Su una collina, in un castello trasformato in un istituto psichiatrico, i malati sono curati dal dottor Anselmo come persone che hanno smarrito, spesso solo temporaneamente, la luce dell’intelligenza, ma non quella dei sentimenti, che rimangono intatti e riaffiorano non appena il delirio cessa di suscitare le proprie immagini irreali, potenti e devastatrici. In questo libro Mario Tobino ha saputo trasfigurare la propria esperienza di psichiatra in un intenso discorso umano e artistico sorretto da una vibrazione lirica che dona lievità e mobilità inconfondibili al suo stile. Attraverso un’adesione partecipe e disarmata alla realtà, un arrendersi alle cose superando qualsiasi diaframma tra medico e paziente, Tobino annulla la distanza tra lo scrittore e la sua materia, nella ricerca e nella conquista di un’umanità assolutamente vera e autentica.
Mario Tobino was an Italian poet, writer and psychiatrist. A prolific writer, he began as a poet but later wrote mostly novels. His works are characterized by a strong autobiographical inspiration, and usually deal with social and psychological themes.
Peccato per la copertina, Mirò non è tra i miei preferiti. E invece il titolo, che meraviglia, è già di per sé una poesia fatta e finita. Questo titolo nasce dalla consuetudine (suppongo tutta italiana) di ubicare gli ospedali psichiatrici in edifici anticamente adibiti a conventi e/o monasteri: non fa eccezione quello enorme che si trova nel paese dove sono nata, e nemmeno il manicomio di Lucca dove è ambientato il libro. E così l'atmosfera che si respira durante gli spostamenti del protagonista da un reparto all'altro, finisce per sembrare quella de Il Signore degli Anelli:
"Lungo i secoli sulla cima del colle di Fregionaia si è formato un asserragliamento di muri, un intersecarsi di portici, fughe di corridoi…"; "L'ospedale ha anditi, ombre medievali, spesse mura"; "L'ospedale ha ancora voci, ombre, anfratti, freschi angoli del convento. Per giungere al reparto n. 2 vi sono gradini ripidi, color tabacco friato, incassati tra due muraglie, come conducessero alla clausura. E un dopopranzo scendeva Anselmo le antiche scale quando da un lungo corridoio… "; "Volava lo sguardo del dottor Anselmo scendendo i tre gradini che introducevano al reparto n. 3"; "Si accendevano le lampade elettriche, si risalivano le scale verso i dormitori, in fila"; "…e prese la via del reparto n. 9, doveva fare visita anche a quello. Per arrivarci doveva scendere un lungo scalone; poi il corridoio giallognolo, di solito sempre deserto."; "il dottore si avviò con lei per i profondi scaloni"; "Anselmo attraversa anditi, androni, voragini di scale. Gira a destra, c'è la fuga delle celle; passa davanti a quella dove la Duranti si impiccò."; "E le sere che il dottor Anselmo restava in manicomio - risolto il breve pasto - si infilava il camice, apriva la grande porta, batteva i passi lungo il colonnato che fu una volta dei frati, ed era sulla via del bar, posto laggiù in fondo, tra le mura del reparto una volta chiamato 'agli Agitati' ".
Questa opera è la perfetta metà via tra il romanzo e la raccolta di racconti: i vari brani hanno protagonisti diversi e sono ambientati in epoche diverse a cavallo tra i ventennio e gli anni sessanta, ma hanno tutti in comune l'ambientazione - il manicomio di Lucca, appunto - e il personaggio che funge da guida per il lettore: quello stesso dottor Anselmo con cui già ho potuto fare conoscenza ne Il clandestino, e che altri non è se non l'alter ego dell'autore. Ma soprattutto, l'ordine in cui vengono proposti i pezzi consente al lettore di addentrarsi poco a poco nell'ambiente dell'ospedale psichiatrico: sono singoli episodi, ma tutti messi insieme hanno la sistematicità della trama di un romanzo.
Che squisita persona doveva essere Tobino: un medico raro, che sapeva scrivere così bene, e con tali sensibilità e capacità di osservazione, un'eccezione all'accolita di stregoni cattolici, come li chiama Bianciardi. Non una fredda cronaca, non cartelle cliniche ma voci e atmosfere, tentativi di cogliere il significato vero del mistero che si nasconde dietro la mente umana, e l'illuminazione nello scoprire che se le parole pronunciate sono sconnesse, possono non esserlo il tono e il timbro delle voci e la luce negli occhi. "Per i giovani la follia è solo un misfatto della società, frutto di storte leggi, non una solenne misteriosa tragedia"; "Pare al dottore, per merito della Sercambi, di saperne un poco di più sulla follia: anch'essa assetata d'amore"; "la follia un invincibile drago"; "Però con la pazzia c'è sempre da temere. All'improvviso può battere le ali da pipistrello".
