Paolo vive vergognandosi dei propri sentimenti: ama un altro uomo, ma non lo sa nessuno. Ogni lunedì mente ai suoi colleghi che puntualmente gli chiedPaolo vive vergognandosi dei propri sentimenti: ama un altro uomo, ma non lo sa nessuno. Ogni lunedì mente ai suoi colleghi che puntualmente gli chiedono cosa abbia fatto nel week end e risponde reprimendo le sue emozioni, celando la verità. Teme il giudizio altrui e perciò si nasconde dietro ciò che (secondo lui) la società ritiene normale, fingendo di essere chi non è. La menzogna continua della sua esistenza però si trasforma in una frustrazione troppo grande per continuare ad essere mantenuta. Saranno Coscienza e Consapevolezza a fargli capire ciò che conta. La storia di Paolo è la storia di tanti: è la storia dei Ragazzi che amano ragazzi di Paterlini, quella di Jonathan Bazzi in Febbre e quella de Il mio tutto Chiara Zaccardi. È una storia di cui non si parla abbastanza: per quanto ancora accetteremo la sofferenza di chi rinuncia alla felicità per terrore del giudizio altrui? L’idea alla base dell’intreccio, pur non essendo così originale, è attuale e necessaria. La forma dell’opera è sicuramente peculiare e lodevole, trattandosi di una sceneggiatura teatrale in cui il protagonista affronta i suoi demoni a colpi di monologhi e dialoghi con Simone, Coscienza e Consapevolezza.
Da diversi giorni Jonathan ha una febbre costante: poche linee, ma persistenti. Pensa sia solo stanchezza, una frescata, una cavolata insomma. Ma allo Da diversi giorni Jonathan ha una febbre costante: poche linee, ma persistenti. Pensa sia solo stanchezza, una frescata, una cavolata insomma. Ma allora perché non sparisce? Le settimane trascorrono lentamente e il malessere aumenta, segue la preoccupazione. Si decide quindi a consultare un medico: fa gli esami del caso, aspetta gli esiti. E spera. Ma non è sufficiente. Arriva il verdetto: ha l’HIV. Quel temibile virus a cui non si pensa mai, o quasi mai, e che può apparire come una sentenza di morte. Eppure, per Jonathan, così non è. In questo modo, tutto cambia: inizia un’altra vita scandita da ansie, pastiglie, visite mediche e rivincite verso la vita. Basta bugie, basta timori, basta rancori. Jonathan si mostra per ciò che è. La storia di Jonathan si muove su due linee temporali differenti: quella che riguarda Rozzano, via Giacinti, Tina e Roberto e quella che riguarda Marius, l’università, lo yoga e l’HIV. Bazzi descrive la sua infanzia a colpi di agguati in casa, tentati accoltellamenti, atti di bullismo e separazioni, alternando i capitoli del passato a quelli del presente, dove sono la preoccupazione e poi la rinascita ad affermarsi. E lo fa con uno stile davvero unico, che francamente ancora sono riuscita a comprendere solo in parte. Un romanzo 2.0, una sorta di flusso di coscienza dai tratti rap. Non so, a volte sembra di leggere il diario di un ragazzino che necessita di sfogarsi, altre si rimane stupefatti dalla bellezza delle parole e altre ancora si resta interdetti dalla sfacciataggine di chi scrive. E in effetti la brutalità con cui Bazzi si racconta è tanta e, a ben vedere, è proprio questo il pregio del romanzo. L’autore si spoglia di ogni remora e racconta senza filtri il dolore di un ragazzo balbuziente, nato e cresciuto nel Bronx italiano. Un ragazzo intimorito rispetto all’espressione della propria sessualità, che, solo dopo aver scoperto di essere sieropositivo, si libera dalla paura della morte, e inizia davvero a vivere.
