Fedra e Medea rappresentano due figure titaniche e universali, due esempi tenebrosi della perversione a cui può condurre la sconfitta della ragione. Ferite da un amore non corrisposto, consumano il loro dramma in una solitudine angosciosa: Medea, madre assassina dei figli, incarna la devastazione dell'ira, che stravolge persino l'istinto materno; Fedra, piegata da un amore contro natura, lotta fino all'annientamento finale contro gli impulsi di una passione lacerante e implacabile. In queste tragedie, fosche e profondamente cupe, Seneca esplora le pieghe più oscure dell'animo umano con una sapienza psicologica fino ad allora sconosciuta. La traduzione di Alfonso Traina ci restituisce il fascino artistico e culturale di questi due capolavori, a cui fa da guida la magistrale introduzione di Giuseppe Gilberto Biondi.
Lucius Annaeus Seneca (often known simply as Seneca or Seneca the Younger); ca. 4 BC – 65 AD) was a Roman Stoic philosopher, statesman, and dramatist of the Silver Age of Latin literature. He was tutor and later advisor to emperor Nero, who later forced him to commit suicide for alleged complicity in the Pisonian conspiracy to have him assassinated.
Di Seneca conoscevo il lato più riflessivo, quello legato alla filosofia stoica e ai suoi trattati in prosa che ho conosciuto al liceo. Qui invece ho scoperto il lato più umano delle sue opere, la forza delle emozioni umane e della contrapposizione tra logos e alogos, l'entrata in gioco del furor nelle questioni dei mortali. Assolutamente affascinante.
Mi scuso se la recensione potrà sembrare un agglomerato di incisi, ma gli elementi da analizzare, soprattutto in rapporto l’uno all’altro, sono molteplici e ho sacrificato la chiarezza per la completezza.
Mi vergogno ad ammettere che ho dovuto attendere il mio esame di Lingua e Letteratura Latina Due per leggere questi capolavori del Seneca tragico: “Medea” e “Fedra” sono due tragedie che, al di là delle somiglianze e dei richiami stilistico-filosofici bene o male comuni, sono dominate da due protagoniste del tutto diverse: l’una, Medea, s’inserisce nel contesto di “nefas” cosmico determinato dall’impresa argonautica ed è ella stessa un “nefas”, colpevole nelle sue azioni da ogni punto di vista; l’altra, Fedra, è giustificata dalla sua consapevolezza della colpa e dall’impossibilità di controllare ciò che prova, esemplificate, oltre che dall’idea di “àlogon” (“assurdo”), dagli emblematici versi 604-605 del dramma che porta il suo nome (“[…] hoc quod volo – me nolle” // “che io non voglio ciò che voglio”).
Ho spesso sentito dire che la “Medea” di Seneca, rispetto a quella euripidea, è piatta: non mi sento di condividere questa opinione, perché un personaggio, pur non avendo un’evoluzione precisa nell’arco del dramma, non può essere definito “piatto” solo per la sua insistenza in un determinato sentimento (nel caso di Medea, l’odio). Il conflitto interno è meno presente, è vero, ma non per questo meno reale: il richiamo del “thymòs” – il sentimento irrazionale che, come sottolineato in un celeberrimo distico (vv. 1079-1080) del dramma euripideo, supera le sue volontà razionali (“bouleumata”) e la spinge all’infanticidio –, simile al latino “fumus” (l’ambiente fumoso e caldo intorno al cuore) e tradotto come “anima”, “cuore” (sia come organo che come sede di sentimenti) e “passione”, è testimoniato a più riprese dal vocativo “anime” (“cuore” e “animo”, sinonimo di “thymòs”), appellato ben cinque volte all’interno del dramma. Esso vive, indugia, tituba, agisce e, ancora, temporeggia: è consapevole della nefandezza orrorifica delle sue intenzioni, ma non può più attendere, non può essere debole nei confronti dell’”adikìa” (“ingiustizia”) di Giasone, il quale appare, nella visione senecana, “giustificato” rispetto al tradimento dei patti più volte rivendicato da Medea.
I personaggi s’inseriscono perfettamente nella concezione stoica del sopracitato “nefas” cosmico, che ha inizio con la spedizione degli Argonauti e che viene legato a una dimensione bellica “totale” – sottilissimo e finissimo, al v. 622, il collegamento di Tifi, tradizionalmente re di Tespie (Beozia), ma qui indicato come re di Aulide (sempre in Beozia), città da cui sarebbe poi partita la spedizione per un’altra guerra, la guerra di Troia. L’idea di “nefas” legato alla vicenda argonautica, esasperato rispetto alla tragedia euripidea – molto più spesso che lì, Medea rievoca gli assassinii che ha commesso per altri (quelli di Absirto e Pelia su tutti), rivendicando per sé quelli che commetterà poi nel dramma ai danni di Creusa e dei figli – pervade dall’inizio alla fine la dimensione cletica e il suo rapporto col divino, in una sorta di “ringkomposition” (“composizione ad anello”) non difficile da cogliere. Difatti, il prologo che apre il dramma è un vero e proprio inno della protagonista nei confronti di divinità infernali che possono sostenerla nelle sue imprese, mentre la conclusione sentenziosa, affidata a Giasone, sottolinea come, ovunque vi sia Medea nel cielo – luogo delle divinità supere e, quindi, celesti, contrapposte a quelle infernali – non vi sono dèi (vv. 1026-1027: “Per alta vade spatia sublime aetheris, // testare nullos esse, qua veheris, deos” – “Avanza per gli eccelsi spazi e l’alta regione dell’etere // testimonia che, dove voli, non vi sono dèi”).
