Ci sono incubi che si travestono da sogni e quando poi ti accorgi dell'inganno è troppo tardi. E non puoi farci niente. Il 29 maggio 1985, allo stadio Heysel di Bruxelles, è un pomeriggio di luce e bandiere che sembra scandire alla perfezione il conto alla rovescia prima della finale di Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool, la partita delle partite. Emilio ha diciotto anni e ce l'ha fatta: è lì, con il biglietto per entrare allo stadio, insieme all'amico di una vita, Giampiero. Oltre all'eccitazione e all'entusiasmo porta con sé un piccolo registratore e una cinepresa super 8, perché ha già deciso che da grande farà il giornalista. Nello stadio, tra canti e battiti di mani, c'è una chimica speciale che assomiglia a un incantesimo. «Bastò un click sull'interruttore a far svanire il calore di quel sole. A precipitarci nel gelo. Mani che di colpo ora servivano a proteggersi. Canti tramutati in urla. E bocche spalancate, nel settore Z, come respiratori d'emergenza. La curva, un girone dell'inferno. Poi il silenzio.» Emilio Targia, sopravvissuto all'incubo di quella notte all'Heysel, racconta ciò che ha visto, che ha sentito, i suoi ricordi, fissati anche su una pellicola e su un nastro magnetico, e prova a sciogliere nell'inchiostro memoria, rabbia, dolore e paura. Per non dimenticare. Perché senza memoria saremmo luci spente.
Ricordo quella sera, ero piccola, ma ricordo bene lo shock, la paura, il dolore. Poi sono cresciuta, sono passata oltre e finché non ho trovato questo libro, ho commesso il più grave degli atti in questi casi: ho scordato. Il libro narra quanto avvenuto, presenta chi è morto in quella circostanza, liberando ciascuno dal generico ruolo di vittima, parola che rischia di depersonalizzare. Erano persone, con una vita, dei sogni. E lancia un appello: ricordare per evitare per sempre che una strage causata da vari colpevoli venga ritenuta al pari una tragedia dovuta al fato. Rispetto per chi c'era. Vergogna per chi ha causato tutto ciò.