Dopo tanti anni trascorsi come medico, emerge forte il suo desiderio di trattare questi pazienti come esseri umani, di essere innanzi tutto loro amico, "frequentarli con franchezza, da pari a pari". Potrà sembrare giusto o sbagliato, perché qualche volta un medico necessita di un certo distacco, comunque per quanto concerne questa lettura ho apprezzato tale presa di posizione di grande umanità.
Dunque 4 stelle per la sensibilità, la comprensione e la poesia. Sarebbe qualcosina di meno per il realismo: l'aspetto carcerario dei manicomi rimane parecchio in ombra, sappiamo che sono stati luoghi di indicibili torture ma in questi racconti esse non emergono se non molto vagamente, ci sono le angosce psicologiche ma mancano quasi del tutto quelle psicofisiche o meramente fisiche. È pur vero che questa vuole essere un'opera letteraria, non un saggio né un testo scientifico, e quindi sta al lettore cercare di comprendere la scelta, compiuta dell'autore, di trattare un solo aspetto (quello più poetico) di un grande tema che eventualmente potrà richiedere ulteriori approfondimenti.
Psichiatra di professione, Tobino riversa in questo romanzo - del 1972 - la sua lunga esperienza. In questi due passi coglie il cambio di atteggiamento - il prima e il dopo - nei confronti del malato di mente:
“A quel tempo la follia non era ovattata, dissimulata, intontita, mascherata, camuffata come oggi con gli psicofarmaci. La follia esplodeva uguale a un vulcano. Nei cameroni - nudi o malamente coperti da una camicia sdrucita - urlavano i matti, in parte legati con le cinghie ai braccioli del letto. Le risse tra loro frequenti, le aggressioni agli infermieri giornaliere. Le pareti squallide, color dell'osso morto; i tavoli inchiodati al pavimento; le finestre con le sbarre, le porte chiuse a tre mandate. Nel silenzio della notte arrivavano i lamenti, le sorde imprecazioni, i suoni di bestiale disperazione.”
“Gli anni trascorrono. I manicomi, da secoli bui e immobili, castelli impenetrabili, aprono spiragli, inferriate si sminuzzano come denti marci, pareti crollano giù. Sono arrivati nuovi medicamenti e insieme la fiducia, la speranza, un corteo di nuovi metodi, soffi, venti di libertà.”
Mario Tobino è “ Umano, troppo umano “ nel partecipare e raccontare una realtà disarmata, superando il canonico rapporto medico-paziente, in un periodo storico cruciale: l’abolizione dei manicomi, l’avvento della legge Basaglia.
La narrazione si fa “strumento della voce umana” (J. Cocteau) grazie ad una prosa lirica, fascinosa, delicata. Tutto nell’autore tende alla comprensione; il suo sguardo profondo attraversa e dimentica il mero caso clinico, sempre spinto a “ combattere questa malattia, trovando una cura “. Anche se qui, non è un dovere, ma una missione.
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La scrittura di Tobino è particolare, le frasi asciutte, a volte contorte; il libro è però pieno di personaggi straordinari, di grande, dolente umanità. Indimenticabile il Buonaccorsi, Cherubino, la Guelfi che per quarant'anni di lavoro gratuitamente prestato ottiene la generosa ricompensa di non avere neppure una tomba, e finire sezionata sul tavolo anatomico dell'Università, destino dei più poveri, dei più miserabili. Nonostante il tema sia crudo e doloroso, Tobino sa descrivere i pazzi con delicatezza e leggerezza, umanità e calore, come fossero angeli perduti nella loro follia. Interessante l'idea che tutto il male sia nella mente, e che la pazzia non provenga mai dai sentimenti, che restano puri.