Francia, Borgogna, Brancion-en-Chalon. Un piccolo cimitero diviso in settori: allori, fusaggini, cedri, tassi, colombari e giardini del ricordo. VioleFrancia, Borgogna, Brancion-en-Chalon. Un piccolo cimitero diviso in settori: allori, fusaggini, cedri, tassi, colombari e giardini del ricordo. Violette Toussaint, la signora Ognissanti, a discapito del suo cognome, ogni giorno si prende cura dei fiori, del paradiso terrestre delle anime e di coloro che vengono a piangerle: a costoro offre caffè e conforto, leggendo loro gli elogi funebri che non hanno potuto ascoltare. Un giorno si presenta il commissario Julien Seul: giunge da Marsiglia per seppellire la madre, Irene Fayolle, proprio in quel cimitero. È Irene ad aver chiesto esplicitamente di avere la tomba accanto a quella del famoso avvocato Gabriel Prudent. A partire dall’incontro fra Julien e Violette, il romanzo si snoda su due piani temporali differenti e permette di conoscere a fondo la protagonista: una donna che ha conosciuto la solitudine sin da piccola e che ben presto ha trovato l’amore in un uomo molto più grande di lei, Philippe Toussaint (inutile dirlo: scomparso pure lui, ormai trent’anni fa). La storia dei due assume i tratti dell’incredibile. E non è questione di sentimento o di passione, ma di accadimenti, di attimi di vita, di incontri, di motivazioni alla base di precisi comportamenti. È l’intreccio il pregio principale del romanzo: la trama che ne sta alla base, il legame fra i personaggi, che, come in un puzzle dai mille pezzi, si incastrano perfettamente formando un’immagine che affascina e che, solo alla fine, si è capaci di apprezzare sino in fondo. Lo stile e la struttura del romanzo seguono il contenuto. Le linee temporali si intrecciano e i personaggi, sospesi fra passato e presente, emergono attraverso dialoghi autentici. La loro storia si scopre lentamente, con pazienza. La stessa pazienza con cui Violette cura il paradiso delle anime. All’inizio non comprendevo come fosse possibile che tutti parlassero così bene di “Cambiare l’acqua ai fiori“: più leggevo e più l’interrogativo cresceva. Sì, originale l’idea della protagonista; sì, carina la trovata di inserire delle frasi, quasi degli epitaffi, all’inizio di ogni capitolo, ma nulla di più. Poi, come spesso accade, mentre ero quasi certa che sarei rimasta delusa dal romanzo, sono arrivata alla svolta: il gomitolo di domande che avevo fra le mani si è dissolto velocemente, fornendomi tutte le risposte che cercavo, se non qualcuna di più. Sento spesso dire che perdere un figlio è la cosa peggiore che ci sia, ma sento anche dire che ancora peggio è non sapere, che più agghiacciante di una tomba è la faccia di uno scomparso affissa su pali, muri e vetrine o diffusa dai giornali e dalla televisione, foto che invecchiano ma in cui il volto che raffigurano non invecchia mai, che ancora più terribile di un funerale è l’anniversario della scomparsa, il servizio alla televisione, il lancio dei palloncini, la marcia bianca e silenziosa.
Ecco la grandezza del romanzo che, piano piano, trasforma il lettore nel confidente di Violette, di Philippe, di Julien, di Gabriel, di Irene, di Sasha… di Leonine, e lo incanta con parole ormai familiari.
**spoiler alert** Da sempre nutro un amore incondizionato verso la filosofia.
Ricordo che al liceo la maggior parte dei miei compagni di classe, durant**spoiler alert** Da sempre nutro un amore incondizionato verso la filosofia.
Ricordo che al liceo la maggior parte dei miei compagni di classe, durante l’ora di filosofia, rimaneva interdetta: non riuscivano a comprendere il senso delle parole dei professori che ci raccontavano con passione di tutti quegli uomini che nei vari secoli avevano cercato di capire il senso della vita, come si raggiungesse la felicità, quale fosse la giusta condotta da tenere… e molto altro ancora. Non ne vedevano lo scopo, il fine. E io, all’opposto, ne ero affascinata. Anzi, lo sono ancora.
Facile comprendere, dunque, come questo piccolo libriccino – il cui titolo contiene una delle mie combo preferite: filosofia e felicità – mi sia balzato subito agli occhi e abbia sentito la necessità di leggerlo!
Edito da Einaudi nel 2019, Lezioni di felicità. Esercizi filosofici per il buon uso della vita, altro non è che il risultato di un esperimento realizzato dalla protagonista – rectius dall’autrice, Ilaria Gaspari – che, con il cuore a pezzi per la fine di un amore, si trova a dover lasciare la casa dove vive con il suo compagno iniziando a chiedersi (filosoficamente, aggiungerei!) se fosse – o, forse, se fosse mai stata – felice.