Ma ancor più della “Medea” senecana, che spicca per uno stile brachilogico, sentenzioso, concettoso e, in una terminologia sin troppo contemporanea, iconico – mi vergogno per l’uso questo aggettivo ma rende benissimo la mia idea su alcune frasi pronunciate dalla protagonista –, mi ha rapito “Fedra”, perché la concezione stoica si scontra all’interno di uno dei personaggi femminili più affascinanti del dramma antico, facendo rivivere nella sua personalità contrastante un conflitto tragico che va oltre quello che la contrappone a Teseo, il marito legittimo, e ancor di più a Ippolito, suo figliastro. All’interno della delicata figura di Fedra, discendente da una stirpe maledetta – lei, proprio come Medea, vanta un’ascendenza invidiabile (nonno di entrambe è il Sole), ma non ha come genitore un potentissimo re esperto di arti magiche, bensì una madre, Pasifae (rievocata continuamente proprio a ricordarle la sua colpa), la cui lascivia la condusse ad amare un toro – si annida un conflitto fra lussuria, desiderio, schifo nei riguardi dello stesso, invidia (nei riguardi di Antiope, silvestre madre di Ippolito, e di Piritoo, cui Teseo rivolge il proprio amore molto più che a lei, legittima consorte) e una profonda infelicità derivante da una profondissima solitudine. La solitudine interiore di Fedra, circondata da una nutrice ambivalente – da un lato, ella rappresenta la razionalità stoica, dall’altro, è emblema di tutte le figure che farebbero di tutto pur di compiacere il proprio padrone – e da vuote ancelle, è involontaria, ed è lo specchio della solitudine, invece, fortemente volontaria di Ippolito, il quale rifiuta ogni compagnia e odia il genere femminile, foriero di ogni male – basterebbe il solo esempio di Medea a catalogare tutta la razza femminile come razza funesta (“dirum genus”, v. 564), dice a un certo punto.
“Fedra” è un dramma che vede lo scontro di dimensioni inter e intrapersonali di per sé contrapposte: non è solo il maschile che si oppone al femminile, ma è una lotta completa di maschio contro maschio (la maschilità di Teseo, lussurioso tanto con le donne quanto con gli uomini, è contrapposta a quella del figlio Ippolito, puro e vergine) e femmina contro femmina (la femminilità di Fedra, così simile a quella della madre Pasifae nei loro desideri proibiti ed entrambe espressione dell’”àlogon”, eppur diversa, perché le giustificazioni addotte a Pasifae sono impossibili da attribuire a Fedra, è contrapposta a quella della silvestre Antiope, madre di Ippolito, cui lei vorrebbe assomigliare per essere gradita al figliastro). Tutte le dimensioni dell’animo umano, da quelle più razionali fino a quelle più ferine – che vedono, in una “climax”, il susseguirsi dello stoicismo della nutrice, il discorso di Teseo, la dogmaticità di Ippolito, il dilaniamento di Fedra e l’esempio bestiale di Pasifae – sono magistralmente rappresentate da Seneca, il quale, in uno stile meno sentenzioso ma ancor più affilato della “Medea”, fa della parola un vero e proprio “instrumentum scaenicum” (“strumento scenico”), caricandola di capacità tanto evocative quanto icastiche.
Conosco molto bene, (ed amo) la Medea di Euripide, provenendo io da un liceo Classico, ma non avevo mai letto la versione di Seneca. Sicuramente si tratta di due tragedie che narrano storie molto forti, ma che io trovo sempre stupende. Ho particolarmente adorato il dialogo tra Medea e la nutrice, e la descrizione dell'innamoramento di Fedra, perchè mi ha molto ricordato la descrizione dei sentimenti della Didone di Virgilio. Effettivamente, spesso ci sono similitudini tra Medea/Fedra e Didone, nel corso delle due tragedie.
"E gli occhi, che avevano un riflesso del sole, non hanno più di una scintilla di quel fuoco ancestrale. Le lacrime rigano il volto e un pianto continuo irrora le guance, come [...] le nevi si fondono sotto una tiepida pioggia" - Fedra
Medea me la mandan a leer casi todos los semestre. Fedra la leí por primera vez y me fascino, el desmembramiento, lo carnal siendo despedazado y la ansiedad por reconstruir lo efímero, retando a la belleza.
Although I still like better Euripides' Medea, I felt like Seneca really did a great job at describing the fury and the rage of this abandoned woman who reclaims the right of being feminine, despite being a witch and foreign. Fedra's story is always so deep and haunting and her passionate love is fierce and violent.
Fedra: «Voi tutti, celesti, siate testimoni che io non voglio ciò che voglio.» […] «Lieve è il dolore che parla, il grande è muto»
Fedra e Medea sono le due facce di una stessa medaglia. Sono due donne consumate dal “furor” senecano, dalla passione smodata e, a modo loro, entrambe soccombono ai propri umani eccessi.
Se Medea, infatti, nell’accecamento della furia per il tradimento di Giasone rinuncia al suo ruolo di madre (uccidendo i propri figli); la regina Fedra, vittima di una passione incestuosa per il figliastro Ippolito, sacrifica a questa passione la vita stessa.
Fedra non vuole ciò che vuole. Medea sì, Medea è consapevole di ciò che è diventata, nonostante l’animo della donna oscilli tra risoluzione e pentimento per tutta la tragedia, alla fine giunge alla presa di coscienza finale: «Medea nunc sum».
«Ora sono Medea, il mio io è maturato nel male»
Opere nate più per le declamazioni che per la messa in scena, queste due tragedie senecane, scritte dal filosofo per indottrinare Nerone sugli effetti nefasti del “furor”, sono quanto di più bello il teatro latino ci abbia lasciato.