né rassicurazioni, e il linguaggio, asciutto e brutale, immerge il lettore nell’esperienza del protagonista.
Uno degli elementi più affascinanti del romanzo, secondo me, è proprio la sua lingua: Fenoglio mescola italiano e inglese in modo sperimentale, creando un effetto di straniamento che amplifica la condizione di Johnny, combattuto tra il bisogno di agire e l’incapacità di trovare una reale appartenenza.
"I’m in the wrong sector of the right side”
Johnny è un personaggio complesso, anglofilo, colto, eppure mai del tutto adatto alla Resistenza così com'è vissuta dai suoi compagni. La sua crescita non è un’ascesa eroica, ma un lento e doloroso adattamento alla brutalità della guerra. Inizialmente legato ai partigiani comunisti, si distacca per divergenze politiche e per la morte di Tito, unico compagno con cui aveva condiviso un profondo senso della lotta. Si unisce poi ai badogliani, guidato dal carismatico partigiano Nord, trovando legami significativi con Pierre ed Ettore.
Dopo la breve vittoria e la successiva perdita di Alba, Johnny affronta un inverno di rastrellamenti e fughe, vivendo un'esistenza fatta di solitudine e privazioni, mentre la sua determinazione resta incrollabile, anche se la disillusione cresce.
"E pensò che forse un partigiano sarebbe stato come lui ritto sull'ultima collina, guardando la città e pensando lo stesso di lui e della sua notizia, la sera del giorno della sua morte. Ecco l'importante: che ne restasse sempre uno."
L’onestà spietata di Fenoglio è ciò che rende questo romanzo un capolavoro. Non idealizza la Resistenza, ma la mostra nella sua realtà più dura: disorganizzata, divisa, estenuante. E poi c’è la scelta finale di Johnny: un gesto di fedeltà assoluta alla lotta, che non cambierà le sorti della guerra, ma che rappresenta il suo personale atto di coerenza. Il 31 gennaio 1945, durante un attacco nazifascista, e pur avendo la possibilità di raggiungere il suo comandante e incontrare gli ufficiali inglesi, Johnny sceglie di restare e combattere fino all’ultimo.
Il finale, brusco e spietato, è un colpo da maestro di Fenoglio. Non offre chiusure rassicuranti, non concede redenzione: è la storia del singolo partigiano, non la Storia.
"Si alzò col fucile di Tarzan ed il semiautomatico… Due mesi dopo la guerra era finita."
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Ogni buona recensione che si rispetti inizia con la presentazione del libro di cui si vuole parlare, e qua già trovo il primo inghippo. Ho letto il libro nella versione di Dante Isella e ho appreso solo dopo - ci sono grandi lacune nella mia formazione - la sua travagliata storia editoriale. È curioso scrivere le proprie impressioni su un’opera che forse non è venuta alla luce secondo la volontà dell’autore, forse dovrei aspettare e leggere anche altro (Primavera di bellezza, almeno), ma quando ho ripensato ai libri letti a gennaio di cui sarebbe davvero valsa la pena parlare questo è il primo che mi è venuto in mente. Quando il libro esce nel 1968 è un grande successo, probabilmente per il clima che si stava respirando in Europa. Era tempo, di nuovo, di fare grandi scelte, come quella di Johnny dopo l’8 settembre del 1943, quando per lui e per tanti altri italiani ed italiane è arrivato il momento di decidere in maniera netta da che parte stare. Sono scelte esistenziali, queste, che ancora ci riguardano, e credo che questo renda il libro ancora popolare, resistente al tempo, nonostante non sia scritto in una prosa immediata e facilmente fruibile.
È un libro di cui credo ci sia un gran bisogno oggi, perché mostra le diverse forme di Resistenza, anzi, le Resistenze diverse: filomonarchica, comunista, liberale, democristiana… Antifasciste, tutte, per questioni morali, in primis. Essere antifascisti è una scelta morale, un sentire, prima ancora che una questione. Una sorta di missione, quella eroica che Jhonny si trova a dover compiere e che porta avanti fino in fondo, anche quando le scene non sono eroiche per niente, come nell’ultimo inverno prima della fine, quando ci si trascina e si cerca di sopravvivere.
Provo per questo ragazzo e per il suo cammino di formazione un affetto sconfinato. Ho sofferto con lui, con i suoi amici. Ho fatto tanta fatica con la sua lingua, al punto che ho letto brani interi ad alta voce, perché in silenzio la mia mente vagava. Non mi è dispiaciuto dovermi sfidare così, avvantaggiata dai primi giorni di gennaio, quando non lavoro. Sento il bisogno, in queste fasi di corse continue, di informazioni frammentarie (a quante newsletter sono abbonata? Quanti video guardo ogni giorno, sulle questioni più disparate? Quanti podcast ascolto?) di fermarmi, assimilare, avere tempi lenti. Mi va bene fare fatica quando leggo, se il premio è un’immagine che non riesco a scordare. Non credo avrei potuto iniziare il 2024 in maniera migliore.