Sono disperata, come chiunque venga mollato di punto in bianco, dopo dieci anni d’amore – oltretutto con l’incombenza di traslocare perché l’affitto all’improvviso è troppo alto. Questo trasloco è una violenza; eppure mi sta succedendo qualcosa. È uno strappo, ma come quello di un cielo cartapesta che si laceri in un teatrino di marionette: dietro vedo il cielo, quello vero.
Per la prima volta dopo molto tempo, ritrovo la sensazione asprigna della libertà, mentre tutto crolla e si disperde. Forse è il momento di pensare a un modo per essere felice.
Così, mentre inizia a svuotare la casa e a riempire le scatole partendo dalla libreria, capisce che la risposta alla sua domanda può arrivare proprio da lì, dalle pagine dei libri che non apriva da anni, dalle parole dei maestri, dalla filosofia greca.
Mi ritrovo seduta sul parquet, in mezzo alla confusione degli scatoloni, a leggere. Improvvisamente, insieme al sollievo di non essermi rotta l’osso del collo, è arrivata l’illuminazione. Ho bisogno di una scuola, e di scuole, la filosofia greca antica ne ha prodotte a bizzeffe. Mi iscriverò a tutte quelle a cui posso iscrivermi.
Comincerò così, ora che ne ho più bisogno, ora che avrei cose ben più urgenti di cui occuparmi, la mia educazione filosofica, la mia ricerca della felicità.
Inizia, dunque, a cercare la felicità seguendo letteralmente i precetti e i pensieri di sei scuole diverse per sei settimane consecutive: la pitagorica, l’eleatica, la scettica, la stoica, l’epicurea e, infine, la cinica. Destreggiandosi fra gli insegnamenti delle scuole antiche, la protagonista, si ritrova a educare se stessa a regole che le impongono di comportarsi diversamente a quanto normalmente avrebbe fatto, sorprendendosi delle scoperte che ne derivano.
Per provare a essere felicemente imperturbabile, devo smettere di darmi da fare per avere tutto sotto controllo, provare ad abbandonarmi al caso sospendendo ogni giudizio su quello che faccio.
E allora inizio a ragionare in un modo che non è il solito, e a dirmi: e se fossimo frecce immobili? Se il puntare verso qualcosa non fosse un puro accidente, non un luogo verso cui è giusto andare, non una meta, non un obiettivo? Se non ci fosse nessun bersaglio, nessun moto a luogo, nessun centro in cui conficcarci; se non ci fosse altro che l’immobilità sospesa degli istanti?
Ed ecco la riflessione che più mi ha colpita.
Perché quest’abitudine di capitalizzare il tempo mi ha resa avara, insensibile alla perfezione degli istanti.
Immediato il richiamo al consumismo e alla nostra mentalità occidentale, per dirla un po’ alla Gianluca Gotto.
Ma non sono più così sicura che pensare di dover sfruttare ogni istante abbia davvero senso. Perché – ci faccio caso solo adesso, e chissà se ci avrei mai pensato, senza la sottile violenza logica che sulla mia concezione del tempo, finora così ostinatamente conformista, ha esercitato Zenone di Elea – proprio il fatto di credere che debba essere tutto utile, che ogni esperienza debba per forza servirci, farci crescere e maturare come frutti nella tarda primavera, rende avari di tempo.
Il tempo che credo di aver perso amando la persona sbagliata, chi me lo ridarà indietro? Questo mi addolora – mi addolorava, almeno, fino a quando non ho incontrato Zenone. Che meschinità verso di me, verso la vita, verso il tempo, convincermi di averne perso tanto solo perché sono rimasta delusa, solo perché l’investimento non è andato a buon fine. Che orrore, ostinarsi a vedere una storia che finisce come una bancarotta – che stupido pensare che il tempo e l’amore e la vita siano solo un richiamo all’efficienza.
La penna di Ilaria Gaspari è perfettamente coerente con il contenuto del libro: i periodi lunghi e ben punteggiati, il lessico vario, le frasi dubitative, rivelano tutta la sua matrice classica.