Il giovane Tobino è un irrequieto, inizia il ginnasio a Viareggio e poi viene espulso dal liceo di Pistoia. Si autoinfligge la segregazione per placare la propria esuberanza. Ho intuito che questo è il tema implicito di questo libro stupendo, sapientemente celato dietro le storie di pazienti o medici, ospiti dell’ospedale psichiatrico. Lui stesso, da psichiatra e direttore, ha vissuto più di trent’anni, volontariamente recluso, in questo manicomio immerso nella campagna lucchese. I protagonisti delle sue storie sono però pura invenzione, lo dice alla fine. La scrittura è un italiano d’antan molto pulito, corretto e rispettoso, anche grammaticalmente. E in un momento in cui tutti sembrano fare a gara di inglesismi a me sinceramente piace, piace moltissimo. Le storie sono collegate dal dottor Anselmo, lo psichiatra in servizio presso la struttura ospedaliera, nel ricomporre i trascorsi del primario vissuto là nei primi anni del ‘900. Tanto competente ed efficiente, quanto schivo, a causa della psicosi della sorella, ospite dello stesso manicomio, aveva rinunciato a farsi una famiglia ma si concedeva alle mogli dei suoi colleghi. Era vera leggenda che si muoveva per quelle stanze. Ho iniziato a leggere questo libro invogliata dall’ambientazione. Conosco ormai piuttosto bene la Toscana e la sua stupenda campagna. Mentre leggevo l’immaginazione si arrampicava sui ricordi. Ma mi aveva incuriosito anche il tema. Mi ha riportato alla memoria una stupenda mostra itinerante curata da Vittorio Sgarbi. La visitai a Saló nell’aprile del 2017 e si è fermata proprio a Lucca due anni dopo. Contiene una moltitudine di opere tra sculture, dipinti e fotografie, sapientemente raccolte, collegate alla follia. Una stanza intera è dedicata ai dipinti di Ligabue, che ho ammirato fino alle lacrime, non scherzo, perché è un caso emblematico. Vedete? Ho iniziato a parlare di un libro e mi ritrovo a ricordare una mostra d’arte. Forse perché ogni espressione del genio artistico e follia sono spesso due facce della stessa medaglia.
Tobino, scrittore di rara sensibilità, crea un romanzo in parte ispirato alla sua professione di psichiatra, sebbene ci tenga a precisare che trattasi di storie e personaggi inventati: evidente è però il debito contratto col proprio vissuto, per quanto trasfigurato, nel raccontare il difficile rapporto con un'umanità "altra", spesso al di là delle nostre possibilità di comunicazione e rapporto. Tobino ha sempre parole riguardose e dolci per i malati, così come delicate e poetiche sono le descrizioni che ne restituisce. Pesa purtroppo sul libro la militanza teorica dell’autore, che si ostina a considerare la follia unicamente come malattia dell’intelletto e non degli affetti. Sono curioso di leggere, sempre in tema, “Le libere donne di Magliano”.
Storie di ordinaria follia "Uno schizofrenico, chi lo intende?" Lo scrittore-psichiatra Mario Tobino ci racconta 20 storie di vita quotidiana nel manicomio, affermando alla fine che non sono mai avvenute e le persone mai esistite. Visto che ha lavorato tutta la sua vita in un manicomio si fa fatica a crederlo ma comunque, che le storie siano vere o meno, esse sono un tentativo di penetrare nel mistero della follia, di darle un senso, di umanizzare il manicomio. Tuttavia, per quanto l'autore riesca a dipingerli in modo rispondente alla realtà in cui si trova a vivere giorno dopo giorno, qualcosa continua a sfuggire e a rimanere imperscrutabile: " In certi momenti mi illudo di sfiorare la verità. Basterebbe ancora un poco. Poi di nuovo buio, e ancora buio."
dalle camicie di forza e le cinghie di contenzione ai malati che prestano servizio in manicomio o addirittura gestiscono il bar interno dove si va a parlare dei bei tempi, l'esercizio della psichiatria è cambiato parecchio dagli anni 30 agli anni 70 o giù di lì. tobino racconta la vita in manicomio, avendola vissuta, attraverso le storie dei pazienti - brevi accenni, un po' di poesia, il dottor anselmo come fil rouge. la sensazione che lo psichiatra brancolasse nel buio e che la scoperta del fuoco fosse di là da venire non mi ha mai abbandonata, e ho patito un po' il linguaggio dell'autore che non mi si confà. insomma questo grande classico l'ho letto ma senza entusiasmo.
Con uno stile di scrittura scorrevole e con una vibrazione lirica , l' autore ci trasporta all' interno del concetto stesso di pazzia narrandoci le storie dei suoi protagonisti. Tra i personaggi, molto ben caratterizzati, spicca la figura del dott.Anselmo che dedica la sua vita ai suoi malati per più di trent'anni. Sua è la convinzione che la psicosi riguarda solo l' intelletto e non i sentimenti che invece rimangono puri ed inviolati sebbene prigionieri della malattia mentale. Libro capace di fare riflettere sul confine tra normalità e pazzia. È veramente così netto?
Premio Campiello 1972 L'autore, psichiatra di professione, presenta in questo libro molti personaggi e le loro tristi storie. Lo fa con toccante delicatezza anche se nessuno di essi è veramente esistito. Ci porta dentro un mondo celato ai più e doloroso che fu dimora definitiva per molte anime perse, il manicomio. Merita di essere letto.
Libro interessante e particolare, una raccolta di racconti ambientati all'interno di un manicomio. Veloce da leggere e molto scorrevole, ha un non so che di Oliver Sacks.