E però c’è qualcosa che il paradosso mi insegna, in una casa quasi vuota, in giorni in cui mi sento fallire e penso alla bancarotta assoluta del mio tempo, delle speranze che ho spiato crescere, della vita che credevo di aver costruito, poco alla volta, perché l’avvenire potesse essere luminoso e facile e risplendere di quella straordinaria efficienza che tutti i pigri immaginano nella loro inesistente vita futura. I paradossi di Zenone mi insegnano che può anche essere un errore sovrapporre al tempo una freccia, credere di vederlo scorrere sempre in una direzione, dritto verso un obiettivo. E che ci derubiamo del tempo, della piccola perfetta finitezza degli istanti, quando lo proiettiamo tutto in avanti, quando immaginiamo di vederlo correre; quando pensiamo a quel che punta la freccia e non, invece, a cosa la sostenga nel punto in cui si trova.
Da premiare, comunque, il fatto che le pagine scorrano alla giusta andatura, senza risultare troppo pesanti e, anzi, creando un libro piacevole. L’effetto è accentuato dagli episodi divertenti che l’autrice racconta e che, assieme alle spiegazioni sulle scuole filosofiche, ai pensieri e alle riflessioni che ne derivano, determinano un testo equilibrato e armonico.
Senza che all’inizio ci facessi caso, questo esperimento esistenziale che ho inventato serve precisamente a tenermi occupata; e, forse, spero (mi illudo?), anche a farmi capire qualcosa in più di me, della vita, di quello che nessuno ci sa spiegare: come si vive, come si fa a vivere dopo che si è squarciato il fondale dipinto di blu e si è scoperto che non era quello il cielo; dopo che si è fatto strada il pensiero che tutto ha una fine, anche se i sintomi della fine restano invisibili fino all’ultimo.
Difficile riuscire a recensire questo breve romanzo: una favola moderna, per adulti (o quasi!), ambientata fra Spagna, Marocco ed Egitto, in un’epoca Difficile riuscire a recensire questo breve romanzo: una favola moderna, per adulti (o quasi!), ambientata fra Spagna, Marocco ed Egitto, in un’epoca senza tempo in cui non si inizia con c’era una volta e non si conclude con e tutti vissero felici e contenti. Eppure, terminata l’ultima pagina del libro, spunta il sorriso, cresce la speranza e i sogni si trasformano in obiettivi. E interessante è la vita di Santiago, il protagonista, che trova il coraggio di abbandonare la vita scelta per lui dai genitori, lasciando il seminario per coltivare la sua passione: viaggiare. Lo fa in un modo particolare, però, conducendo una modesta vita da pastore: girovaga fra i pascoli e i libri, che di giorno legge e di notte usa come cuscini. Quando per la seconda volta Santiago sogna un bambino che gli dice che deve recarsi alle Piramidi d’Egitto perché lì troverà un tesoro, il pastore decide di credere a quella visione. Parte, incontra un vecchio, forse un re, che gli parla della Leggenda Personale e prova a spiegargli quanto sia importante vivere per realizzare i propri desideri, inseguendo i sogni, senza farsi fermare dalla paura. Santiago è indeciso, non sa se sia giusto abbandonare la sua vita, che procede regolare e tranquilla, giorno per giorno. Non solo: Santiago capisce anche che tutto quanto aveva fatto fino ad allora aveva un senso. Il dubbio è un compagno assiduo: gli fa pensare che tutto sommato la sua vita non è male, che potrebbe tornare a casa e fare di nuovo il pastore invece che ripartire e attraversare il deserto per raggiungere le Piramidi. Prosegue l’avventura, si ferma presso un’oasi e si innamora di Fatima. Per un attimo pensa di restare là, abbandonare quanto aveva tanto desiderato, la ragione per cui era partito; del resto, quando ci si innamora, nulla più conta. E invece capisce che l’amore non impedisce mai a un uomo di seguire la sua Leggenda Personale; così riparte, affiancato da un misterioso cavaliere, l’Alchimista, colui che parla con il deserto, con il vento, colui che si distingue dagli altri alchimisti perché non usa la sola ragione e gli insegna. Cosa? Quello che conta davvero.